Anche a questo giro mi trovo a scrivere parole già sostenute 12 e poi 24 mesi fa ecc.
L'esistenza è sempre più sfibrante, i tempi di vita sempre più ridotti, quindi di musica se ne ascolta poca e quasi sempre male: in cuffia sui mezzi pubblici, piuttosto che in pausa al lavoro, strappando letteralmente con le unghie e i denti qualche istante di raccoglimento per se stessi e il proprio gusto, nei confronti di un mondo sempre più invadente con la propria superficiale sciatteria.
Comunque, lo scorso anno auspicai un 2019 che la mandasse meglio e tutto sommato così è stato. Ovviamente le novità, in senso anagrafico di pubblicazione, sono state quasi del tutto assenti dai miei palinsesti, a dimostrazione della china ormai irreversibile in cui versa la musica non solo come arte, ma anche come intrattenimento di qualità – e al mondo del cinema butta pure peggio con l'espandersi della pestilenza Netflix e dello stuolo di youtuber prezzolati che non parlano d'altro pur senza essere in grado di farlo –.
La nuova uscita dei 12 mesi appena trascorsi che ricordo con maggior piacere è quella dei redivivi Sacred Reich, probabilmente gli unici tra gli zombie resuscitatati dopo un quarto di secolo d'oblio a mettere insieme un disco contenente quattro idee assemblate con cognizione di causa. Chapeau a loro dunque.
Un gradino appena sotto, esclusivamente perchè verso di loro ripongo aspettative piuttosto elevate, i Die Krupps dell'ultimo e penultimo disco, che si confermano un ritorno assolutamente necessario per l'industrial.
Discreto anche l'ennesimo prodotto degli Overkill, che nonostante una cadenza di pubblicazione biennale e 40 anni di attività sul groppone, riescono sempre – I Hear Black a parte – a cacciare sul mercato dischi ascoltabili. Ovviamente nulla di più, ma la pochezza del mercato in cui s'inseriscono indubbiamente li aiuta a risaltare oltre i propri meriti oggettivi.
Il resto di quello che ho apprezzato è tutta roba che ha dai 25 anni in su con una considerevole quota di revival, su cui certamente influiscono gli anni che si ammucchiano sulla mia schiena. Nell'ordine:
- Billy Idol - Rebel Yell;
- Motorhead - Overkill;
- Iron Maiden con l'omonimo e Killer (l'omonimo in particolare si è imposto a quasi 20 anni dalla prima volta in cui l'ho ascoltato, come uno tra i dischi heavy metal più belli; forse, in assoluto il migliore);
- Benediction - Killing Music (che continuo a considerare una delle migliori uscite death metal old school di sempre);
- Vari recuperi thrash e death metal con presenza preponderante di Testament, Sepultura, Sodom, Pestilence, Atheist e Death;
- i Sonic Youth di Daydream nation che sono probabilmente il livello più alto dell'indie rock statunitense.
Sul tetto del mondo invece quattro nomi soltanto:
- i Doors a cui sono finalmente riuscito a dedicarmi a modo;
- i Morphine autori a me sconosciuti di un esordio assolutamente eccezionale che consiglierei anche ai sordi;
- gli X, che mi hanno lasciato basito come non succedeva da troppo tempo, perchè non sono solo musica ma la descrizione in anticipo di 30 anni del mondo d'oggi;
- i Velvet Underground che nel 1967 misero su disco i canoni stilistici del 75% della musica venuta dopo di loro.
Con un certo rammarico mi tocca scrivere che difficilmente il 2020 sarà capace di ripetersi a questi livelli, ma non è mai detta...
31/12/2019
Il rischio della normalizzazione si affaccia in Catalunya
Mentre non si è ancora spento l’eco della sentenza del Tribunale di Giustizia dell’UE, favorevole all’immunità per Oriol Junqueras (il presidente di ERC in prigione da due anni), prosegue la manovra del PSOE e della direzione dei repubblicani volta a neutralizzare l’indipendentismo popolare e ad evitare che l’attività dei CDR (Comitati di Difesa della Repubblica) e della sinistra anticapitalista possa mettere in discussione l’egemonia del catalanismo moderato sul movimento.
Come denunciato da diverse voci dell’indipendentismo anticapitalista, siamo di fronte a un tentativo di ricomposizione del regime volto a seppellire il conflitto e la trasformazione sociale e istituzionale in Catalunya e nel resto dello Stato.
Il PSOE si rifiuta di parlare di autodeterminazione e di amnistia, ma ha concesso un tavolo di negoziazione che ERC ha assai apprezzato. Il “dialogo” offerto dai socialisti si sposa con la strategia dei piccoli passi e dell’accumulazione delle forze dei repubblicani, due opzioni che hanno in comune l’intenzione di oscurare completamente la lotta e l’autorganizzazione dal basso dell’indipendentismo.
Il Congresso di Esquerra Repúblicana, conclusosi sabato scorso, ha visto un ampio consenso attorno alla proposta di un referendum di autodeterminazione accordato con lo Stato. Il settore critico non è riuscito a far riconoscere dalla maggioranza il mandato vincolante del primo ottobre ed è evidente che la via imboccata dal partito è quella della rinuncia al conflitto. In questa prospettiva, la questione catalana è destinata a rimanere una rivoluzione incompiuta, come l’ha definita a suo tempo Marco Santopadre nel suo libro La sfida catalana.
Nel suo intervento alla Convenzione repubblicana del sovranismo progressista del 14 dicembre, Joan Tardà, uno dei cervelli di ERC, si è spinto fino a definire il partito socialista catalano (PSC) come un “elemento centrale del catalanismo“, sostenendo la necessità di ottenerne l’appoggio nell’ipotesi di un nuovo governo delle sinistre moderate alla guida della Generalitat. Uno scenario che seppellirebbe qualsiasi trasformazione sociale e istituzionale e che si tradurrebbe in un nuovo periodo di gestione ordinaria dell’autonomia catalana.
Con la differenza che mentre negli anni ’80, ’90 e fino oltre il 2000 era il partito del centrodestra catalano a svolgere il ruolo di vassallo dello stato, ora sarebbe ERC ad amministrare le briciole del potere.
Uno scenario di triplice normalizzazione:
1) sul piano istituzionale, con la questione della costruzione della Repubblica rinviata a un futuro indefinito;
2) sul piano sociale, con la fine delle velleità di giustizia e di ricostruzione del settore pubblici;
3) sul piano internazionale, con la riduzione ai minimi termini della critica all’Unione Europea.
Una normalizzazione chiesta a gran voce da Foment del Treball, l’associazione delle grandi imprese catalane e dal capitale spagnolo. E con l’UE che, se con il Tribunale di Giustizia sostiene da un lato l’immunità di Junqueras, rianimando così il sentimento europeista dei catalani, dall’altro con la Commissione ribadisce la propria linea sulla questione catalana, improntata al rispetto della cornice costituzionale spagnola.
Solo i settori dell’indipendentismo radicale, i CDR e la Candidatura d’Unitat Popular (CUP), si mostrano indisponibili all’inciucio con i poteri forti e alla svendita del movimento. E gli anticapitalisti catalani hanno già messo in chiaro le caratteristiche della loro presenza al Congresso: lavorare per rendere ingovernabile la Spagna.
Nel corso della Convenzione repubblicana del sovranismo progressista, Albert Botran, neo deputato della Cup a Madrid, ha sostenuto la necessità di riempire di contenuti sociali la costruzione della Repubblica catalana, per conquistare l’egemonia nelle classi popolari e sconfiggere il disegno del capitale finanziario, facendo delle politiche di trasformazione e di giustizia sociale l’asse centrale del progetto di costruzione della Repubblica catalana.
Obbiettivi da perseguire con l’ulteriore sviluppo della lotta nelle piazze, con l’autorganizzazione popolare e con il sostegno delle istituzioni catalane. Certo non con la tattica attendista di accumulazione delle forze proposta da ERC.
Per l’indipendentismo popolare la lotta non si ferma: a Barcelona il blocco stradale dell’Avinguda Meridiana è arrivato a 77 notti consecutive, grazie alla determinazione dei vicini del quartiere che, scesi in piazza all’insegna dello slogan “la Meridiana resiste”, si definiscono “la piccola Gallia”. Da qualche giorno, anche a Girona un gruppo di manifestanti blocca ogni sera un’arteria centrale della città, nell’intenzione di mantenere viva la protesta.
E mentre a Madrid si susseguono le trattative, le riunioni e le strette di mano con il re per formare il nuovo governo, è significativo che la CUP abbia preferito al salotto del monarca il quartiere popolare di Lavapiés, dove ha dato vita ad una iniziativa con altre forze anticapitaliste.
Davanti alla platea, i neo deputati della CUP si sono messi a disposizione di quei collettivi che lavorano per costruire contropotere dal basso, al fine di portare al collasso il cosiddetto “regime del ’78”. Un regime nel cui abbraccio rischia di perdersi Podemos, assai accondiscendente non solo con il PSOE ma anche con il re.
Nel suo discorso di Natale, Filippo VI ha definito la Catalunya una preoccupazione al pari della crisi ambientale e delle difficoltà economiche degli spagnoli, una iattura insomma. Ma Pablo Echenique, probabile futuro ministro di Podemos, ha sottolineato il tono più morbido del discorso rispetto a quello pronunciato il 3 ottobre 2017, evidenziando quello che ha definito il fiuto politico del monarca.
Così come hanno fatto anche ERC e EH Bildu, la CUP ha declinato l’invito del Borbone, al quale però ha inviato una lettera significativa, datata 11 dicembre 2019 e intitolata Non riconosciamo il re: lettera al monarca.
Qui di seguito la lettera della CUP – per la rottura al re Filippo VI
Signor Filippo,
con questa lettera decliniamo il suo invito a partecipare alle consultazioni per assegnare l’incarico al nuovo presidente del governo spagnolo. Avevamo molti temi da proporle, però l’incarico al nuovo governo era sicuramente il meno importante.
Ci sarebbe piaciuto parlare, tanto per cominciare, del male che ha fatto la sua stirpe, tanto il ramo francese quanto quello spagnolo, ai Països Catalans nel corso della storia, un male che, a partire da Filippo V, non è mai stato riparato. Un Filippo di triste memoria, che abolì le istituzioni, represse il popolo ribelle (che ancora oggi gli canta contro le sue canzoni) e dette inizio alle persecuzioni contro la nostra lingua.
Sicuramente lei regna con lo stesso nome per ripetere il messaggio che i suoi progenitori decisero di inviare ai catalani e alle catalane. Sono passati i secoli però la repressione della monarchia spagnola contro il nostro popolo persiste.
E potremmo parlare anche della corruzione cronica che infanga la sua famiglia, a partire da suo padre, la cui fortuna è calcolata attorno ai 2.000 milioni di dollari, per seguire con sua sorella Cristina, assolta vergognosamente dalla giustizia; potremmo parlare dei legami tra la monarchia e le imprese più importanti dell’Ïbex 35; o della partecipazione attiva della casa reale alla vendita di armi a dittature quali l’Arabia Saudita.
Tutti segnali della profonda continuità con gli interessi della corrotta dittatura franchista, alla quale continuate a conferire titoli nobiliari, grazie alla riconversione in monarchia parlamentare; una continuità che ha garantito soprattutto suo padre, figura centrale per il nuovo consenso guadagnato in seguito al suo protagonismo nel colpo di stato del 23 febbraio; un consenso grazie al quale è stato possibile ripulire l’immagine dell’oligarchia politica ed economica del regime, oltre che delle forze repressive e giudiziarie, conservatesi intatte.
Potremmo parlare anche dell’aumento della repressione contro decine di persone colpevoli solo di assumere una posizione contraria alla monarchia e che, nonostante nella maggior parte dei casi siano assolte (un esempio di come la libertà d’espressione si difenda con la lotta, come quando si bruciano le sue foto) sono obbligate a subire il processo per ingiurie alla corona.
O potremmo ragionare sul perché la sua popolarità sia al minimo storico, dopo che il 3 ottobre 2017, quando il popolo catalano lamentava le aggressioni poliziesche, lei apparse in tv per sostenere la repressione e dire che l’unità della Spagna è l’unico valore che gli interessa davvero. In questo, sia lei che suo padre siete stati estremamente fedeli al dittatore che vi rimise sul trono.
Questi temi sono probabilmente quelli che la maggioranza del nostro popolo le sottoporrebbe, se ne avesse l’occasione. Tuttavia quando viene nel nostro paese, lei sceglie di circondarsi di adulatori di ogni specie, che utilizzano la sua figura come la mascotte di un regime cadente. Impresari, politici e giornalisti di corte che sono ben lontani dal rappresentare la nostra società, la quale difende invece la libertà d’espressione, i valori repubblicani e il diritto all’autodeterminazione.
Ma il protocollo del colloqui non avrebbe consentito di parlare di questi temi. E cosí invece di perdere tempo con lei abbiamo scelto di svolgere un’iniziativa battezzata con la strofa di un vecchio inno del repubblicanesimo catalano, “il popolo vuole essere re”, alla quale inviteremo i movimenti sociali e le forze di sinistra di Madrid.
Ci sembra più pertinente spiegare il nostro punto di vista davanti a questo publico, con il quale condividiamo la solidarietà internazionalista, quella sociale e morale, piuttosto che davanti a una persona rifiutata dal nostro popolo, come dimostrano i fischi che ricevette quando sfilò al Passeig de Gràcia di Barcelona in seguito agli attentati dell’agosto 2017 e come accade ogni volta che mette piede nel nostro paese.
Visca i Països Catalans!
Indipendenza e Repubblica!
Fonte
Come denunciato da diverse voci dell’indipendentismo anticapitalista, siamo di fronte a un tentativo di ricomposizione del regime volto a seppellire il conflitto e la trasformazione sociale e istituzionale in Catalunya e nel resto dello Stato.
Il PSOE si rifiuta di parlare di autodeterminazione e di amnistia, ma ha concesso un tavolo di negoziazione che ERC ha assai apprezzato. Il “dialogo” offerto dai socialisti si sposa con la strategia dei piccoli passi e dell’accumulazione delle forze dei repubblicani, due opzioni che hanno in comune l’intenzione di oscurare completamente la lotta e l’autorganizzazione dal basso dell’indipendentismo.
Il Congresso di Esquerra Repúblicana, conclusosi sabato scorso, ha visto un ampio consenso attorno alla proposta di un referendum di autodeterminazione accordato con lo Stato. Il settore critico non è riuscito a far riconoscere dalla maggioranza il mandato vincolante del primo ottobre ed è evidente che la via imboccata dal partito è quella della rinuncia al conflitto. In questa prospettiva, la questione catalana è destinata a rimanere una rivoluzione incompiuta, come l’ha definita a suo tempo Marco Santopadre nel suo libro La sfida catalana.
Nel suo intervento alla Convenzione repubblicana del sovranismo progressista del 14 dicembre, Joan Tardà, uno dei cervelli di ERC, si è spinto fino a definire il partito socialista catalano (PSC) come un “elemento centrale del catalanismo“, sostenendo la necessità di ottenerne l’appoggio nell’ipotesi di un nuovo governo delle sinistre moderate alla guida della Generalitat. Uno scenario che seppellirebbe qualsiasi trasformazione sociale e istituzionale e che si tradurrebbe in un nuovo periodo di gestione ordinaria dell’autonomia catalana.
Con la differenza che mentre negli anni ’80, ’90 e fino oltre il 2000 era il partito del centrodestra catalano a svolgere il ruolo di vassallo dello stato, ora sarebbe ERC ad amministrare le briciole del potere.
Uno scenario di triplice normalizzazione:
1) sul piano istituzionale, con la questione della costruzione della Repubblica rinviata a un futuro indefinito;
2) sul piano sociale, con la fine delle velleità di giustizia e di ricostruzione del settore pubblici;
3) sul piano internazionale, con la riduzione ai minimi termini della critica all’Unione Europea.
Una normalizzazione chiesta a gran voce da Foment del Treball, l’associazione delle grandi imprese catalane e dal capitale spagnolo. E con l’UE che, se con il Tribunale di Giustizia sostiene da un lato l’immunità di Junqueras, rianimando così il sentimento europeista dei catalani, dall’altro con la Commissione ribadisce la propria linea sulla questione catalana, improntata al rispetto della cornice costituzionale spagnola.
Solo i settori dell’indipendentismo radicale, i CDR e la Candidatura d’Unitat Popular (CUP), si mostrano indisponibili all’inciucio con i poteri forti e alla svendita del movimento. E gli anticapitalisti catalani hanno già messo in chiaro le caratteristiche della loro presenza al Congresso: lavorare per rendere ingovernabile la Spagna.
Nel corso della Convenzione repubblicana del sovranismo progressista, Albert Botran, neo deputato della Cup a Madrid, ha sostenuto la necessità di riempire di contenuti sociali la costruzione della Repubblica catalana, per conquistare l’egemonia nelle classi popolari e sconfiggere il disegno del capitale finanziario, facendo delle politiche di trasformazione e di giustizia sociale l’asse centrale del progetto di costruzione della Repubblica catalana.
Obbiettivi da perseguire con l’ulteriore sviluppo della lotta nelle piazze, con l’autorganizzazione popolare e con il sostegno delle istituzioni catalane. Certo non con la tattica attendista di accumulazione delle forze proposta da ERC.
Per l’indipendentismo popolare la lotta non si ferma: a Barcelona il blocco stradale dell’Avinguda Meridiana è arrivato a 77 notti consecutive, grazie alla determinazione dei vicini del quartiere che, scesi in piazza all’insegna dello slogan “la Meridiana resiste”, si definiscono “la piccola Gallia”. Da qualche giorno, anche a Girona un gruppo di manifestanti blocca ogni sera un’arteria centrale della città, nell’intenzione di mantenere viva la protesta.
E mentre a Madrid si susseguono le trattative, le riunioni e le strette di mano con il re per formare il nuovo governo, è significativo che la CUP abbia preferito al salotto del monarca il quartiere popolare di Lavapiés, dove ha dato vita ad una iniziativa con altre forze anticapitaliste.
Davanti alla platea, i neo deputati della CUP si sono messi a disposizione di quei collettivi che lavorano per costruire contropotere dal basso, al fine di portare al collasso il cosiddetto “regime del ’78”. Un regime nel cui abbraccio rischia di perdersi Podemos, assai accondiscendente non solo con il PSOE ma anche con il re.
Nel suo discorso di Natale, Filippo VI ha definito la Catalunya una preoccupazione al pari della crisi ambientale e delle difficoltà economiche degli spagnoli, una iattura insomma. Ma Pablo Echenique, probabile futuro ministro di Podemos, ha sottolineato il tono più morbido del discorso rispetto a quello pronunciato il 3 ottobre 2017, evidenziando quello che ha definito il fiuto politico del monarca.
Così come hanno fatto anche ERC e EH Bildu, la CUP ha declinato l’invito del Borbone, al quale però ha inviato una lettera significativa, datata 11 dicembre 2019 e intitolata Non riconosciamo il re: lettera al monarca.
Qui di seguito la lettera della CUP – per la rottura al re Filippo VI
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Signor Filippo,
con questa lettera decliniamo il suo invito a partecipare alle consultazioni per assegnare l’incarico al nuovo presidente del governo spagnolo. Avevamo molti temi da proporle, però l’incarico al nuovo governo era sicuramente il meno importante.
Ci sarebbe piaciuto parlare, tanto per cominciare, del male che ha fatto la sua stirpe, tanto il ramo francese quanto quello spagnolo, ai Països Catalans nel corso della storia, un male che, a partire da Filippo V, non è mai stato riparato. Un Filippo di triste memoria, che abolì le istituzioni, represse il popolo ribelle (che ancora oggi gli canta contro le sue canzoni) e dette inizio alle persecuzioni contro la nostra lingua.
Sicuramente lei regna con lo stesso nome per ripetere il messaggio che i suoi progenitori decisero di inviare ai catalani e alle catalane. Sono passati i secoli però la repressione della monarchia spagnola contro il nostro popolo persiste.
E potremmo parlare anche della corruzione cronica che infanga la sua famiglia, a partire da suo padre, la cui fortuna è calcolata attorno ai 2.000 milioni di dollari, per seguire con sua sorella Cristina, assolta vergognosamente dalla giustizia; potremmo parlare dei legami tra la monarchia e le imprese più importanti dell’Ïbex 35; o della partecipazione attiva della casa reale alla vendita di armi a dittature quali l’Arabia Saudita.
Tutti segnali della profonda continuità con gli interessi della corrotta dittatura franchista, alla quale continuate a conferire titoli nobiliari, grazie alla riconversione in monarchia parlamentare; una continuità che ha garantito soprattutto suo padre, figura centrale per il nuovo consenso guadagnato in seguito al suo protagonismo nel colpo di stato del 23 febbraio; un consenso grazie al quale è stato possibile ripulire l’immagine dell’oligarchia politica ed economica del regime, oltre che delle forze repressive e giudiziarie, conservatesi intatte.
Potremmo parlare anche dell’aumento della repressione contro decine di persone colpevoli solo di assumere una posizione contraria alla monarchia e che, nonostante nella maggior parte dei casi siano assolte (un esempio di come la libertà d’espressione si difenda con la lotta, come quando si bruciano le sue foto) sono obbligate a subire il processo per ingiurie alla corona.
O potremmo ragionare sul perché la sua popolarità sia al minimo storico, dopo che il 3 ottobre 2017, quando il popolo catalano lamentava le aggressioni poliziesche, lei apparse in tv per sostenere la repressione e dire che l’unità della Spagna è l’unico valore che gli interessa davvero. In questo, sia lei che suo padre siete stati estremamente fedeli al dittatore che vi rimise sul trono.
Questi temi sono probabilmente quelli che la maggioranza del nostro popolo le sottoporrebbe, se ne avesse l’occasione. Tuttavia quando viene nel nostro paese, lei sceglie di circondarsi di adulatori di ogni specie, che utilizzano la sua figura come la mascotte di un regime cadente. Impresari, politici e giornalisti di corte che sono ben lontani dal rappresentare la nostra società, la quale difende invece la libertà d’espressione, i valori repubblicani e il diritto all’autodeterminazione.
Ma il protocollo del colloqui non avrebbe consentito di parlare di questi temi. E cosí invece di perdere tempo con lei abbiamo scelto di svolgere un’iniziativa battezzata con la strofa di un vecchio inno del repubblicanesimo catalano, “il popolo vuole essere re”, alla quale inviteremo i movimenti sociali e le forze di sinistra di Madrid.
Ci sembra più pertinente spiegare il nostro punto di vista davanti a questo publico, con il quale condividiamo la solidarietà internazionalista, quella sociale e morale, piuttosto che davanti a una persona rifiutata dal nostro popolo, come dimostrano i fischi che ricevette quando sfilò al Passeig de Gràcia di Barcelona in seguito agli attentati dell’agosto 2017 e come accade ogni volta che mette piede nel nostro paese.
Visca i Països Catalans!
Indipendenza e Repubblica!
Fonte
Il 2020 anno della guerra allo sfruttamento. Per fermare la strage dei lavoratori
Il 2019 ci lascia con una contabilità di omicidi sul lavoro di gran lunga superiore a quella degli anni precedenti. Al 26 dicembre erano 696 i morti nei luoghi di lavoro, che raddoppiano contando le vittime in itinere: 1395. Il 25% delle morti ha interessato ultrasessantenni, grazie alla legge Fornero; il 13% lavoratori immigrati fuggiti da guerre, povertà e cambiamento climatico. Nel complesso gli infortuni sul lavoro al 30 novembre assommavano a 600.000.
Una contabilità fredda, che non dà l’idea del dolore e dello strazio che ognuna di queste morti ha prodotto, e nemmeno delle lacerazioni provocate nel tessuto connettivo del Paese. E contabilità è il termine usato per sminuire la portata degli eventi drammatici a cui si riferisce.
Non abbiamo assistito ad alcun fremito di sdegno per le incessanti notizie di tragedie nei cantieri, nelle campagne o nelle piccole e piccolissime aziende che costituiscono l’identità della nostra impresa. Non un titolone sparato in prima pagina per indurre nei lettori una riflessione, un ripensamento sul modo di produzione capitalistico che sempre è alla base degli omicidi. Sfruttamento, incuria, inosservanza delle norme, certezza dell’impunità, a volte auto sfruttamento per tenere in piedi la baracca e resistere alle intemperie della crisi, supportati dalle complicità del sistema armano quella che alcuni ancora osano chiamare fatalità.
Chiudiamo l’anno con 1400 lavoratrici e lavoratori in meno, con altrettante famiglie che spesso al dolore della perdita di un proprio caro devono sommare l’improvvisa perdita di un reddito e quindi di una forma di sicurezza – spesso soltanto una parvenza – per il proprio futuro.
Sicurezza è la parola che sempre riaffiora quando suona la campana della lugubre contabilità per avvertirci che il numeratore è cambiato.
Ma sicurezza sta diventando sempre più una parola vuota, recitata come una litania per dimostrare di conoscerne il significato e contemporaneamente di ignorarne la funzione strategica. Quanto costa la sicurezza nei luoghi di lavoro? Quanto costa dotare gli impianti di quei dispositivi in grado di ridurre se non di impedire le probabilità che un incidente accada?
Molti pensano che i costi siano alti e convenga rischiare l’ispezione – che arriva solo molto raramente visto lo scientifico smantellamento dei programmi di prevenzione e di repressione, di chi non adotta i sistemi di sicurezza – la multa, l’imprevisto che però, in questo frangente, si traduce in mutilazioni e morti.
C’è la certezza dell’impunità, la sicumera di chi sa che potrà sempre contare sul silenzio dei media, sull’indifferenza della società, sull’ignoranza diffusa delle norme e dei sistemi di prevenzione in cui vengono scientemente tenuti lavoratori e lavoratrici che quindi non potranno esigere, in un Paese che ha un enorme esercito di disoccupati e precari pronti a rimpiazzare senza fiatare i caduti, di veder rispettare il proprio diritto a lavorare in sicurezza.
Chi denuncia, chi avverte del pericolo che si corre a lavorare senza tutele e garanzie viene fatto oggetto di repressione e mobbing, quando non direttamente licenziato come sempre più spesso sta avvenendo nei confronti di RLS o semplici delegati coraggiosi che denunciano la mancanza delle minime condizioni per poter lavorare senza correre il rischio di incidenti.
Il 2020 non sarà diverso dal 2019 se non saremo capaci di intraprendere una lotta senza quartiere che riporti al centro la guerra allo sfruttamento e ai suoi frutti avvelenati. Non basta oggi e non basterà domani chiedere misure più severe e cogenti se non aggrediamo con forza il tema dello sfruttamento e il suo essere considerato normale nel lessico della nostra società.
È la lotta di classe che potrà interrompere la drammatica contabilità degli omicidi, è la riscoperta della consapevolezza dei propri diritti che può fare la differenza. È l’impegno che assumiamo ancora con più forza per l’anno che arriva.
Fonte
Una contabilità fredda, che non dà l’idea del dolore e dello strazio che ognuna di queste morti ha prodotto, e nemmeno delle lacerazioni provocate nel tessuto connettivo del Paese. E contabilità è il termine usato per sminuire la portata degli eventi drammatici a cui si riferisce.
Non abbiamo assistito ad alcun fremito di sdegno per le incessanti notizie di tragedie nei cantieri, nelle campagne o nelle piccole e piccolissime aziende che costituiscono l’identità della nostra impresa. Non un titolone sparato in prima pagina per indurre nei lettori una riflessione, un ripensamento sul modo di produzione capitalistico che sempre è alla base degli omicidi. Sfruttamento, incuria, inosservanza delle norme, certezza dell’impunità, a volte auto sfruttamento per tenere in piedi la baracca e resistere alle intemperie della crisi, supportati dalle complicità del sistema armano quella che alcuni ancora osano chiamare fatalità.
Chiudiamo l’anno con 1400 lavoratrici e lavoratori in meno, con altrettante famiglie che spesso al dolore della perdita di un proprio caro devono sommare l’improvvisa perdita di un reddito e quindi di una forma di sicurezza – spesso soltanto una parvenza – per il proprio futuro.
Sicurezza è la parola che sempre riaffiora quando suona la campana della lugubre contabilità per avvertirci che il numeratore è cambiato.
Ma sicurezza sta diventando sempre più una parola vuota, recitata come una litania per dimostrare di conoscerne il significato e contemporaneamente di ignorarne la funzione strategica. Quanto costa la sicurezza nei luoghi di lavoro? Quanto costa dotare gli impianti di quei dispositivi in grado di ridurre se non di impedire le probabilità che un incidente accada?
Molti pensano che i costi siano alti e convenga rischiare l’ispezione – che arriva solo molto raramente visto lo scientifico smantellamento dei programmi di prevenzione e di repressione, di chi non adotta i sistemi di sicurezza – la multa, l’imprevisto che però, in questo frangente, si traduce in mutilazioni e morti.
C’è la certezza dell’impunità, la sicumera di chi sa che potrà sempre contare sul silenzio dei media, sull’indifferenza della società, sull’ignoranza diffusa delle norme e dei sistemi di prevenzione in cui vengono scientemente tenuti lavoratori e lavoratrici che quindi non potranno esigere, in un Paese che ha un enorme esercito di disoccupati e precari pronti a rimpiazzare senza fiatare i caduti, di veder rispettare il proprio diritto a lavorare in sicurezza.
Chi denuncia, chi avverte del pericolo che si corre a lavorare senza tutele e garanzie viene fatto oggetto di repressione e mobbing, quando non direttamente licenziato come sempre più spesso sta avvenendo nei confronti di RLS o semplici delegati coraggiosi che denunciano la mancanza delle minime condizioni per poter lavorare senza correre il rischio di incidenti.
Il 2020 non sarà diverso dal 2019 se non saremo capaci di intraprendere una lotta senza quartiere che riporti al centro la guerra allo sfruttamento e ai suoi frutti avvelenati. Non basta oggi e non basterà domani chiedere misure più severe e cogenti se non aggrediamo con forza il tema dello sfruttamento e il suo essere considerato normale nel lessico della nostra società.
È la lotta di classe che potrà interrompere la drammatica contabilità degli omicidi, è la riscoperta della consapevolezza dei propri diritti che può fare la differenza. È l’impegno che assumiamo ancora con più forza per l’anno che arriva.
Fonte
'ndrangheTav. Lo Stato arresta Nicoletta per difendere il business mafioso
L’arresto di Nicoletta Dosio è un’infamia grave e sarà meglio ricordare a tutti “il contesto” entro cui avviene. L’opposizione popolare alla “grande opera inutile” è considerata un reato grave, mentre non lo è – o perlomeno non è considerata altrettanto “pericolosa” – la massa di interessi mafiosi che si sono coagulati intorno a questa “occasione di business”.
Nei giorni scorsi, per citare solo un esempio recente, è finito in galera Roberto Rosso, cinque volte parlamentare parafascista (Fratelli d’Italia), proprio come quel Giancarlo Pittelli, avvocato di primo piano ed ex parlamentare di Forza Italia, accolto con la fanfara dalla “legalitaria” Giorgia Meloni quando – declinando Berlusconi – cambiò velocemente cavallo.
Nelle stesse ore, con meno fragore mediatico (finché non scattano le manette, gli affari si fanno in silenzio), si veniva a sapere degli incontri “riservati” tra boss della ‘ndrangheta e altri esponenti politici, di entrambi gli schieramenti che dicono di essere in feroce opposizione reciproca. Tema: far ripartire velocemente i lavori del Tav, fermi per innumerevoli problemi (oltre alla resistenza della Valsusa).
Vi proponiamo qui un articolo di NOTav.info che ci sembra decisamente chiarificatore. Nicoletta e gli altri compagni arrestati vengono puniti per essersi opposti a criminali “normali” e “politici”. I partiti “SìTav” sono pappa e ciccia con le mafie, e non c’è tra loro nessuna “sinistra”. Solo chiacchiere, prepotenza e “monopolio della violenza”.
Mentre ieri l’attenzione di tutti si concentrava sull’arresto per scambio politico-mafioso di Roberto Rosso, una notizia bomba tichettava nelle carte dell’inchiesta sulla ‘ndrangheta in Piemonte. Negli atti dell’inchiesta, ancora secretati ma usciti grazie a una fuga di notizia, non c’è solo l’assessore degli striscioni sitav in comune ma si parla anche di un altro incontro tra esponenti politici di altissimo livello e le cosche piemontesi.
È il 24 febbraio 2019. A Nichelino si incontrano Francesco “Franco” Viterbo, portavoce del boss Onofrio Garacea, e alcuni onorevoli. Garacea è esponente del clan Bonavota ed è considerato “il reggente dei calabresi” tra Genova e Torino. Come riferirà Viterbo al patron delle cosche del basso Piemonte, all’incontro sono presenti esponenti di spicco della politica nazionale, tra gli altri, “Napoli e Bertoncino”.
Si tratta con tutta probabilità della candidata alle europee per +Europa, Maurizia Bertoncino e del deputato di Forza Italia, Osvaldo Napoli. Il colonnello forzista è uno dei più accaniti sostenitori del TAV in Piemonte, da oltre 15 anni instancabile garante degli interessi opachi che si nascondo dietro la nuova Torino-Lione: già sindaco di Giaveno, promotore di uno dei primissimi esprimenti di movimento sitav nel 2010, non perde occasione per chiedere di arrestare i notav come terroristi, accoglie con giubilo ogni avanzamento dell’opera, elargisce solidarietà a profusione ai poliziotti che proteggono il cantiere, pretende la chiusura dei centri sociali torinesi accusati di dare manforte ai valsusini nella battaglia contro l’alta velocità. Più importante ancora, l’on. Napoli dal 2013 ha affiancato Paolo Foietta come vice-presidente dell’Osservatorio ministeriale alla realizzazione dell’asse Ferroviario Torino-Lione.
Quanto a +Europa, il partito di Bonino in Piemonte sta facendo del TAV letteralmente la sua bandiera durante la campagna elettorale, arrivando a battezzare la lista per le europee “+EUROPA-SITAV”.
In quei giorni, il dibattito sulla seconda Torino-Lione imperversa in tutta Italia. Non sono passate neanche due settimane da quando l’analisi-costi benefici del MIT ha attestato che l’opera, oltre ad avere un impatto ambientale devastante sull’arco alpino, è in perdita per diversi miliardi di euro. Dopo 20 anni di battaglie, il progetto TAV sembra ormai arrivato finalmente al capolinea e molti stanno sudando freddo. È in questo momento che boss e deputati convengono sulla necessità di “dover prendere il paese in mano”. Che cosa significa? Come riferisce l’inchiesta, il punto di convergenza individuato tra le parti nell’incontro del 24 febbraio è sulla necessità che “i lavori presso i cantieri della TAV di Chiomonte devono proseguire”.
Il resto è storia. Nel maggio 2019 il futuro consigliere regionale di FDI Roberto Rosso compra tramite Garacea pacchetti di voti dalle ‘ndrine calabresi e viene eletto con il record di preferenze nella giunta di Alberto Cirio. Il 23 luglio il governo gialloverde, per bocca del presidente del consiglio Conte smentisce clamorosamente l’analisi costi benefici e annuncia che il TAV verrà regolarmente finanziato. Il deputato Osvaldo Napoli dichiara “la Tav va avanti, come il buon senso vuole è una vittoria per l’Italia con ciò si conferma che l’ideologia della decrescita felice è stata e rimane il più grande ostacolo allo sviluppo dell’Italia. Con la decisione sulla TAV, Conte si pone come naturale punto di equilibrio fra la maggioranza e le opposizioni”. Il 9 agosto, a poche settimane dall’insediamento, Cirio visita il cantiere del tunnel geognostico di Chiomonte in compagnia del direttore di TELT Mario Virano e del consigliere Rosso e dichiara “l’opera è irreversibile è venuto il momento di far ripartire i lavori”.
Questi fatti sono noti da ieri in tutte le redazioni del nostro paese. Nessun quotidiano nazionale né TG però ne sta parlando se non su qualche sperduto trafiletto. Per mesi hanno pompato ogni minchiata riguardante il TAV, sperticandosi sui dettagli della cromatura della talpa Federica o il guardaroba delle madamin, ma il fatto che la ‘ndrangheta ordini a dei parlamentari di continuare con la più controversa opera pubblica in Italia non è degno di nota. Come definire un’informazione del genere? Distratta? Complice? Collusa?
Quanto a questa vomitevole macchina che vuole spolpare il nostro territorio anche nota come TAV, che pieghino armi e bagagli e non si facciano mai più vedere. A cambiare i cartelli della Val di Susa in Val di Scusa ci pensiamo noi.
Fonte
Nei giorni scorsi, per citare solo un esempio recente, è finito in galera Roberto Rosso, cinque volte parlamentare parafascista (Fratelli d’Italia), proprio come quel Giancarlo Pittelli, avvocato di primo piano ed ex parlamentare di Forza Italia, accolto con la fanfara dalla “legalitaria” Giorgia Meloni quando – declinando Berlusconi – cambiò velocemente cavallo.
Nelle stesse ore, con meno fragore mediatico (finché non scattano le manette, gli affari si fanno in silenzio), si veniva a sapere degli incontri “riservati” tra boss della ‘ndrangheta e altri esponenti politici, di entrambi gli schieramenti che dicono di essere in feroce opposizione reciproca. Tema: far ripartire velocemente i lavori del Tav, fermi per innumerevoli problemi (oltre alla resistenza della Valsusa).
Vi proponiamo qui un articolo di NOTav.info che ci sembra decisamente chiarificatore. Nicoletta e gli altri compagni arrestati vengono puniti per essersi opposti a criminali “normali” e “politici”. I partiti “SìTav” sono pappa e ciccia con le mafie, e non c’è tra loro nessuna “sinistra”. Solo chiacchiere, prepotenza e “monopolio della violenza”.
*****
Mentre ieri l’attenzione di tutti si concentrava sull’arresto per scambio politico-mafioso di Roberto Rosso, una notizia bomba tichettava nelle carte dell’inchiesta sulla ‘ndrangheta in Piemonte. Negli atti dell’inchiesta, ancora secretati ma usciti grazie a una fuga di notizia, non c’è solo l’assessore degli striscioni sitav in comune ma si parla anche di un altro incontro tra esponenti politici di altissimo livello e le cosche piemontesi.
È il 24 febbraio 2019. A Nichelino si incontrano Francesco “Franco” Viterbo, portavoce del boss Onofrio Garacea, e alcuni onorevoli. Garacea è esponente del clan Bonavota ed è considerato “il reggente dei calabresi” tra Genova e Torino. Come riferirà Viterbo al patron delle cosche del basso Piemonte, all’incontro sono presenti esponenti di spicco della politica nazionale, tra gli altri, “Napoli e Bertoncino”.
Osvaldo Napoli il 10 novembre, in piazza per si al tav |
Quanto a +Europa, il partito di Bonino in Piemonte sta facendo del TAV letteralmente la sua bandiera durante la campagna elettorale, arrivando a battezzare la lista per le europee “+EUROPA-SITAV”.
In quei giorni, il dibattito sulla seconda Torino-Lione imperversa in tutta Italia. Non sono passate neanche due settimane da quando l’analisi-costi benefici del MIT ha attestato che l’opera, oltre ad avere un impatto ambientale devastante sull’arco alpino, è in perdita per diversi miliardi di euro. Dopo 20 anni di battaglie, il progetto TAV sembra ormai arrivato finalmente al capolinea e molti stanno sudando freddo. È in questo momento che boss e deputati convengono sulla necessità di “dover prendere il paese in mano”. Che cosa significa? Come riferisce l’inchiesta, il punto di convergenza individuato tra le parti nell’incontro del 24 febbraio è sulla necessità che “i lavori presso i cantieri della TAV di Chiomonte devono proseguire”.
Il resto è storia. Nel maggio 2019 il futuro consigliere regionale di FDI Roberto Rosso compra tramite Garacea pacchetti di voti dalle ‘ndrine calabresi e viene eletto con il record di preferenze nella giunta di Alberto Cirio. Il 23 luglio il governo gialloverde, per bocca del presidente del consiglio Conte smentisce clamorosamente l’analisi costi benefici e annuncia che il TAV verrà regolarmente finanziato. Il deputato Osvaldo Napoli dichiara “la Tav va avanti, come il buon senso vuole è una vittoria per l’Italia con ciò si conferma che l’ideologia della decrescita felice è stata e rimane il più grande ostacolo allo sviluppo dell’Italia. Con la decisione sulla TAV, Conte si pone come naturale punto di equilibrio fra la maggioranza e le opposizioni”. Il 9 agosto, a poche settimane dall’insediamento, Cirio visita il cantiere del tunnel geognostico di Chiomonte in compagnia del direttore di TELT Mario Virano e del consigliere Rosso e dichiara “l’opera è irreversibile è venuto il momento di far ripartire i lavori”.
Questi fatti sono noti da ieri in tutte le redazioni del nostro paese. Nessun quotidiano nazionale né TG però ne sta parlando se non su qualche sperduto trafiletto. Per mesi hanno pompato ogni minchiata riguardante il TAV, sperticandosi sui dettagli della cromatura della talpa Federica o il guardaroba delle madamin, ma il fatto che la ‘ndrangheta ordini a dei parlamentari di continuare con la più controversa opera pubblica in Italia non è degno di nota. Come definire un’informazione del genere? Distratta? Complice? Collusa?
Quanto a questa vomitevole macchina che vuole spolpare il nostro territorio anche nota come TAV, che pieghino armi e bagagli e non si facciano mai più vedere. A cambiare i cartelli della Val di Susa in Val di Scusa ci pensiamo noi.
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Iraq - Sostenitori delle miliie sciite assaltano l'ambasciata USA
di Michele Giorgio
Gli Usa non la passeranno liscia e devono aspettarsi «una dura risposta». A minacciare, dai microfoni della tv irachena al Sumaria, una reazione senza precedenti contro gli interessi di Washington nella regione è stato ieri Abu Mahdi al Muhandis, numero due delle Hashd Shaabi (Forze di mobilitazione popolare appoggiate dall’Iran) che includono le Kataib Hezbollah bersaglio due giorni fa di un pesante attacco aereo americano che ha fatto almeno 25 morti e decine di feriti in tre basi in Iraq e due in Siria. «Il sangue dei martiri e dei feriti non sarà stato versato invano», ha avvertito Abu Mahdi al Muhandis. A dargli manforte è stata la condanna di Tehran. «L’Iran condanna fermamente l’aggressione militare degli Stati Uniti contro il territorio iracheno e le forze irachene», ha protestato il portavoce del ministero degli esteri iraniano, Abbas Mousavi, che ha descritto i bombardamenti come «chiaro esempio di terrorismo» americano. Un punto questo sul quale batte anche un comunicato del movimento sciita libanese Hezbollah, alleato dell’Iran, secondo il quale l’Amministrazione Usa prende di mira chi «contrasta Daesh (lo Stato islamico, ndr) e le forze dell’estremismo e della criminalità». Coloro che hanno effettuato «questa aggressione criminale» mette in guardia l’organizzazione sciita «capiranno presto la stupidità della loro decisione e le sue ripercussioni negative».
Le Kataib Hezbollah sono state fondamentali negli anni passati per il successo delle operazioni militari irachene contro Daesh che occupava gran parte del nord del paese. Per Washington invece sono soltanto una milizia filo-Tehran, responsabile dell’attacco contro una base militare a Kirkuk nel quale è rimasto ucciso un americano. Accusa lanciata senza fornire prove. «Gli Stati Uniti», ha proclamato perentorio il segretario di Stato, Mike Pompeo, non permetteranno all’Iran di «compiere azioni che possano mettere a rischio gli uomini e le donne americani». Da parte sua il segretario alla difesa, Mark Esper, ha ammonito che «intraprenderemo ulteriori azioni se necessario e scoraggiamo ulteriori comportamenti malvagi da parte di milizie o dell’Iran». Washington di fatto ha preso il posto di Israele responsabile nei mesi scorsi di ripetuti attacchi aerei contro le milizie filo-Iran in Iraq.
Non è difficile leggere nei raid aerei anche un messaggio di Washington per Tehran, Mosca e Pechino che si avviano a concludere le manovre navali congiunte iniziate venerdì scorso nell’Oceano Indiano e nel Golfo di Oman. Manovre che l’Amministrazione Trump interpreta come un atto di deterrenza a sostegno dell’Iran minacciato di guerra e colpito dalle pesanti sanzioni Usa. Domenica sera, per la 28esima volta in poco più di sei anni, il ministro degli esteri Javad Zarif è giunto a Mosca per colloqui con il collega russo Lavrov. I due hanno discusso dei rapporti russo-iraniani – complicati dalle posizioni divergenti delle due parti sul futuro della Siria e la presenza iraniana in quel paese – delle prospettive di rafforzamento del dialogo politico bilaterale e delle relazioni economiche, commerciali e culturali. Ma al centro dei colloqui c’è stato soprattutto il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), l’accordo internazionale sul programma nucleare iraniano firmato nel 2015, dal quale gli Usa sono usciti nel maggio 2018 dando vita a un nuovo regime di sanzioni contro Teheran. Mosca chiede che l’Iran non esca a sua volta dal Jcpoa – lo fanno temere i passi che ha mosso negli ultimi mesi – e che al contrario rispetti sino in fondo le intese per non offrire pretesti a ulteriori sanzioni Usa o peggio a una guerra. Una posizione condivisa dall’Ue. Tehran chiede che i paesi europei mantengano la promessa di tenere aperti i canali economici e commerciali nonostante le sanzioni americane.
AGGIORNAMENTO
Migliaia di manifestanti hanno assaltato l’ambasciata Usa a Baghdad sventolando le bandiere della milizia sciita Hashd Shaabi (alleata dell’Iran). A decine sono saliti sul muro di cinta dell’ambasciata scandendo lo slogan «Morte all’America, morte a Israele». Almeno dieci dimostranti sono stati feriti dalle guardie di sicurezza della sede diplomatica che in queste ore viene evacuata.
Fonte
Gli Usa non la passeranno liscia e devono aspettarsi «una dura risposta». A minacciare, dai microfoni della tv irachena al Sumaria, una reazione senza precedenti contro gli interessi di Washington nella regione è stato ieri Abu Mahdi al Muhandis, numero due delle Hashd Shaabi (Forze di mobilitazione popolare appoggiate dall’Iran) che includono le Kataib Hezbollah bersaglio due giorni fa di un pesante attacco aereo americano che ha fatto almeno 25 morti e decine di feriti in tre basi in Iraq e due in Siria. «Il sangue dei martiri e dei feriti non sarà stato versato invano», ha avvertito Abu Mahdi al Muhandis. A dargli manforte è stata la condanna di Tehran. «L’Iran condanna fermamente l’aggressione militare degli Stati Uniti contro il territorio iracheno e le forze irachene», ha protestato il portavoce del ministero degli esteri iraniano, Abbas Mousavi, che ha descritto i bombardamenti come «chiaro esempio di terrorismo» americano. Un punto questo sul quale batte anche un comunicato del movimento sciita libanese Hezbollah, alleato dell’Iran, secondo il quale l’Amministrazione Usa prende di mira chi «contrasta Daesh (lo Stato islamico, ndr) e le forze dell’estremismo e della criminalità». Coloro che hanno effettuato «questa aggressione criminale» mette in guardia l’organizzazione sciita «capiranno presto la stupidità della loro decisione e le sue ripercussioni negative».
Le Kataib Hezbollah sono state fondamentali negli anni passati per il successo delle operazioni militari irachene contro Daesh che occupava gran parte del nord del paese. Per Washington invece sono soltanto una milizia filo-Tehran, responsabile dell’attacco contro una base militare a Kirkuk nel quale è rimasto ucciso un americano. Accusa lanciata senza fornire prove. «Gli Stati Uniti», ha proclamato perentorio il segretario di Stato, Mike Pompeo, non permetteranno all’Iran di «compiere azioni che possano mettere a rischio gli uomini e le donne americani». Da parte sua il segretario alla difesa, Mark Esper, ha ammonito che «intraprenderemo ulteriori azioni se necessario e scoraggiamo ulteriori comportamenti malvagi da parte di milizie o dell’Iran». Washington di fatto ha preso il posto di Israele responsabile nei mesi scorsi di ripetuti attacchi aerei contro le milizie filo-Iran in Iraq.
Non è difficile leggere nei raid aerei anche un messaggio di Washington per Tehran, Mosca e Pechino che si avviano a concludere le manovre navali congiunte iniziate venerdì scorso nell’Oceano Indiano e nel Golfo di Oman. Manovre che l’Amministrazione Trump interpreta come un atto di deterrenza a sostegno dell’Iran minacciato di guerra e colpito dalle pesanti sanzioni Usa. Domenica sera, per la 28esima volta in poco più di sei anni, il ministro degli esteri Javad Zarif è giunto a Mosca per colloqui con il collega russo Lavrov. I due hanno discusso dei rapporti russo-iraniani – complicati dalle posizioni divergenti delle due parti sul futuro della Siria e la presenza iraniana in quel paese – delle prospettive di rafforzamento del dialogo politico bilaterale e delle relazioni economiche, commerciali e culturali. Ma al centro dei colloqui c’è stato soprattutto il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), l’accordo internazionale sul programma nucleare iraniano firmato nel 2015, dal quale gli Usa sono usciti nel maggio 2018 dando vita a un nuovo regime di sanzioni contro Teheran. Mosca chiede che l’Iran non esca a sua volta dal Jcpoa – lo fanno temere i passi che ha mosso negli ultimi mesi – e che al contrario rispetti sino in fondo le intese per non offrire pretesti a ulteriori sanzioni Usa o peggio a una guerra. Una posizione condivisa dall’Ue. Tehran chiede che i paesi europei mantengano la promessa di tenere aperti i canali economici e commerciali nonostante le sanzioni americane.
AGGIORNAMENTO
Migliaia di manifestanti hanno assaltato l’ambasciata Usa a Baghdad sventolando le bandiere della milizia sciita Hashd Shaabi (alleata dell’Iran). A decine sono saliti sul muro di cinta dell’ambasciata scandendo lo slogan «Morte all’America, morte a Israele». Almeno dieci dimostranti sono stati feriti dalle guardie di sicurezza della sede diplomatica che in queste ore viene evacuata.
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Ex Ilva - De profundis 2019
La vicenda dell'ex Ilva di Taranto è divenuta il requiem con cui si congeda il 2019
La cronaca redatta dal Corriere di Taranto [1] del Consiglio di fabbrica presso l’ex Ilva alla presenza del primo ministro Conte ne è, tra le altre cose, l'ennesima dimostrazione.
La sostanza però sta in quelle altre cose tra le quali merita evidenza quanto segue:
1) l'azione di Conte nei confronti dei fatti ad elevato impatto sull'opinione pubblica – non tanto e non solo per la sovraesposizione di cui possono godere sui media, ma per la vasta platea che fisicamente coinvolgono – è sempre più improntata a quella che sembra essere la nuova metamorfosi delle narrazione politica, che potremmo definire di populismo paternalistico;
2) quest'ultimo sembra essere la chiave narrativa più adatta per traghettare la conservazione dell'esistente negli anni '20 del nuovo millennio. [2]
Conte, infatti, nel caso specifico di Ilva ha sostenuto che il partner indispensabile per il progetto abbozzato dal suo governo resta ArcelorMittal. Si rassegnino dunque tutti coloro che si sarebbero attesi, quanto meno, la ricerca di una multinazionale meno speculativa (ma esistono?!?) cui affidare lo stabilimento tarantino, o peggio i sostenitori di un ritorno diretto dello Stato nell’economia attraverso la nazionalizzazione dell'impianto.
Conte afferma senza alcun fraintendimento che la politica non intende cercare alcuna alternativa alla soluzione di mercato. Il presidente del consiglio s’incarica quindi di esplicitare che la classe dirigente di questo paese ha fatto definitivamente propria l'ideologia ordoliberale del "più Stato per il mercato" senza alcun infingimento di sorta; [3]
3) Morselli, a.d. di ArcelorMittal, conferma l'assioma di Conte esplicitando agli operai presenti al Consiglio di fabbrica che loro sono roba di Mittal. Qui è evidente come la narrazione si sveste dei panni paternalistici per tornare ai più duri rapporti di forza cari ai padroni delle ferriere, in cui a essere contemplato è al massimo un approccio corporativista tra padrone e lavoratori – con i decreti repressione firmati Salvini/Minniti a fornire il recinto spinato del perimetro indicato dall’amministratrice della multinazionale dell’acciaio [4] –;
4) rapporti di forza che mostrano una fenomenologia operaia, del tutto abbandonata a se stessa, in cui la coscienza di classe è umiliata a tal punto da estinguere anche il mero sussulto di dignità all'interno di una situazione che si profila sempre più priva di vie d'uscita.
A dispetto di quanto sembra suggerire l'autore dell'articolo non crediamo che, onestà intellettuale alla mano, ciò possa essere imputato ai lavoratori stessi, rei di aver tratto interesse, seppur misero, dal “bengodi salariale” in voga anche mentre l’azienda andava economicamente a rotoli durante la gestione commissariale.
Tralasciando la deriva culturale per cui, di questi tempi, si fa passare per bengodi una normale remunerazione del lavoro adeguata alla sopravvivenza, l’orizzonte estremamente limitato della classe operaia tarantina e della città che vi ruota intorno è, semmai, conseguenza diretta dell’assenza pressoché totale di qualsiasi spinta propulsiva proveniente da sinistra.
Fatta eccezione per l’encomiabile mobilitazione promossa dal sindacato USB in questi anni, infatti, la crisi di Taranto mette a nudo l’assenza di propositività che caratterizza tutte le organizzazioni antagoniste sulla questione.
I lavoratori e i cittadini di Taranto ormai lo hanno capito alla perfezione: non è più sufficiente limitarsi a millantare riconversioni al terziario turistico [5] o chiedere la nazionalizzazione dell’impianto siderurgico – per tacere della follia di chi si riempie la bocca con la chiusura dell'impianto –.
Per come è andata deteriorandosi la situazione nel corso degli anni, lavoratori e città, hanno bisogno di conoscere non soltanto con quale parola d’ordine uscire dal proprio inferno, ma anche in quale modo, attraverso quale percorso farlo.
In questo specifico ambito il silenzio è assordante sia da parte delle istituzioni in teoria competenti, sia di coloro che dovrebbero indicare una via diversa e possibilmente antitetica allo stato di cose presenti.
Manca insomma una proposta organica sul che fare, che non si limiti a slogan che vanno benissimo in sede di mobilitazione o per i meme su Facebook, ma che mostrano gambe cortissime appena si passa alla critica e al rilancio dei piani provenienti da padroni e palazzi del potere.
C’è da augurarsi (e da lavorare) che gli anni ‘20 stimolino la consapevolezza per cui, senza idee e studi alle spalle capaci di rendere percorribile il raggiungimento di un obiettivo, anche la più genuina delle mobilitazioni – e già in questo paese ne abbiamo pochissime – è destinata a rifluire nella risacca dell’esistente.
Note:
[1] https://www.corriereditaranto.it/2019/12/28/ex-ilva-fenomenologia-operaia-e-lo-smarrimento-della-politica/
[2] Conte, infatti, ha annunciato di non voler lasciare la politica al termine del proprio mandato.
http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2019/12/29/conte-verso-la-verifica-il-primo-nodo-e-la-prescrizione_fdf9a677-1a3d-4c79-81b9-c2dc82dda629.html
[3] come si verificava ai tempi di Berlusconi e più in piccolo di Renzi, in cui le cordate di potere egemoni nel Bel Paese tentavano di volta in volta di trovare la quadra tra il vincolo esterno europeo e le esigenze di bottega di turno – Fininvest ai tempi del Cavaliere, massoneria cresciuta sulle rive dell’Arno ai tempi del guitto di Rignano –.
[4] http://contropiano.org/interventi/2019/12/30/la-lettera-di-due-studentesse-solidali-con-gli-operai-e-multate-per-blocco-stradale-a-prato-0122422
[5] su questo argomento specifico credo sia necessario sgomberare il campo da ogni illusione, anche del governatore Emiliano: il terziario a vocazione turistica traghetterebbe Taranto dalla padella dei problemi di Ilva alla brace del sottosviluppo della gig economy di AirBnB, Deliveroo e soci. La soluzione non è quella di trasformare la classe operaia tarantina in una prateria di cuochi, receptionist, camerieri, e pony express di cibo di strada.
La cronaca redatta dal Corriere di Taranto [1] del Consiglio di fabbrica presso l’ex Ilva alla presenza del primo ministro Conte ne è, tra le altre cose, l'ennesima dimostrazione.
La sostanza però sta in quelle altre cose tra le quali merita evidenza quanto segue:
1) l'azione di Conte nei confronti dei fatti ad elevato impatto sull'opinione pubblica – non tanto e non solo per la sovraesposizione di cui possono godere sui media, ma per la vasta platea che fisicamente coinvolgono – è sempre più improntata a quella che sembra essere la nuova metamorfosi delle narrazione politica, che potremmo definire di populismo paternalistico;
2) quest'ultimo sembra essere la chiave narrativa più adatta per traghettare la conservazione dell'esistente negli anni '20 del nuovo millennio. [2]
Conte, infatti, nel caso specifico di Ilva ha sostenuto che il partner indispensabile per il progetto abbozzato dal suo governo resta ArcelorMittal. Si rassegnino dunque tutti coloro che si sarebbero attesi, quanto meno, la ricerca di una multinazionale meno speculativa (ma esistono?!?) cui affidare lo stabilimento tarantino, o peggio i sostenitori di un ritorno diretto dello Stato nell’economia attraverso la nazionalizzazione dell'impianto.
Conte afferma senza alcun fraintendimento che la politica non intende cercare alcuna alternativa alla soluzione di mercato. Il presidente del consiglio s’incarica quindi di esplicitare che la classe dirigente di questo paese ha fatto definitivamente propria l'ideologia ordoliberale del "più Stato per il mercato" senza alcun infingimento di sorta; [3]
3) Morselli, a.d. di ArcelorMittal, conferma l'assioma di Conte esplicitando agli operai presenti al Consiglio di fabbrica che loro sono roba di Mittal. Qui è evidente come la narrazione si sveste dei panni paternalistici per tornare ai più duri rapporti di forza cari ai padroni delle ferriere, in cui a essere contemplato è al massimo un approccio corporativista tra padrone e lavoratori – con i decreti repressione firmati Salvini/Minniti a fornire il recinto spinato del perimetro indicato dall’amministratrice della multinazionale dell’acciaio [4] –;
4) rapporti di forza che mostrano una fenomenologia operaia, del tutto abbandonata a se stessa, in cui la coscienza di classe è umiliata a tal punto da estinguere anche il mero sussulto di dignità all'interno di una situazione che si profila sempre più priva di vie d'uscita.
A dispetto di quanto sembra suggerire l'autore dell'articolo non crediamo che, onestà intellettuale alla mano, ciò possa essere imputato ai lavoratori stessi, rei di aver tratto interesse, seppur misero, dal “bengodi salariale” in voga anche mentre l’azienda andava economicamente a rotoli durante la gestione commissariale.
Tralasciando la deriva culturale per cui, di questi tempi, si fa passare per bengodi una normale remunerazione del lavoro adeguata alla sopravvivenza, l’orizzonte estremamente limitato della classe operaia tarantina e della città che vi ruota intorno è, semmai, conseguenza diretta dell’assenza pressoché totale di qualsiasi spinta propulsiva proveniente da sinistra.
Fatta eccezione per l’encomiabile mobilitazione promossa dal sindacato USB in questi anni, infatti, la crisi di Taranto mette a nudo l’assenza di propositività che caratterizza tutte le organizzazioni antagoniste sulla questione.
I lavoratori e i cittadini di Taranto ormai lo hanno capito alla perfezione: non è più sufficiente limitarsi a millantare riconversioni al terziario turistico [5] o chiedere la nazionalizzazione dell’impianto siderurgico – per tacere della follia di chi si riempie la bocca con la chiusura dell'impianto –.
Per come è andata deteriorandosi la situazione nel corso degli anni, lavoratori e città, hanno bisogno di conoscere non soltanto con quale parola d’ordine uscire dal proprio inferno, ma anche in quale modo, attraverso quale percorso farlo.
In questo specifico ambito il silenzio è assordante sia da parte delle istituzioni in teoria competenti, sia di coloro che dovrebbero indicare una via diversa e possibilmente antitetica allo stato di cose presenti.
Manca insomma una proposta organica sul che fare, che non si limiti a slogan che vanno benissimo in sede di mobilitazione o per i meme su Facebook, ma che mostrano gambe cortissime appena si passa alla critica e al rilancio dei piani provenienti da padroni e palazzi del potere.
C’è da augurarsi (e da lavorare) che gli anni ‘20 stimolino la consapevolezza per cui, senza idee e studi alle spalle capaci di rendere percorribile il raggiungimento di un obiettivo, anche la più genuina delle mobilitazioni – e già in questo paese ne abbiamo pochissime – è destinata a rifluire nella risacca dell’esistente.
Note:
[1] https://www.corriereditaranto.it/2019/12/28/ex-ilva-fenomenologia-operaia-e-lo-smarrimento-della-politica/
[2] Conte, infatti, ha annunciato di non voler lasciare la politica al termine del proprio mandato.
http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2019/12/29/conte-verso-la-verifica-il-primo-nodo-e-la-prescrizione_fdf9a677-1a3d-4c79-81b9-c2dc82dda629.html
[3] come si verificava ai tempi di Berlusconi e più in piccolo di Renzi, in cui le cordate di potere egemoni nel Bel Paese tentavano di volta in volta di trovare la quadra tra il vincolo esterno europeo e le esigenze di bottega di turno – Fininvest ai tempi del Cavaliere, massoneria cresciuta sulle rive dell’Arno ai tempi del guitto di Rignano –.
[4] http://contropiano.org/interventi/2019/12/30/la-lettera-di-due-studentesse-solidali-con-gli-operai-e-multate-per-blocco-stradale-a-prato-0122422
[5] su questo argomento specifico credo sia necessario sgomberare il campo da ogni illusione, anche del governatore Emiliano: il terziario a vocazione turistica traghetterebbe Taranto dalla padella dei problemi di Ilva alla brace del sottosviluppo della gig economy di AirBnB, Deliveroo e soci. La soluzione non è quella di trasformare la classe operaia tarantina in una prateria di cuochi, receptionist, camerieri, e pony express di cibo di strada.
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Annuario Istat 2019, le sofferenze del lavoro sono quelle del paese
Come ogni fine anno, l’Istat organizza in una pubblicazione unica l’annuario statistico relativo all’anno solare precedente con riferimento a tutti i settori interessati dalla ricerca, diviso perciò in 24 capitoli per ogni “microarea” di indagine (territorio, sanità e salute, istruzione e formazione, prezzi, industria, trasporti e telecomunicazioni, ecc.). Tra questi, sono presenti ovviamente anche i dati sul “mercato del lavoro”, di cui di seguito vi diamo un breve riassunto ma capace di rappresentare – dalla prospettiva del lavoro – la crisi che attraversa, all’interno delle dinamiche dell’Ue, il nostro paese.
Come numero di occupati, il 2018 è stato l’anno di aggancio ai livelli precedenti la crisi del 2008, riportando il tasso di occupazione della popolazione tra i 15 e i 64 anni al 58,5%, dinamica in cui si conferma la persistente divaricazione in termini internazionali (nell’Ue, il tasso di occupazione medio è pari al 68,6%), territoriali (il Mezzogiorno fa registrare -24 punti percentuali rispetto alla media Ue) e di genere (in Italia, il 49,5% delle donne è occupato, contro il 67,6 degli uomini). Non sorprende che il tasso di occupazione faccia registrare divari enormi per livello d’istruzione (31,1% per chi possiede la licenza elementare, contro il 78,7% per i laureati).
Se la crescita dell’occupazione interessa solo il lavoro dipendente (trainata dal settore dell’industria e dei servizi), tuttavia nel 2018 (a confronto con il 2017) questo riguarda solamente il lavoro a termine (+323 mila, +11,9%) e quindi relativo calo del tempo indeterminato (-108 mila unità), portando così al 17 per cento l’incidenza degli assunti a termine sul totale dei dipendenti (con percentuale più alta per donne e lavoratori/lavoratrici del Mezzogiorno). A questo si aggiunge la crescita del part-time involontario (a fronte di una sua lieve diminuzione generale, -0,1%), componente che raggiunge il 64,1% sul totale del parziale e ben l’11,9 per cento sul totale degli occupati.
Alla stessa maniera, il calo del tasso di disoccupazione è ancora molto lontano dalla media registrata nell’Ue. Infatti, nel 2018 nel paese si rileva un tasso del 10,6% (in calo sul 2017) contro il 6,8 della media “europea”, ponendo l’Italia sul terzo gradino del podio dietro solo a Grecia e Spagna (solo il nord-est è sotto la media Ue, ma ieri abbiamo scritto “a quale prezzo”).
Se la disoccupazione diminuisce in modo uniforme sia per chi era in cerca di lavoro da meno di 12 mesi, sia per i disoccupati di lunga durata, ancora altissimo (benché in lieve calo, -0,2%) è il tasso di inattività sulla popolazione attiva, sempre 15-64 anni, che si attesta al 34,4%, per merito della diminuzione delle forze di lavoro potenziali (3 milioni di persone), portando a 5,8 milioni (con l’aggiunta dei disoccupati) il bacino di individui potenzialmente interessati a lavorare.
Dei 23 milioni di lavoratori e lavoratrici registrati nel paese, 12,2 sono alle dipendenze delle imprese, di cui poco più della metà con qualifica di operaio (54,6%), 37,6 per cento con quella di impiegato e solo il 4,4% sono quadri o dirigenti, in maggioranza persone tra i 30 e i 49 anni di età (qui l’anno di riferimento è il 2017).
Al già menzionato aumento dell’occupazione nel totale del settore dell’industria (4,3 milioni, 35% dell’occupazione complessiva dipendente) e dei servizi (8,2 milioni, 65%), fa il paio il calo delle ore in Cassa integrazione guadagni (Cig, -1,3 ore per ogni mille lavorate, dato attestatosi a 6,5, aumentato solo nel comparto delle costruzioni dove questo strumento è utilizzato frequentemente), mentre nel quinquennio 2014-2018 rimangono stabili le ore lavorate per dipendente (e quindi aumenta il monte ore totale lavorate).
Tuttavia, questi dati sono ancora lontani dal periodo cosiddetto pre-crisi. Se infatti il numero delle “teste” in media al lavoro nel 2018, come scritto, ha di poco superato quello del 2008 (+125 mila unità), il confronto delle ore lavorate totali registra un calo di ben 5 punti percentuali (a dispetto del rialzo registrato poco sopra). Come se non bastasse, le retribuzioni nel 2018 hanno, sì, fatto segnare un aumento dell’1,5% sul totale dell’economia rispetto all’anno precedente, ma queste seguono, da una parte, una fase di decelerazione che perdurava da 9 anni, e dall’altra, sono appannaggio per lo più dei dipendenti pubblici – il cui rinnovo contrattuale era atteso addirittura dal 2010.
Come riportato nell’ultima nota Istat disponibile rilasciata sul III trimestre del 2019, «queste dinamiche del mercato del lavoro si inseriscono in una fase persistente di debole crescita dei livelli di attività economica» (“sostenuta” dalla mancanza di investimenti da parte della borghesia nostrana). Anche qui, a un aumento delle posizioni lavorative su base tendenziale (e cioè, sul terzo trimestre del 2018, +151 mila, trainata stavolta dai permanenti, portando il tasso di occupazione a 59,2% sul totale della popolazione attiva), continua a diminuire il monte ore lavorate per dipendente (-0,4%). Inoltre, su base congiunturale (trimestre su trimestre) il numero dei contratti a tempo indeterminato è in calo, mentre anno su anno cresce il ricorso alla cassa integrazione.
Insomma, poche novità in questo passaggio di decennio. Di lavoro non ce n’è molto, quando c’è fatica a essere ben pagato, di sicuro non lo è per i giovani (esclusi da questo report, ma le cui fughe all’estero sono più che note) ed è causa ancora di una carneficina che in 10 anni ha raggiunto i numeri di una guerra civile (circa 17.000 morti, molto poco “bianche”), con sempre più difficoltà di esprimere dissenso.
Di lavoro si fa più fatica a vivere e si muore sempre di più. Se non siamo al livello dei paesi dell’“ex terzo mondo”, di certo continuiamo a scivolare su un piano inclinato, con poche prospettive di cambiamento all’orizzonte (sicuro non da parte di questa classe dirigente), e quasi nessuna coscienza del fatto che “chi nasce dalla parte ricca del mondo, non è detto che in questa ci muoia”.
Fonte
Come numero di occupati, il 2018 è stato l’anno di aggancio ai livelli precedenti la crisi del 2008, riportando il tasso di occupazione della popolazione tra i 15 e i 64 anni al 58,5%, dinamica in cui si conferma la persistente divaricazione in termini internazionali (nell’Ue, il tasso di occupazione medio è pari al 68,6%), territoriali (il Mezzogiorno fa registrare -24 punti percentuali rispetto alla media Ue) e di genere (in Italia, il 49,5% delle donne è occupato, contro il 67,6 degli uomini). Non sorprende che il tasso di occupazione faccia registrare divari enormi per livello d’istruzione (31,1% per chi possiede la licenza elementare, contro il 78,7% per i laureati).
Se la crescita dell’occupazione interessa solo il lavoro dipendente (trainata dal settore dell’industria e dei servizi), tuttavia nel 2018 (a confronto con il 2017) questo riguarda solamente il lavoro a termine (+323 mila, +11,9%) e quindi relativo calo del tempo indeterminato (-108 mila unità), portando così al 17 per cento l’incidenza degli assunti a termine sul totale dei dipendenti (con percentuale più alta per donne e lavoratori/lavoratrici del Mezzogiorno). A questo si aggiunge la crescita del part-time involontario (a fronte di una sua lieve diminuzione generale, -0,1%), componente che raggiunge il 64,1% sul totale del parziale e ben l’11,9 per cento sul totale degli occupati.
Alla stessa maniera, il calo del tasso di disoccupazione è ancora molto lontano dalla media registrata nell’Ue. Infatti, nel 2018 nel paese si rileva un tasso del 10,6% (in calo sul 2017) contro il 6,8 della media “europea”, ponendo l’Italia sul terzo gradino del podio dietro solo a Grecia e Spagna (solo il nord-est è sotto la media Ue, ma ieri abbiamo scritto “a quale prezzo”).
Se la disoccupazione diminuisce in modo uniforme sia per chi era in cerca di lavoro da meno di 12 mesi, sia per i disoccupati di lunga durata, ancora altissimo (benché in lieve calo, -0,2%) è il tasso di inattività sulla popolazione attiva, sempre 15-64 anni, che si attesta al 34,4%, per merito della diminuzione delle forze di lavoro potenziali (3 milioni di persone), portando a 5,8 milioni (con l’aggiunta dei disoccupati) il bacino di individui potenzialmente interessati a lavorare.
Dei 23 milioni di lavoratori e lavoratrici registrati nel paese, 12,2 sono alle dipendenze delle imprese, di cui poco più della metà con qualifica di operaio (54,6%), 37,6 per cento con quella di impiegato e solo il 4,4% sono quadri o dirigenti, in maggioranza persone tra i 30 e i 49 anni di età (qui l’anno di riferimento è il 2017).
Al già menzionato aumento dell’occupazione nel totale del settore dell’industria (4,3 milioni, 35% dell’occupazione complessiva dipendente) e dei servizi (8,2 milioni, 65%), fa il paio il calo delle ore in Cassa integrazione guadagni (Cig, -1,3 ore per ogni mille lavorate, dato attestatosi a 6,5, aumentato solo nel comparto delle costruzioni dove questo strumento è utilizzato frequentemente), mentre nel quinquennio 2014-2018 rimangono stabili le ore lavorate per dipendente (e quindi aumenta il monte ore totale lavorate).
Tuttavia, questi dati sono ancora lontani dal periodo cosiddetto pre-crisi. Se infatti il numero delle “teste” in media al lavoro nel 2018, come scritto, ha di poco superato quello del 2008 (+125 mila unità), il confronto delle ore lavorate totali registra un calo di ben 5 punti percentuali (a dispetto del rialzo registrato poco sopra). Come se non bastasse, le retribuzioni nel 2018 hanno, sì, fatto segnare un aumento dell’1,5% sul totale dell’economia rispetto all’anno precedente, ma queste seguono, da una parte, una fase di decelerazione che perdurava da 9 anni, e dall’altra, sono appannaggio per lo più dei dipendenti pubblici – il cui rinnovo contrattuale era atteso addirittura dal 2010.
Come riportato nell’ultima nota Istat disponibile rilasciata sul III trimestre del 2019, «queste dinamiche del mercato del lavoro si inseriscono in una fase persistente di debole crescita dei livelli di attività economica» (“sostenuta” dalla mancanza di investimenti da parte della borghesia nostrana). Anche qui, a un aumento delle posizioni lavorative su base tendenziale (e cioè, sul terzo trimestre del 2018, +151 mila, trainata stavolta dai permanenti, portando il tasso di occupazione a 59,2% sul totale della popolazione attiva), continua a diminuire il monte ore lavorate per dipendente (-0,4%). Inoltre, su base congiunturale (trimestre su trimestre) il numero dei contratti a tempo indeterminato è in calo, mentre anno su anno cresce il ricorso alla cassa integrazione.
Insomma, poche novità in questo passaggio di decennio. Di lavoro non ce n’è molto, quando c’è fatica a essere ben pagato, di sicuro non lo è per i giovani (esclusi da questo report, ma le cui fughe all’estero sono più che note) ed è causa ancora di una carneficina che in 10 anni ha raggiunto i numeri di una guerra civile (circa 17.000 morti, molto poco “bianche”), con sempre più difficoltà di esprimere dissenso.
Di lavoro si fa più fatica a vivere e si muore sempre di più. Se non siamo al livello dei paesi dell’“ex terzo mondo”, di certo continuiamo a scivolare su un piano inclinato, con poche prospettive di cambiamento all’orizzonte (sicuro non da parte di questa classe dirigente), e quasi nessuna coscienza del fatto che “chi nasce dalla parte ricca del mondo, non è detto che in questa ci muoia”.
Fonte
La Germania sta tornando un inferno per i lavoratori
Nel 2019 le esportazioni dell’industria bellica tedesca “autorizzate” dal governo hanno superato il livello record del 2015 e si sono attestate a poco meno di 8 miliardi di euro, con un aumento del 65% rispetto all’anno precedente, dopo che, per il 2018, il SIPRI aveva certificato un calo di circa il 3,8%. Questo, sul fronte esterno.
All’interno del paese, tale “record” va di pari passo con una situazione del mondo del lavoro (e della disoccupazione) codificata da Hartz IV e aggravata da una crisi del mondo capitalista che non risparmia nemmeno la “potente Germania”.
Per il settore sanitario, Die junge Welt scrive della forte carenza di personale e delle cattive condizioni e bassi salari imposti agli addetti. Il giornale riporta l’esempio della città di Haldensleben, principale centro del circondario della Börde (Sassonia-Anhalt), in cui da tre anni mancano servizi medici di emergenza per l’infanzia e, in caso di bisogno, si devono fare 30 chilometri fino a Magdeburgo o Gardelegen.
Ma Haldensleben non è un caso isolato: secondo il “Barometro ospedaliero” del Deutsches Krankenhausinstitut (DKI) per il 2019, basato su sondaggi condotti in 268 strutture tra quelle con oltre 100 posti letto, l’emergenza infermieristica nelle cliniche tedesche si sta facendo sempre più acuta.
A livello federale, mancano circa 17.000 infermieri. Dal 2016 a oggi, nei reparti di terapia intensiva, i posti vacanti sono aumentati del 50% e il numero è addirittura triplicato in medicina generale. “Più una clinica è grande, più è difficile coprire le necessità del personale. Nel 95,2% degli ospedali con più di 600 posti letto c’è carenza di infermieri nei reparti di medicina generale e nel 97,4% di essi si lamenta scarsità di personale specializzato nelle unità di terapia intensiva”.
C’è allarme in Bassa Sassonia per la minacciata chiusura dei reparti di ostetricia in dozzine di ospedali del Land, mentre vengono effettivamente chiusi sempre più reparti di ginecologia e ostetricia. La clinica universitaria della Charité, a Berlino, due settimane fa ha dovuto chiudere il reparto tumori infantili e lamenta la mancanza di 100 infermieri.
“In generale, sono sotto accusa i piani finanziari” scrive Die junge Welt, dato che “non vengono più pagati i giorni di degenza, bensì gli interventi operatori. Una operazione al cuore rende molto più di un paziente sotto osservazione”: ciò riguarda soprattutto i più giovani; e così molte cliniche risparmiano proprio su questi settori. L’associazione dei pediatri parla di “mania di economizzazione“, che “sta aprendo larghe brecce soprattutto nei reparti meno lucrativi“.
Secondo l’Ufficio federale di statistica, due anni fa c’erano 1.940 ospedali, quasi 500 in meno rispetto al 1991 e nello stesso periodo si sono ridotti di 1/4 i posti letto, calando a meno di mezzo milione. Il perché non è ovviamente un mistero: tra il 2000 e il 2017, è quasi raddoppiato (dal 22 al 38%) il numero di cliniche privatizzate: tra esse, anche quella di Haldensleben, che nel 2006 era andata al gruppo Sana e 7 anni dopo fu rilevata da Ameos. Da allora, i dipendenti lamentano pessime condizioni di lavoro e bassi salari. A inizio dicembre, Ver.Di (Vereinte Dienstleistungsgewerkschaft: il sindacato del settore servizi) ha annunciato scioperi di avvertimento: per tutta risposta, Ameos ha licenziato senza preavviso 20 dipendenti.
Per la situazione nel mondo del lavoro in Germania, ancora Die junge Welt nota che “molte donne sono materialmente dipendenti” dalle entrate dei propri mariti: ciò spicca “particolarmente a ovest. Ma a est la povertà lavorativa continua a essere uniformemente diffusa tra entrambi i sessi”.
L’ultima analisi condotta dall’Istituto per il mercato del lavoro (Institut für Arbeitsmarkt und Berufsforschung: IAB) certifica che le “classiche occupazioni femminili sono di solito malpagate. Nelle grandi aziende che occupano principalmente uomini, i salari sono migliori. La disparità di salario tra i sessi è maggiore nelle aree metropolitane della Germania occidentale”.
A livello nazionale, gli uomini guadagnano in media circa il 24% più delle donne (114 euro lordi al giorno, contro 92) a parità di ore. Il fatto che la differenza non sia ancora maggiore è “grazie” soprattutto ai livelli salariali dell’est, in cui il divario è molto minore: qui gli uomini guadagnano significativamente meno (in qualche caso, nemmeno la metà) che a ovest.
A una giornata lavorativa di 7-8 ore, a est, corrisponde un salario di 84 euro: la metà che, ad esempio, in Baviera (170 euro) o Bassa Sassonia (162 euro). Nei distretti di Vorpommern-Rügen (Meclemburgo-Pomerania Anteriore) o Elbe-Elster (Brandeburgo) il salario di un uomo può scendere fino a 74-75 euro lordi al giorno (9,2-10,7 euro l’ora) o 76 euro nei circondari di Altenburger Land o di Saale-Orla (Turingia), oppure Erzgebirger (Sassonia).
Per quanto riguarda le retribuzioni delle lavoratrici, invece, le differenze tra est e ovest sono molto minori. Nello stesso distretto di Saale-Orla, ad esempio, il salario lordo medio è di 67 euro, che corrisponde più o meno al salario minimo ed è appena di 1 euro più basso rispetto, ad esempio, al circondario di Wittmund, in Bassa Sassonia, dove i livelli retributivi sono relativamente bassi soprattutto nei settori di commercio al dettaglio, assistenza sanitaria e servizi sociali, in cui sono occupate principalmente donne. Secondo la ricerca, inoltre, le donne lavorano molto più spesso degli uomini in uffici, servizi e lavori sociali scarsamente retribuiti, e anche in piccole imprese con salari inferiori alla media.
Peccato che la ricerca del IAB non indichi quanto i bassi salari, di donne e uomini, all’est – con i lavoratori degli ex Länder della DDR che, causa la forte deindustrializzazione dettata dal capitale tedesco-occidentale, sono rimasti disoccupati o costretti ad adattarsi a condizioni salariali pessime – contribuiscano ad abbassare (relativamente) anche il livello delle retribuzioni a ovest e, dunque, la media nazionale.
Se il paragone non fosse a dir poco arbitrario, si potrebbe osservare che la cosiddetta “unificazione” tedesca pare aver agito alla stregua dell’introduzione delle macchine nell’industria inglese studiata da Marx ne Il Capitale, che generò il massiccio impiego di donne e fanciulli nelle fabbriche: “Le macchine, gettando sul mercato del lavoro tutti i membri della famiglia operaia, distribuiscono su tutta la famiglia il valore della forza-lavoro dell’uomo, e quindi svalorizzano la forza-lavoro di quest’ultimo”.
Che poi il capitale tenda sempre più a economizzare sia sulla salute nei luoghi di lavoro, sia riducendo al minimo ogni assistenza sanitaria e sociale, il “Barometro ospedaliero” tedesco non fa che attestare quanto i “clienti” delle italiche Aziende sanitarie sperimentano sulla propria pelle.
Fonte
All’interno del paese, tale “record” va di pari passo con una situazione del mondo del lavoro (e della disoccupazione) codificata da Hartz IV e aggravata da una crisi del mondo capitalista che non risparmia nemmeno la “potente Germania”.
Per il settore sanitario, Die junge Welt scrive della forte carenza di personale e delle cattive condizioni e bassi salari imposti agli addetti. Il giornale riporta l’esempio della città di Haldensleben, principale centro del circondario della Börde (Sassonia-Anhalt), in cui da tre anni mancano servizi medici di emergenza per l’infanzia e, in caso di bisogno, si devono fare 30 chilometri fino a Magdeburgo o Gardelegen.
Ma Haldensleben non è un caso isolato: secondo il “Barometro ospedaliero” del Deutsches Krankenhausinstitut (DKI) per il 2019, basato su sondaggi condotti in 268 strutture tra quelle con oltre 100 posti letto, l’emergenza infermieristica nelle cliniche tedesche si sta facendo sempre più acuta.
A livello federale, mancano circa 17.000 infermieri. Dal 2016 a oggi, nei reparti di terapia intensiva, i posti vacanti sono aumentati del 50% e il numero è addirittura triplicato in medicina generale. “Più una clinica è grande, più è difficile coprire le necessità del personale. Nel 95,2% degli ospedali con più di 600 posti letto c’è carenza di infermieri nei reparti di medicina generale e nel 97,4% di essi si lamenta scarsità di personale specializzato nelle unità di terapia intensiva”.
C’è allarme in Bassa Sassonia per la minacciata chiusura dei reparti di ostetricia in dozzine di ospedali del Land, mentre vengono effettivamente chiusi sempre più reparti di ginecologia e ostetricia. La clinica universitaria della Charité, a Berlino, due settimane fa ha dovuto chiudere il reparto tumori infantili e lamenta la mancanza di 100 infermieri.
“In generale, sono sotto accusa i piani finanziari” scrive Die junge Welt, dato che “non vengono più pagati i giorni di degenza, bensì gli interventi operatori. Una operazione al cuore rende molto più di un paziente sotto osservazione”: ciò riguarda soprattutto i più giovani; e così molte cliniche risparmiano proprio su questi settori. L’associazione dei pediatri parla di “mania di economizzazione“, che “sta aprendo larghe brecce soprattutto nei reparti meno lucrativi“.
Secondo l’Ufficio federale di statistica, due anni fa c’erano 1.940 ospedali, quasi 500 in meno rispetto al 1991 e nello stesso periodo si sono ridotti di 1/4 i posti letto, calando a meno di mezzo milione. Il perché non è ovviamente un mistero: tra il 2000 e il 2017, è quasi raddoppiato (dal 22 al 38%) il numero di cliniche privatizzate: tra esse, anche quella di Haldensleben, che nel 2006 era andata al gruppo Sana e 7 anni dopo fu rilevata da Ameos. Da allora, i dipendenti lamentano pessime condizioni di lavoro e bassi salari. A inizio dicembre, Ver.Di (Vereinte Dienstleistungsgewerkschaft: il sindacato del settore servizi) ha annunciato scioperi di avvertimento: per tutta risposta, Ameos ha licenziato senza preavviso 20 dipendenti.
Per la situazione nel mondo del lavoro in Germania, ancora Die junge Welt nota che “molte donne sono materialmente dipendenti” dalle entrate dei propri mariti: ciò spicca “particolarmente a ovest. Ma a est la povertà lavorativa continua a essere uniformemente diffusa tra entrambi i sessi”.
L’ultima analisi condotta dall’Istituto per il mercato del lavoro (Institut für Arbeitsmarkt und Berufsforschung: IAB) certifica che le “classiche occupazioni femminili sono di solito malpagate. Nelle grandi aziende che occupano principalmente uomini, i salari sono migliori. La disparità di salario tra i sessi è maggiore nelle aree metropolitane della Germania occidentale”.
A livello nazionale, gli uomini guadagnano in media circa il 24% più delle donne (114 euro lordi al giorno, contro 92) a parità di ore. Il fatto che la differenza non sia ancora maggiore è “grazie” soprattutto ai livelli salariali dell’est, in cui il divario è molto minore: qui gli uomini guadagnano significativamente meno (in qualche caso, nemmeno la metà) che a ovest.
A una giornata lavorativa di 7-8 ore, a est, corrisponde un salario di 84 euro: la metà che, ad esempio, in Baviera (170 euro) o Bassa Sassonia (162 euro). Nei distretti di Vorpommern-Rügen (Meclemburgo-Pomerania Anteriore) o Elbe-Elster (Brandeburgo) il salario di un uomo può scendere fino a 74-75 euro lordi al giorno (9,2-10,7 euro l’ora) o 76 euro nei circondari di Altenburger Land o di Saale-Orla (Turingia), oppure Erzgebirger (Sassonia).
Per quanto riguarda le retribuzioni delle lavoratrici, invece, le differenze tra est e ovest sono molto minori. Nello stesso distretto di Saale-Orla, ad esempio, il salario lordo medio è di 67 euro, che corrisponde più o meno al salario minimo ed è appena di 1 euro più basso rispetto, ad esempio, al circondario di Wittmund, in Bassa Sassonia, dove i livelli retributivi sono relativamente bassi soprattutto nei settori di commercio al dettaglio, assistenza sanitaria e servizi sociali, in cui sono occupate principalmente donne. Secondo la ricerca, inoltre, le donne lavorano molto più spesso degli uomini in uffici, servizi e lavori sociali scarsamente retribuiti, e anche in piccole imprese con salari inferiori alla media.
Peccato che la ricerca del IAB non indichi quanto i bassi salari, di donne e uomini, all’est – con i lavoratori degli ex Länder della DDR che, causa la forte deindustrializzazione dettata dal capitale tedesco-occidentale, sono rimasti disoccupati o costretti ad adattarsi a condizioni salariali pessime – contribuiscano ad abbassare (relativamente) anche il livello delle retribuzioni a ovest e, dunque, la media nazionale.
Se il paragone non fosse a dir poco arbitrario, si potrebbe osservare che la cosiddetta “unificazione” tedesca pare aver agito alla stregua dell’introduzione delle macchine nell’industria inglese studiata da Marx ne Il Capitale, che generò il massiccio impiego di donne e fanciulli nelle fabbriche: “Le macchine, gettando sul mercato del lavoro tutti i membri della famiglia operaia, distribuiscono su tutta la famiglia il valore della forza-lavoro dell’uomo, e quindi svalorizzano la forza-lavoro di quest’ultimo”.
Che poi il capitale tenda sempre più a economizzare sia sulla salute nei luoghi di lavoro, sia riducendo al minimo ogni assistenza sanitaria e sociale, il “Barometro ospedaliero” tedesco non fa che attestare quanto i “clienti” delle italiche Aziende sanitarie sperimentano sulla propria pelle.
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L’arresto di Nicoletta Dosio: una storia sbagliata
Una storia sbagliata, fin dall’inizio e oggi più che mai: Nicoletta Dosio, 73 anni, condotta in carcere per una condanna definitiva ad un anno di reclusione per una delle manifestazioni “No Tav” più comprensibile a tutti — del 2012! — dopo che un altro attivista (Luca Abbà) era rimasto folgorato nel corso di una pacifica protesta su di un traliccio, manifestazione assolutamente non violenta.
Dall’altra parte, un cantiere infinito di un’opera mastodontica, inutile per i più e dannosa secondo molti, la linea per il Treno ad Alta Velocità che un giorno (forse) collegherà un po’ più velocemente Torino a Lione, dopo che tutti i decisori (da cui, in origine, sono stati escluse legislativamente, con la legge grandi opere, le comunità interessate) avranno completato la militarizzazione dell’area del mega cantiere, diventata, con le disposizioni introdotte furtivamente nella legge “antifemminicidio” del 2013, “sito sensibile” la cui violazione comporta pene aggravate e dopo la conclusione dei lavori (oggi difficilmente immaginabile) a opera delle aziende incaricate, di cui buona parte fallite in corso d’opera e/o in odor di mafia.
La critica ad una simile opera appare del tutto legittima e la repressione di eventuali reati dovrebbe avvenire con lo stesso metro di valutazione utilizzato per altri settori.
Questa mega opera, contestatissima, costosissima e che, se e quando sarà mai ultimata sarà già superata, è costata al territorio su cui insiste decine e decine di processi (più o meno “maxi” e conosciuti, ma comunque pesantemente incidenti sulla libertà delle persone e sulla possibilità di prosecuzione pacifica della protesta) contro chi vi si oppone, misure cautelari, condanne pesanti in procedimenti “simbolici”, su cui la Cassazione è intervenuta ripetutamente negandone, in alcuni casi, la legittimità.
Anni di attività giudiziaria dedicata quasi esclusivamente a punire con condanne esemplari ogni singolo comportamento ostativo a una scelta giustamente criticata da più parti, incluse forze oggi al governo del paese. Una giustizia orientata, “forte con i deboli e debole con i forti”, indifferente alle legittime ragioni di una protesta con caratteri larghi e popolari. Un uso della giustizia in cui non ci riconosciamo.
In questa lotta, Nicoletta ha fatto la sua parte con coerenza e dignità e intende dimostrare, con il suo rifiuto di misure alternative al carcere, l’ingiustizia di una repressione contro il movimento No Tav a un livello che non si riscontra in altri settori.
Chiediamo con forza che le sia riconosciuto, come segnale di cambiamento nei rapporti con il conflitto sociale, un provvedimento d’ufficio di concessione della grazia.
I Giuristi Democratici confermano il loro impegno a difesa del sacrosanto diritto alla protesta contro la regina delle grande opere inutili, chiedendo un radicale cambio di rotta nella gestione dei conflitti sociali e ambientali, quale è certamente quello relativo al progetto Tav, che dovrebbe tornare a essere materia di un serio, civile, realistico e produttivo confronto tra comunità e governi locali e centrali, anziché materia di giudizi penali e ostentazione di potere militare e di ordine pubblico.
31 dicembre 2019
Fonte
Dall’altra parte, un cantiere infinito di un’opera mastodontica, inutile per i più e dannosa secondo molti, la linea per il Treno ad Alta Velocità che un giorno (forse) collegherà un po’ più velocemente Torino a Lione, dopo che tutti i decisori (da cui, in origine, sono stati escluse legislativamente, con la legge grandi opere, le comunità interessate) avranno completato la militarizzazione dell’area del mega cantiere, diventata, con le disposizioni introdotte furtivamente nella legge “antifemminicidio” del 2013, “sito sensibile” la cui violazione comporta pene aggravate e dopo la conclusione dei lavori (oggi difficilmente immaginabile) a opera delle aziende incaricate, di cui buona parte fallite in corso d’opera e/o in odor di mafia.
La critica ad una simile opera appare del tutto legittima e la repressione di eventuali reati dovrebbe avvenire con lo stesso metro di valutazione utilizzato per altri settori.
Questa mega opera, contestatissima, costosissima e che, se e quando sarà mai ultimata sarà già superata, è costata al territorio su cui insiste decine e decine di processi (più o meno “maxi” e conosciuti, ma comunque pesantemente incidenti sulla libertà delle persone e sulla possibilità di prosecuzione pacifica della protesta) contro chi vi si oppone, misure cautelari, condanne pesanti in procedimenti “simbolici”, su cui la Cassazione è intervenuta ripetutamente negandone, in alcuni casi, la legittimità.
Anni di attività giudiziaria dedicata quasi esclusivamente a punire con condanne esemplari ogni singolo comportamento ostativo a una scelta giustamente criticata da più parti, incluse forze oggi al governo del paese. Una giustizia orientata, “forte con i deboli e debole con i forti”, indifferente alle legittime ragioni di una protesta con caratteri larghi e popolari. Un uso della giustizia in cui non ci riconosciamo.
In questa lotta, Nicoletta ha fatto la sua parte con coerenza e dignità e intende dimostrare, con il suo rifiuto di misure alternative al carcere, l’ingiustizia di una repressione contro il movimento No Tav a un livello che non si riscontra in altri settori.
Chiediamo con forza che le sia riconosciuto, come segnale di cambiamento nei rapporti con il conflitto sociale, un provvedimento d’ufficio di concessione della grazia.
I Giuristi Democratici confermano il loro impegno a difesa del sacrosanto diritto alla protesta contro la regina delle grande opere inutili, chiedendo un radicale cambio di rotta nella gestione dei conflitti sociali e ambientali, quale è certamente quello relativo al progetto Tav, che dovrebbe tornare a essere materia di un serio, civile, realistico e produttivo confronto tra comunità e governi locali e centrali, anziché materia di giudizi penali e ostentazione di potere militare e di ordine pubblico.
31 dicembre 2019
Fonte
30/12/2019
Consigli (o sconsigli) per gli acquisti. Spartaco sei tu e Una vita intera
A un anno di distanza dalla scomparsa di Angelo “Sigaro” Conti escono
per Hellnation Libri, quasi in contemporanea, due libri che raccontano
il mondo della Banda Bassotti. Un’esperienza musicale tra le uniche del
suo genere. Nata in un mondo nel quale la sinistra era ancora capace di
politicizzare il proletariato metropolitano e che rappresenta
l’esperienza di un gruppo di manovali, arrivato ad essere il più
importante gruppo musicale militante italiano e non solo.
Il primo volume è “Spartaco sei tu. Vita, canzoni e miracoli di Angelo "Sigaro" Conti, un operaio alla chitarra”, curato da Filippo Andreani. Una sorta di libro caleidoscopio di 160 pagine dove, oltre alla biografia di “Sigaro”, autore e musicista della Banda Bassotti, dei Vento dall’Est e di Lettere dalla Strada, troviamo racconti e aneddoti della sua vita. Non si tratta di un monumento di carta eretto a sua memoria ma il tentativo ambizioso di descrivere questo “pontarolo e disoccupato, autore e suonatore. Poeta della vita. Comunista nel senso più alto e profondo che si possa dare a questa parola”, attraverso lo sguardo delle persone che lo hanno conosciuto. E solo così poteva essere raccontato l’uomo che ha sempre vissuto la musica come un fatto collettivo, tanto che nei primissimi anni ai concerti della Banda salivano sul palco anche 20 persone tra musicisti e cori, fedele all’idea che “Spartaco sei tu, Spartaco semo tutti”. Se per Brecht il comunismo è la semplicità che è difficile a farsi, grazie a “Sigaro” per molti di noi è diventato facile almeno a cantarsi, soprattutto negli anni in cui definirsi così stava diventando velocemente un tabù. I fondi raccolti dalle vendite di questo libro sono destinati a finanziare una sala musica per bambini all’interno del campo di Sabra e Shatila. Un progetto di solidarietà internazionalista, attività che caratterizza da sempre l’attività della Banda. E qui veniamo all’altro libro in oggetto.
Il secondo è “Una vita intera. Memorie di un operaio internazionalista” di David Cacchione, anche lui membro della Banda Bassotti. Si tratta di un libro di oltre 200 pagine, completo di selezione fotografica e che si colloca nel solco della memorialistica rivoluzionaria con una scrittura scarna, netta, priva di artifici letterari ma testimonianza di un’epoca, di un ambiente sociale e di un periodo storico che parte dagli anni Sessanta per arrivare a oggi. Attraversa tutta la vita di David e quella della Banda Bassotti, per lungo tempo coincidenti. Il volume descrive con un’intensità fuori dal comune l’epopea della vita di borgata di quegli anni. La progressiva partecipazione e presa di coscienza e la nascita spontanea di questo gruppo musicale operaio, nato letteralmente sui ponteggi dei cantieri edili per poi arrivare in tutto il mondo impastando con la calce due linguaggi universali: la musica e la lotta di classe. Non si tratta di un semplice elenco di aneddoti o di una raccolta di foto, ma di una serie di situazioni vissute, che evocano immancabilmente, alla mente di ogni compagno, scene analoghe alle quali ognuno di noi ha assistito. Comprese quelle che secondo l’autore è stato “meglio non scrivere”.
Nelle pagine è ben descritta e raccontata anche l’esperienza fondamentale, per la scena musicale italiana, della gloriosa Gridalo Forte Records, vero e proprio braccio discografico della Banda Bassotti. La conseguenza di una precisa scelta politico/musicale. La scelta di produrre album e festival in grado di mescolare le sonorità punk, ska, hip hop contemporanee con testi di lotta in italiano, comprensibili alle persone e che affondano le radici nella tradizione dei Dischi del Sole. Un ingranaggio fondamentale per la costruzione dell’immaginario collettivo che tutti conosciamo.
Tutti questi episodi raccontati indicano, nel miglior modo possibile, fino a dove può arrivare un numero anche esiguo di persone, anche caratterizzato da una preparazione musicale da autodidatti ma che procede “avanti unito” con una direzione chiara e precisa. Una consapevolezza e una determinazione che sicuramente viene rafforzata dalla matrice operaia: ossia l’abitudine di portare avanti un lavoro dalle fondamenta fino al tetto, senza horror vacui e che permette ai Bassotti di perseguire fino in fondo i propri obiettivi politici e musicali. Superando così i momenti bui e quelli di difficoltà per arrivare infine ad afferrare il pieno significato di ingegneri dell’anima umana e rivoluzionari internazionalisti.
A qualcuno potrà sembrare strano o peculiare che vengano pubblicati libri che non siano propriamente opera di scrittori di professione ma di manovali, che non contengono audaci trovate letterarie o svolazzi da scrittore. Oppure che siano scritti senza il vocabolario e la chiarezza espositiva del ricercatore o del politicante di professione. Eppure chi, come la Banda Bassotti, ha allenato nel corso degli anni un certo tipo di fiuto rivoluzionario non corre mai il rischio di cadere in errori marchiani di cui altre pubblicazioni sono piene. Non dimentica i fatti essenziali. Comprende fino in fondo gli avvenimenti che lo circondano e naturalmente arriva a prendere posizioni e iniziative talvolta scomode e persino di minoranza con la certezza di stare sempre dalla parte giusta della barricata. Com’è accaduto per molte delle questioni internazionali che la Banda non ha mai esitato a sostenere: la lotta indipendentista dei baschi, il Nicaragua sandinista, l’FLMN salvadoregno, le Farc colombiane, la resistenza antifascista del Donbass, la resistenza palestinese o quella siriana. Iniziative che nell’epoca della distruzione della sinistra di classe li ha visti spesso come unici testimoni organizzati. Una capacità, quella di trovarsi al posto giusto nel momento giusto, sviluppata con lo sforzo costante di non essere pensati ma di pensarsi da sé. Magari a tratti retorici o senza la raffinata eloquenza che va tanto di moda ma che mescola sapientemente pensiero e azione e lo trasforma in organizzazione, pragmatismo e persuasione permanente.
Rivoluzionari nell’anima e dell’anima, quindi. Musicisti. Operai comunisti che comprendono a pieno il senso storico degli avvenimenti e il senso grande e internazionale della lotta. Da questo deriva l’acutezza di visione senza la quale sarebbe impossibile diventare ciò che la Banda Bassotti è ed è stata. Piccolo gruppo abituato a ricevere 10 e dare 100, direbbe Pasquale. Proveniente dal mondo della produzione e legato intimamente alla classe lavoratrice dal compito di contribuire a costruire la sua emancipazione ovunque nel mondo. Perché sei antimperialista o non lo sei, direbbe Picchio.
Intervenendo in una discussione a margine di un concerto una volta un compagno disse “in questi anni ho come la sensazione che abbiano convinto più compagni i bassotti di tutte le iniziative a cui ho partecipato”. Probabilmente era vero. Ed era importante fissare su carta perché.
Fonte
Il primo volume è “Spartaco sei tu. Vita, canzoni e miracoli di Angelo "Sigaro" Conti, un operaio alla chitarra”, curato da Filippo Andreani. Una sorta di libro caleidoscopio di 160 pagine dove, oltre alla biografia di “Sigaro”, autore e musicista della Banda Bassotti, dei Vento dall’Est e di Lettere dalla Strada, troviamo racconti e aneddoti della sua vita. Non si tratta di un monumento di carta eretto a sua memoria ma il tentativo ambizioso di descrivere questo “pontarolo e disoccupato, autore e suonatore. Poeta della vita. Comunista nel senso più alto e profondo che si possa dare a questa parola”, attraverso lo sguardo delle persone che lo hanno conosciuto. E solo così poteva essere raccontato l’uomo che ha sempre vissuto la musica come un fatto collettivo, tanto che nei primissimi anni ai concerti della Banda salivano sul palco anche 20 persone tra musicisti e cori, fedele all’idea che “Spartaco sei tu, Spartaco semo tutti”. Se per Brecht il comunismo è la semplicità che è difficile a farsi, grazie a “Sigaro” per molti di noi è diventato facile almeno a cantarsi, soprattutto negli anni in cui definirsi così stava diventando velocemente un tabù. I fondi raccolti dalle vendite di questo libro sono destinati a finanziare una sala musica per bambini all’interno del campo di Sabra e Shatila. Un progetto di solidarietà internazionalista, attività che caratterizza da sempre l’attività della Banda. E qui veniamo all’altro libro in oggetto.
Il secondo è “Una vita intera. Memorie di un operaio internazionalista” di David Cacchione, anche lui membro della Banda Bassotti. Si tratta di un libro di oltre 200 pagine, completo di selezione fotografica e che si colloca nel solco della memorialistica rivoluzionaria con una scrittura scarna, netta, priva di artifici letterari ma testimonianza di un’epoca, di un ambiente sociale e di un periodo storico che parte dagli anni Sessanta per arrivare a oggi. Attraversa tutta la vita di David e quella della Banda Bassotti, per lungo tempo coincidenti. Il volume descrive con un’intensità fuori dal comune l’epopea della vita di borgata di quegli anni. La progressiva partecipazione e presa di coscienza e la nascita spontanea di questo gruppo musicale operaio, nato letteralmente sui ponteggi dei cantieri edili per poi arrivare in tutto il mondo impastando con la calce due linguaggi universali: la musica e la lotta di classe. Non si tratta di un semplice elenco di aneddoti o di una raccolta di foto, ma di una serie di situazioni vissute, che evocano immancabilmente, alla mente di ogni compagno, scene analoghe alle quali ognuno di noi ha assistito. Comprese quelle che secondo l’autore è stato “meglio non scrivere”.
Nelle pagine è ben descritta e raccontata anche l’esperienza fondamentale, per la scena musicale italiana, della gloriosa Gridalo Forte Records, vero e proprio braccio discografico della Banda Bassotti. La conseguenza di una precisa scelta politico/musicale. La scelta di produrre album e festival in grado di mescolare le sonorità punk, ska, hip hop contemporanee con testi di lotta in italiano, comprensibili alle persone e che affondano le radici nella tradizione dei Dischi del Sole. Un ingranaggio fondamentale per la costruzione dell’immaginario collettivo che tutti conosciamo.
Tutti questi episodi raccontati indicano, nel miglior modo possibile, fino a dove può arrivare un numero anche esiguo di persone, anche caratterizzato da una preparazione musicale da autodidatti ma che procede “avanti unito” con una direzione chiara e precisa. Una consapevolezza e una determinazione che sicuramente viene rafforzata dalla matrice operaia: ossia l’abitudine di portare avanti un lavoro dalle fondamenta fino al tetto, senza horror vacui e che permette ai Bassotti di perseguire fino in fondo i propri obiettivi politici e musicali. Superando così i momenti bui e quelli di difficoltà per arrivare infine ad afferrare il pieno significato di ingegneri dell’anima umana e rivoluzionari internazionalisti.
A qualcuno potrà sembrare strano o peculiare che vengano pubblicati libri che non siano propriamente opera di scrittori di professione ma di manovali, che non contengono audaci trovate letterarie o svolazzi da scrittore. Oppure che siano scritti senza il vocabolario e la chiarezza espositiva del ricercatore o del politicante di professione. Eppure chi, come la Banda Bassotti, ha allenato nel corso degli anni un certo tipo di fiuto rivoluzionario non corre mai il rischio di cadere in errori marchiani di cui altre pubblicazioni sono piene. Non dimentica i fatti essenziali. Comprende fino in fondo gli avvenimenti che lo circondano e naturalmente arriva a prendere posizioni e iniziative talvolta scomode e persino di minoranza con la certezza di stare sempre dalla parte giusta della barricata. Com’è accaduto per molte delle questioni internazionali che la Banda non ha mai esitato a sostenere: la lotta indipendentista dei baschi, il Nicaragua sandinista, l’FLMN salvadoregno, le Farc colombiane, la resistenza antifascista del Donbass, la resistenza palestinese o quella siriana. Iniziative che nell’epoca della distruzione della sinistra di classe li ha visti spesso come unici testimoni organizzati. Una capacità, quella di trovarsi al posto giusto nel momento giusto, sviluppata con lo sforzo costante di non essere pensati ma di pensarsi da sé. Magari a tratti retorici o senza la raffinata eloquenza che va tanto di moda ma che mescola sapientemente pensiero e azione e lo trasforma in organizzazione, pragmatismo e persuasione permanente.
Rivoluzionari nell’anima e dell’anima, quindi. Musicisti. Operai comunisti che comprendono a pieno il senso storico degli avvenimenti e il senso grande e internazionale della lotta. Da questo deriva l’acutezza di visione senza la quale sarebbe impossibile diventare ciò che la Banda Bassotti è ed è stata. Piccolo gruppo abituato a ricevere 10 e dare 100, direbbe Pasquale. Proveniente dal mondo della produzione e legato intimamente alla classe lavoratrice dal compito di contribuire a costruire la sua emancipazione ovunque nel mondo. Perché sei antimperialista o non lo sei, direbbe Picchio.
Intervenendo in una discussione a margine di un concerto una volta un compagno disse “in questi anni ho come la sensazione che abbiano convinto più compagni i bassotti di tutte le iniziative a cui ho partecipato”. Probabilmente era vero. Ed era importante fissare su carta perché.
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Trent’anni fa, il sangue di Panama
A distanza di trent’anni dalla sanguinosa invasione statunitense, il
presidente Laurentino Cortizo ha dichiarato il 20 dicembre giorno di
lutto nazionale “per onorare tutti gli innocenti che persero la vita e
difesero l’integrità del nostro territorio”. È la prima volta che il
governo panamense adotta una tale decisione, venendo incontro a una
richiesta dell’Associazione dei familiari e amici delle vittime.
Un passo puramente simbolico: la bandiera nazionale è stata issata a mezz’asta, ma su pressione del mondo imprenditoriale fabbriche e uffici sono rimasti aperti. Si tratta comunque di una novità importante, che segna la presidenza di Cortizo (Partido Revolucionario Democrático) eletto nel maggio di quest’anno. Cortizo ha vinto le presidenziali con la promessa di lottare contro povertà e disuguaglianze, di rivedere il nefasto trattato di libero commercio con gli Usa che ha portato alla rovina l’agricoltura del paese e di prendere le distanze dalla politica estera di estrema destra delle amministrazioni precedenti.
Per tre decenni sugli avvenimenti del 20 dicembre 1989 è stato steso un velo di silenzio. Nessuna commemorazione ufficiale, nessuna inchiesta sull’accaduto. Solo nel 2016 – dopo innumerevoli sollecitazioni dei familiari – è stata creata una commissione presieduta dal rettore universitario Juan Planells e incaricata di ricostruire la verità storica. Ma lo stesso Planells ammette che i lavori procedono a passo di lumaca e del resto i fondi sono stati sempre erogati con il contagocce. Intanto decine di corpi senza nome giacciono ancora nei cimiteri: le prime esumazioni per identificarli avverranno soltanto in gennaio.
Giusta Causa. Così gli Stati Uniti ribattezzarono l’invasione, effettuata con il pretesto di arrestare il generale Manuel Antonio Noriega, accusato di narcotraffico e riciclaggio. 26.000 soldati occuparono il paese mentre gli aerei bombardavano la capitale, in particolare il popoloso quartiere di El Chorrillo, uccidendo centinaia, forse migliaia di civili (il numero esatto non è mai stato determinato). “Come si può distruggere un paese per catturare un solo uomo”: questo il commento del documentario Invasión, diretto nel 2014 dal panamense Abner Benaim.
Allo sbarco dei marines seguirono due anni di occupazione: come presidente venne imposto l'imprenditore Guillermo Endara al quale – secondo Washington – era stata sottratta la vittoria elettorale nel maggio 1989. Endara prestò giuramento in una base militare statunitense.
I superstiti attendono ancora che gli Usa paghino i danni umani e materiali di quell’azione. Nel 2017 la Commissione Interamericana per i Diritti Umani aveva raccomandato al governo di Washington di “riparare integralmente le violazioni ai diritti umani tanto nell’aspetto materiale che in quello immateriale”. Le autorità statunitensi si sono limitate a condannare quattro militari per l’assassinio di civili, ma continuano a celebrare il “successo” dell’operazione.
Ma quale fu il vero motivo dell’invasione? La vicenda di Noriega ricorda quella di Saddam, passato da grande alleato a nemico giurato della Casa Bianca. Ex membro della Cia e giunto al potere nel 1983 con l’aiuto statunitense, Noriega aveva preso sempre più le distanze da Washington, che nel 1989 non lo considerava più funzionale ai proprii interessi. Secondo alcuni storici, il generale si era rifiutato di intervenire contro il governo sandinista del Nicaragua. Secondo un’altra ipotesi, aveva respinto una revisione dei Trattati Torrijos-Carter del 1977, grazie ai quali il Canale sarebbe tornato sotto sovranità panamense alla fine del 1999 (come poi avvenne).
Al di là delle ragioni congiunturali, l’invasione di Panama segna l’avvio di una nuova fase della politica statunitense. Pochi giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, gli Stati Uniti sostituivano in America Latina il pretesto della guerra contro il comunismo con quello della guerra al traffico di droga.
Una politica che all’epoca ricercava l’avallo degli alleati del continente. Come si è appreso da documenti recentemente declassificati, all’alba del 20 dicembre George Bush padre contattò tre presidenti latinoamericani per avvertirli dell’inizio dell’invasione. Erano l’argentino Carlos Menem, il messicano Carlos Salinas de Gortari e il venezuelano Carlos Andrés Pérez. I tre Carlos erano di stretta osservanza neoliberista e di incondizionata fedeltà a Washington: il governo di Menem teorizzerà le “relazioni carnali” con gli Usa; quello di Salinas firmerà il Nafta, il Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord; il secondo mandato di Pérez si era già contraddistinto, nel febbraio di quell’anno, per il massacro di migliaia di persone che protestavano contro l’aumento del costo della vita (il cosiddetto caracazo). Al termine della loro presidenza, tutti e tre finiranno indagati per corruzione e Salinas anche per narcotraffico.
Quanto a Noriega, durante l’attacco riuscì a rifugiarsi nella Nunziatura Apostolica del Vaticano, ma il 3 gennaio del 1990 si consegnò ai militari statunitensi. Processato negli Usa, fu condannato a quarant’anni di prigione, poi ridotti a 17 per buona condotta. Scontata questa pena, nel 2010 venne estradato in Francia, dove gli vennero inflitti sette anni per riciclaggio. Nel 2011 però fu rinviato in patria, per rispondere di altre accuse riguardanti l’assassinio di esponenti dell’opposizione. Morirà a Panama nel 2017.
Fonte
Un passo puramente simbolico: la bandiera nazionale è stata issata a mezz’asta, ma su pressione del mondo imprenditoriale fabbriche e uffici sono rimasti aperti. Si tratta comunque di una novità importante, che segna la presidenza di Cortizo (Partido Revolucionario Democrático) eletto nel maggio di quest’anno. Cortizo ha vinto le presidenziali con la promessa di lottare contro povertà e disuguaglianze, di rivedere il nefasto trattato di libero commercio con gli Usa che ha portato alla rovina l’agricoltura del paese e di prendere le distanze dalla politica estera di estrema destra delle amministrazioni precedenti.
Per tre decenni sugli avvenimenti del 20 dicembre 1989 è stato steso un velo di silenzio. Nessuna commemorazione ufficiale, nessuna inchiesta sull’accaduto. Solo nel 2016 – dopo innumerevoli sollecitazioni dei familiari – è stata creata una commissione presieduta dal rettore universitario Juan Planells e incaricata di ricostruire la verità storica. Ma lo stesso Planells ammette che i lavori procedono a passo di lumaca e del resto i fondi sono stati sempre erogati con il contagocce. Intanto decine di corpi senza nome giacciono ancora nei cimiteri: le prime esumazioni per identificarli avverranno soltanto in gennaio.
Giusta Causa. Così gli Stati Uniti ribattezzarono l’invasione, effettuata con il pretesto di arrestare il generale Manuel Antonio Noriega, accusato di narcotraffico e riciclaggio. 26.000 soldati occuparono il paese mentre gli aerei bombardavano la capitale, in particolare il popoloso quartiere di El Chorrillo, uccidendo centinaia, forse migliaia di civili (il numero esatto non è mai stato determinato). “Come si può distruggere un paese per catturare un solo uomo”: questo il commento del documentario Invasión, diretto nel 2014 dal panamense Abner Benaim.
Allo sbarco dei marines seguirono due anni di occupazione: come presidente venne imposto l'imprenditore Guillermo Endara al quale – secondo Washington – era stata sottratta la vittoria elettorale nel maggio 1989. Endara prestò giuramento in una base militare statunitense.
I superstiti attendono ancora che gli Usa paghino i danni umani e materiali di quell’azione. Nel 2017 la Commissione Interamericana per i Diritti Umani aveva raccomandato al governo di Washington di “riparare integralmente le violazioni ai diritti umani tanto nell’aspetto materiale che in quello immateriale”. Le autorità statunitensi si sono limitate a condannare quattro militari per l’assassinio di civili, ma continuano a celebrare il “successo” dell’operazione.
Ma quale fu il vero motivo dell’invasione? La vicenda di Noriega ricorda quella di Saddam, passato da grande alleato a nemico giurato della Casa Bianca. Ex membro della Cia e giunto al potere nel 1983 con l’aiuto statunitense, Noriega aveva preso sempre più le distanze da Washington, che nel 1989 non lo considerava più funzionale ai proprii interessi. Secondo alcuni storici, il generale si era rifiutato di intervenire contro il governo sandinista del Nicaragua. Secondo un’altra ipotesi, aveva respinto una revisione dei Trattati Torrijos-Carter del 1977, grazie ai quali il Canale sarebbe tornato sotto sovranità panamense alla fine del 1999 (come poi avvenne).
Al di là delle ragioni congiunturali, l’invasione di Panama segna l’avvio di una nuova fase della politica statunitense. Pochi giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, gli Stati Uniti sostituivano in America Latina il pretesto della guerra contro il comunismo con quello della guerra al traffico di droga.
Una politica che all’epoca ricercava l’avallo degli alleati del continente. Come si è appreso da documenti recentemente declassificati, all’alba del 20 dicembre George Bush padre contattò tre presidenti latinoamericani per avvertirli dell’inizio dell’invasione. Erano l’argentino Carlos Menem, il messicano Carlos Salinas de Gortari e il venezuelano Carlos Andrés Pérez. I tre Carlos erano di stretta osservanza neoliberista e di incondizionata fedeltà a Washington: il governo di Menem teorizzerà le “relazioni carnali” con gli Usa; quello di Salinas firmerà il Nafta, il Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord; il secondo mandato di Pérez si era già contraddistinto, nel febbraio di quell’anno, per il massacro di migliaia di persone che protestavano contro l’aumento del costo della vita (il cosiddetto caracazo). Al termine della loro presidenza, tutti e tre finiranno indagati per corruzione e Salinas anche per narcotraffico.
Quanto a Noriega, durante l’attacco riuscì a rifugiarsi nella Nunziatura Apostolica del Vaticano, ma il 3 gennaio del 1990 si consegnò ai militari statunitensi. Processato negli Usa, fu condannato a quarant’anni di prigione, poi ridotti a 17 per buona condotta. Scontata questa pena, nel 2010 venne estradato in Francia, dove gli vennero inflitti sette anni per riciclaggio. Nel 2011 però fu rinviato in patria, per rispondere di altre accuse riguardanti l’assassinio di esponenti dell’opposizione. Morirà a Panama nel 2017.
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Anno nuovo, sabbia nuova. Geomanzie del Sahel
Come non averci pensato prima. Nel marasma creato, sofferto e indefinibile del Sahel, sarebbe stato più agevole percorrere vie d’uscita forse decisive. Bastava domandare alla sabbia e avremmo ottenuto le relative risposte alle domande poste.
L’antica arte divinatoria, chiamata geomanzia, che interpretava i segni presenti sulla sabbia o sul terreno, è a tutt’oggi praticata nella zona a cavallo tra il Burkina Faso e il Niger. Lo specialista, l’esperto nella decodificazione dei segni, avrebbe potuto fornire indicazioni utili sul da farsi nel contesto delle drammatiche turbolenze della zona.
Tra attacchi quasi quotidiani ad opera dei gruppi armati terroristi, al banditismo, ai traffici di ogni tipo e all’ingrossarsi dei ranghi militari disposti ad intervenire nel Sahel, l’arte divinatoria sembra oltremodo necessaria. Difficile poter uscire dalla spirale di violenza che ha avviluppato alcune regioni del Sahel, seminando vittime, provocando la chiusura di migliaia di scuole e l‘esodo di centinaia di migliaia di persone, senza affidarsi alla saggezza ancestrale della sabbia.
Ci sarebbe da mettersi a scuola di segni, fatti con le dita sulla sabbia, a seconda delle domande insinuate, in modo da interpretare le cause e proporre le risposte convenienti al problema in questione. Provare a chiedere alla sabbia, distesa e spalmata sul terreno, poi disegnata da linee, punti e disegni, come sarà l’anno che verrà e magari gli anni seguenti.
La sabbia sa, custodisce, tramanda, inventa e infine offre percorsi alternativi di pensiero e di prassi a chi osa interrogarla e poi accoglie le sue risposte. Le mani del vate o specialista si muovono e articolano scritture di sabbia che solo lui e altri come lui sanno decifrare. Lui sa bene che, in fondo, tutto sta scritto sulla sabbia. Passato, presente e futuro sono tracce ricavate dalla sabbia che solo il tempo renderanno comprensibili agli attori della storia.
Il primo passo da compiere è dunque quello di fidarsi della saggezza della terra: sedersi, inginocchiarsi e dare il tempo necessario all’operazione di scrittura. Il primo tradimento è stato quello perpetrato contro la memoria degli antenati.
Una grave operazione di slegamento e separazione dalla linfa ancestrale è stata orchestrata ormai da decenni e questo ha reso il corpo sociale incapace di dare ragione alle nuove sfide della modernità. Sono apparsi nuovi poteri, religiosi politici ed economici, che hanno colmato il vuoto lasciato dall’abbandono dei tessuti umani e delle simbologie ereditate dalle culture. Conseguenze di ciò sono state le multiformi dittature che i nuovi poteri hanno creato e poi preteso garantire con mezzi adatti al fine.
L’economia e la politica si sono rapidamente armate, per le avventure coloniali prima e post coloniali dopo. La logica violenta non è affatto cambiata, solo sono mutate le armi e le divise degli eserciti con le rispettive bandiere al vento. I Programmi di Aggiustamento Strutturale, veri e propri smantellamenti dei tentativi maldestri di ridistribuzione del potere, hanno contribuito a dare forme locali al sistema di predazione globale. Finché il mostro neoliberale della trasformazione in merce di ogni realtà utile ha mostrato la sua ferocia e implacabilità.
I gruppi armati terroristi non sono altro che lo specchio, appena deformato, della stessa immagine e logica da mercanti. L’ascolto della sabbia, al suo silenzioso grido e alla sua fragile saggezza è il cammino.
La sabbia confesserebbe ciò che nessuno vuole più sentirsi dire. Che la salvezza non verrà né dai droni armati, né da sofisticate strategie militari delle quali più nessuno si fida. Le viscere della terra sono state violate, scavate, espropriate e rese infine sterili.
I disegnatori di sabbia l’avevano predetto nelle loro geomantiche profezie e non sono stati creduti. Avevano intravisto la sciagura che si stava abbattendo sul mondo quando il sangue e il sudore si erano mescolati per farne degli schiavi. Chi si ribellava a questo destino e per questo cercava di andare altrove veniva inseguito, perseguitato e infine detenuto finché non avesse cambiato idea e tornasse sconfitto.
La sabbia confessava che tutto, proprio tutto e soprattutto gli umani sono da lei generati e che, un giorno già scritto, capiranno. Fu la dimenticanza di questa comune origine e dello stesso destino che ha generato la grande alienazione di cui si registrano oggi le nefaste conseguenze. La sabbia sa perdonare e abbracciare le sue creature quando tornano a lei.
Niamey
Fonte
L’antica arte divinatoria, chiamata geomanzia, che interpretava i segni presenti sulla sabbia o sul terreno, è a tutt’oggi praticata nella zona a cavallo tra il Burkina Faso e il Niger. Lo specialista, l’esperto nella decodificazione dei segni, avrebbe potuto fornire indicazioni utili sul da farsi nel contesto delle drammatiche turbolenze della zona.
Tra attacchi quasi quotidiani ad opera dei gruppi armati terroristi, al banditismo, ai traffici di ogni tipo e all’ingrossarsi dei ranghi militari disposti ad intervenire nel Sahel, l’arte divinatoria sembra oltremodo necessaria. Difficile poter uscire dalla spirale di violenza che ha avviluppato alcune regioni del Sahel, seminando vittime, provocando la chiusura di migliaia di scuole e l‘esodo di centinaia di migliaia di persone, senza affidarsi alla saggezza ancestrale della sabbia.
Ci sarebbe da mettersi a scuola di segni, fatti con le dita sulla sabbia, a seconda delle domande insinuate, in modo da interpretare le cause e proporre le risposte convenienti al problema in questione. Provare a chiedere alla sabbia, distesa e spalmata sul terreno, poi disegnata da linee, punti e disegni, come sarà l’anno che verrà e magari gli anni seguenti.
La sabbia sa, custodisce, tramanda, inventa e infine offre percorsi alternativi di pensiero e di prassi a chi osa interrogarla e poi accoglie le sue risposte. Le mani del vate o specialista si muovono e articolano scritture di sabbia che solo lui e altri come lui sanno decifrare. Lui sa bene che, in fondo, tutto sta scritto sulla sabbia. Passato, presente e futuro sono tracce ricavate dalla sabbia che solo il tempo renderanno comprensibili agli attori della storia.
Il primo passo da compiere è dunque quello di fidarsi della saggezza della terra: sedersi, inginocchiarsi e dare il tempo necessario all’operazione di scrittura. Il primo tradimento è stato quello perpetrato contro la memoria degli antenati.
Una grave operazione di slegamento e separazione dalla linfa ancestrale è stata orchestrata ormai da decenni e questo ha reso il corpo sociale incapace di dare ragione alle nuove sfide della modernità. Sono apparsi nuovi poteri, religiosi politici ed economici, che hanno colmato il vuoto lasciato dall’abbandono dei tessuti umani e delle simbologie ereditate dalle culture. Conseguenze di ciò sono state le multiformi dittature che i nuovi poteri hanno creato e poi preteso garantire con mezzi adatti al fine.
L’economia e la politica si sono rapidamente armate, per le avventure coloniali prima e post coloniali dopo. La logica violenta non è affatto cambiata, solo sono mutate le armi e le divise degli eserciti con le rispettive bandiere al vento. I Programmi di Aggiustamento Strutturale, veri e propri smantellamenti dei tentativi maldestri di ridistribuzione del potere, hanno contribuito a dare forme locali al sistema di predazione globale. Finché il mostro neoliberale della trasformazione in merce di ogni realtà utile ha mostrato la sua ferocia e implacabilità.
I gruppi armati terroristi non sono altro che lo specchio, appena deformato, della stessa immagine e logica da mercanti. L’ascolto della sabbia, al suo silenzioso grido e alla sua fragile saggezza è il cammino.
La sabbia confesserebbe ciò che nessuno vuole più sentirsi dire. Che la salvezza non verrà né dai droni armati, né da sofisticate strategie militari delle quali più nessuno si fida. Le viscere della terra sono state violate, scavate, espropriate e rese infine sterili.
I disegnatori di sabbia l’avevano predetto nelle loro geomantiche profezie e non sono stati creduti. Avevano intravisto la sciagura che si stava abbattendo sul mondo quando il sangue e il sudore si erano mescolati per farne degli schiavi. Chi si ribellava a questo destino e per questo cercava di andare altrove veniva inseguito, perseguitato e infine detenuto finché non avesse cambiato idea e tornasse sconfitto.
La sabbia confessava che tutto, proprio tutto e soprattutto gli umani sono da lei generati e che, un giorno già scritto, capiranno. Fu la dimenticanza di questa comune origine e dello stesso destino che ha generato la grande alienazione di cui si registrano oggi le nefaste conseguenze. La sabbia sa perdonare e abbracciare le sue creature quando tornano a lei.
Niamey
Fonte
La lettera di due studentesse solidali con gli operai e multate per blocco stradale a Prato
Qui di seguito la lettera che due studentesse delle scuole medie superiori hanno inviato al giornale “La Nazione”. Le due studentesse, insieme a diciannove operai, sono state sanzionate per 4mila euro per aver partecipato al blocco stradale fatto dai lavoratori impegnati in una vertenza sindacale alla lavanderia Superlativa di Prato. Una società regolata dai Decreti Sicurezza è come la mafia: una montagna di merda.
Caro direttore,
siamo #Elena e #Margherita, due ragazze di #Firenze. Ogni mattina, come tutti i nostri coetanei, ci alziamo e andiamo a scuola, il pomeriggio studiamo e passiamo il tempo libero con gli amici. Siamo due ragazze normalissime, che però qualche giorno fa si sono viste recapitare a casa una multa di 4000 euro. Può immaginare la sorpresa all’apertura della busta, ma niente rispetto allo sgomento che abbiamo provato scorrendo le righe dell’ammenda. In breve siamo accusate, insieme ad altri 21 operai, di blocco stradale e grazie al #DecretoSicurezza voluto l’anno scorso da Matteo Salvini adesso verremo punite per il pericolosissimo reato di #solidarietà. Sì, perché questo abbiamo fatto.
La mattina del 16 ottobre abbiamo letto dell’investimento di una sindacalista davanti alla fabbrica #Superlativa di Prato, i cui operai da mesi sono in sciopero perché non vengono pagati dall’azienda, e le cui vicende avevamo seguito anche in estate. Molti giornali infatti avevano parlato delle condizioni di lavoro disumane degli operai di Superlativa e delle loro semplici richieste: avere quello stipendio che mancava ormai da sette mesi. Quella mattina, dunque, abbiamo deciso di prendere il treno e andare pure noi davanti a quei cancelli, con il semplice intento di manifestare la nostra vicinanza tanto agli operai quanto alla sindacalista ferita. Non ci sembrava che chiedere il rispetto di un contratto potesse essere in un qualche modo criminale, ma le multe che sono state recapitate due mesi più tardi a noi e ad altri 21 operai questo farebbero pensare.
Ci chiediamo, quindi, come sia possibile tutto questo.
Lo scorso 30 novembre la nostra città, Firenze, è stata letteralmente invasa da un mare di quarantamila #sardine e in Piazza della Repubblica, stretti come tutti gli altri, c’eravamo anche noi. Non ci piacciono le parole di odio di Salvini, e come giovani ci sentiamo doppiamente attaccati dalle sue politiche perché (e questo nessuno lo dovrebbe mai dimenticare) il Paese che vorrebbe costruire è quello che, un giorno, erediteremo noi. E allora forse quello che oggi ciascuno si dovrebbe chiedere è se l’Italia che ci volete lasciare è proprio questa, in cui due ragazze solidali con degli operai vengono multate; in cui la priorità pare essere diventata quella di impedire l’ingresso ai migranti piuttosto che mettere in campo delle politiche grazie alle quali i giovani come noi non debbano diventare loro stessi emigranti, cercando sorte migliore all’estero; e i paradossi che potremmo elencare sarebbero ancora tanti. Noi non crediamo in queste pratiche di odio cieco verso il prossimo e pensiamo che, nonostante le mille difficoltà, stia ancora ad un’istituzione come la scuola stimolare nei ragazzi e nelle ragazze di oggi quel pensiero critico di cui tanto si parla. E allora, signor direttore, non possiamo fare a meno di domandarci come sia possibile che quando abbiamo semplicemente deciso di mettere in pratica proprio quel pensiero critico ci siamo poi ritrovate con un’ammenda di 4000 euro.
In tantissimi, dicevamo, siamo scesi nelle piazze di tutta Italia per chiedere un cambiamento in questa politica, e abbiamo visto proprio moltissimi esponenti di varie forze del Parlamento spendere parole in favore di questo fenomeno “di novità”. Ma non è più tempo delle #parole, gli effetti dei provvedimenti razzisti si stanno cominciando a vedere, e sta succedendo adesso: da ormai quasi quattro mesi è in carica un governo, che purtroppo però non ha ancora trovato il tempo per eliminare una legge fascista come il Decreto Sicurezza.
La nostra speranza è che questo tempo si trovi al più presto, di modo da cancellare una norma così ingiusta.
Cordiali saluti
Elena e Margherita
Fonte
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Caro direttore,
siamo #Elena e #Margherita, due ragazze di #Firenze. Ogni mattina, come tutti i nostri coetanei, ci alziamo e andiamo a scuola, il pomeriggio studiamo e passiamo il tempo libero con gli amici. Siamo due ragazze normalissime, che però qualche giorno fa si sono viste recapitare a casa una multa di 4000 euro. Può immaginare la sorpresa all’apertura della busta, ma niente rispetto allo sgomento che abbiamo provato scorrendo le righe dell’ammenda. In breve siamo accusate, insieme ad altri 21 operai, di blocco stradale e grazie al #DecretoSicurezza voluto l’anno scorso da Matteo Salvini adesso verremo punite per il pericolosissimo reato di #solidarietà. Sì, perché questo abbiamo fatto.
La mattina del 16 ottobre abbiamo letto dell’investimento di una sindacalista davanti alla fabbrica #Superlativa di Prato, i cui operai da mesi sono in sciopero perché non vengono pagati dall’azienda, e le cui vicende avevamo seguito anche in estate. Molti giornali infatti avevano parlato delle condizioni di lavoro disumane degli operai di Superlativa e delle loro semplici richieste: avere quello stipendio che mancava ormai da sette mesi. Quella mattina, dunque, abbiamo deciso di prendere il treno e andare pure noi davanti a quei cancelli, con il semplice intento di manifestare la nostra vicinanza tanto agli operai quanto alla sindacalista ferita. Non ci sembrava che chiedere il rispetto di un contratto potesse essere in un qualche modo criminale, ma le multe che sono state recapitate due mesi più tardi a noi e ad altri 21 operai questo farebbero pensare.
Ci chiediamo, quindi, come sia possibile tutto questo.
Lo scorso 30 novembre la nostra città, Firenze, è stata letteralmente invasa da un mare di quarantamila #sardine e in Piazza della Repubblica, stretti come tutti gli altri, c’eravamo anche noi. Non ci piacciono le parole di odio di Salvini, e come giovani ci sentiamo doppiamente attaccati dalle sue politiche perché (e questo nessuno lo dovrebbe mai dimenticare) il Paese che vorrebbe costruire è quello che, un giorno, erediteremo noi. E allora forse quello che oggi ciascuno si dovrebbe chiedere è se l’Italia che ci volete lasciare è proprio questa, in cui due ragazze solidali con degli operai vengono multate; in cui la priorità pare essere diventata quella di impedire l’ingresso ai migranti piuttosto che mettere in campo delle politiche grazie alle quali i giovani come noi non debbano diventare loro stessi emigranti, cercando sorte migliore all’estero; e i paradossi che potremmo elencare sarebbero ancora tanti. Noi non crediamo in queste pratiche di odio cieco verso il prossimo e pensiamo che, nonostante le mille difficoltà, stia ancora ad un’istituzione come la scuola stimolare nei ragazzi e nelle ragazze di oggi quel pensiero critico di cui tanto si parla. E allora, signor direttore, non possiamo fare a meno di domandarci come sia possibile che quando abbiamo semplicemente deciso di mettere in pratica proprio quel pensiero critico ci siamo poi ritrovate con un’ammenda di 4000 euro.
In tantissimi, dicevamo, siamo scesi nelle piazze di tutta Italia per chiedere un cambiamento in questa politica, e abbiamo visto proprio moltissimi esponenti di varie forze del Parlamento spendere parole in favore di questo fenomeno “di novità”. Ma non è più tempo delle #parole, gli effetti dei provvedimenti razzisti si stanno cominciando a vedere, e sta succedendo adesso: da ormai quasi quattro mesi è in carica un governo, che purtroppo però non ha ancora trovato il tempo per eliminare una legge fascista come il Decreto Sicurezza.
La nostra speranza è che questo tempo si trovi al più presto, di modo da cancellare una norma così ingiusta.
Cordiali saluti
Elena e Margherita
Fonte
Taranto - Ex Ilva, fenomenologia operaia e smarrimeto della politica
Cosa è stato detto realmente durante il Consiglio di fabbrica dello scorso 24 dicembre alla presenza del premier Conte? Per capirlo abbiamo guardato il video integrale dell’incontro della durata di oltre un’ora. Una visione alquanto interessante per toccare ancora una
volta con mano la realtà vera. Non quella che spesso viene filtrata dai
social, dai comunicati stampa, dalle mezze dichiarazioni rubate qui e
là ai presenti.
Dopo le frasi introduttive di routine da parte dell’ad Lucia Morselli e del premier Conte sulla trattativa in corso e la possibilità che si possa addivenire ad un nuovo piano industriale condiviso e sostenibile finanziariamente (nonostante Conte abbia definito la Morselli ancora come un’antagonista), sulla salvaguardia occupazionale, sulla sostenibilità ambientale e su una fabbrica che si vorrebbe diventasse sicura da un punta di visto sanitario e manutentivo, oltre che sulla dicotomia oramai non più sopportabile per gli operai tra il diritto al lavoro e alla salute, la sostanza è come sempre ben altra.
Il premier Conte ha messo subito in chiaro, o forse sarebbe meglio dire le mani avanti, su quale sarà il ruolo dello Stato qualora la trattativa andasse in porto: entrerà come azionista nel capitale sociale di AM InvestCO Italy spa, con il ruolo di controllore e garante, ma il partner industriale è e resterà ArcelorMittal. Lo Stato dunque, come peraltro ampiamente prevedibile e come abbiamo riportato nell’articolo sul piano industriale studiato dal governo, interverrà economicamente affinché si realizzi, almeno in parte, la transizione energetica che porta l’ex Ilva dall’essere il più grande siderurgico d’Europa a ciclo integrale verso un ciclo ibrido, dove dovranno convivere forni elettrici, cokerie e altiforni.
L’idea dello Stato con questo ruolo sembra però non piacere ai lavoratori presenti all’incontro, molti dei quali non c’erano lo scorso 8 novembre quando il premier Conte scese a Taranto dopo lo tsunami provocato dall’atto di recesso di ArcelorMittal.
Il premier viene infatti subito interrotto dai lavoratori. Che hanno voluto ricordare al presidente del Consiglio come lo Stato abbia già gestito il siderurgico in passato prima del ventennio dei Riva (che in molti sembrano quasi rimpiangere, c’è chi infatti ha ricordato ‘i bei tempi’ in cui sino al 2006 ogni settimana si assumevano 20 giovani lavoratori), con risultati tutt’altro che lusinghieri. E che gli auguri rivolti alla platea il premier dovrebbe avere il coraggio di andare a darli di persona a molti loro compagni da oltre un anno a casa in cassa integrazione, a cui il futuro appare ancora più oscuro di chi ha avuto la ‘fortuna‘ di vincere la lotteria delle assunzioni in ArcelorMittal Italia.
Nel brusio generale irrompe la voce di un operaio nelle retrovie della sala, che raggiunge Conte al microfono, chiedendo alla politica di decidere con chiarezza cosa fare. E lanciando un anatema verso i colleghi presenti in sala e non, che dovrebbe far riflettere molti: “Ora
vi hanno applaudito tutti. Ma fino a prima che entraste tutti parlavano
male di lei. Perché i tarantini sono così, sono una massa di caproni,
si prendono paura di parlare. È tutta una caricatura”.
Rotto il ghiaccio, il premier Conte raggiunge un altro operaio in platea, che palesa le difficoltà economiche di chi è in cassa integrazione (per i 1.600 rimasti nel perimetro di Ilva in Amministrazione Straordinaria), nei confronti delle proprie famiglie, dei mutui contratti negli anni, che oggi non sono più sostenibili per chi ha perso tra le 500 e i 1000 euro al mese. Raccontando una realtà che tutti conoscono, che abbiamo raccontato tante volte, ma che chissà perché si fa finta sempre di ignorare: i lavoratori dell’ex Ilva, anche sotto la gestione commissariale, hanno puntualmente ricevuto ogni 12 del mese lo stipendio, con tanto di premi di risultato e di produzione nonostante l’azienda producesse la metà rispetto al passato e il segno meno caratterizzasse i bilanci tanto da provocare un buco di miliardi di euro. Un qualcosa che non si è mai visto da nessuna parte, ma che non ha indignato di fatto nessuno in tutti questi anni. Nemmeno i lavoratori stessi assueffatti a tale andazzo che oggi, di fatto, si trovano in una condizione economica fortemente ridimensionata rispetto al passato. E che ha creato una spaccatura importante nel tessuto operaio dell’ex Ilva, creando di fatto dallo scorso anno lavoratori di serie A e di serie B.
Girando la platea con il microfono, c’è chi critica il sistema sanitario locale fin troppo deficitario, chi ha denunciato la situazione ambientale del rione Tamburi, chi ha attaccato la struttura commissariale (e quindi lo Stato) sostenendo come negli ultimi anni di gestione non sia stato fatto nulla in merito alla manutenzione degli impianti.
C’è chi denuncia di essere stanco di essere visto come un assassino dai figli, dagli amici e da chi si ammala a causa della produzione del siderurgico. C’è chi in platea ha vissuto in prima persona il dramma del tumore e denuncia come un dramma ancora maggiore quello di lavorare senza prospettive chiare sul futuro. Oppure chi ammette la grande difficoltà nel ricoprire un ruolo importante in fabbrica, come quello di dover comunicare ad altri colleghi che dal tale giorno non dovranno scendere sul posto di lavoro.
Tutti i discorsi dei lavoratori hanno un comune denominatore: i propri figli. E la questione economica legata allo stipendio decurtato dalla cassa integrazione attuale e futura. A dimostrazione del fatto che il primo vero problema dell’ex Ilva è e resterà sempre di tipo economico. Per lo Stato, per chi gestisce l’azienda chiunque esso sia e per chi ci lavora. Al di là del solito mantra a cui non crede più nessuno, ripetuto dallo stesso Conte e da molti lavoratori, che vede la salute al primo posto, come primo diritto da garantire e poi a cascata quello al lavoro e quello di vivere in un ambiente sano.
Il nodo è sempre quello: il timore di continuare a vivere, dopo 7 lunghi anni dal famoso 2012, nell’incertezza economica e lavorativa. Sia per chi è oggi in cassa integrazione e teme di restare ancora a lungo con uno stipendio al 60%, sia per chi è un dipendente diretto di ArcelorMittal.
E c’è stato anche chi ha provato a consigliare al premier una strada da seguire, per provare a ‘sanare‘ la posizione di molti lavoratori. Partendo dalla denuncia delle presenza di 4mila tonnellate di amianto all’interno dell’ex Ilva ancora da smaltire, è stato proposto di ampliare
il riconoscimento dei benefici per i lavoratori all’esposizione ad
amianto, riconosciuto dalla legge n. 257 del 1992 e previsto per chi è
stato esposto sino al 2 ottobre del 2003.
Anche Emiliano in difficoltà davanti ai lavoratori
Di fronte a tutto questo il premier Conte resta quasi senza parole. A quel punto viene tirato in ballo il governatore Emiliano, a causa della scarsa possibilità per i tarantini di curarsi sul proprio territorio, a causa di molti nosocomi chiusi negli ultimi anni. Un operaio, rivolgendosi a Conte ed Emiliano denuncia fino a 9 mesi per una tac, tempo nel quale una persona ammalata muore.
Il governatore Emiliano, tirato in causa, si alza e prende la parola. Rivendica la trasformazione dell’ospedale Moscati, in appena quattro anni, in un Oncologico seppur ancora piccolo ma per il quale la Regione Puglia sta ultimando l’acquisto di ulteriori macchinari. Mentre prima c’era poco o nulla.
A chi gli fa notare che il reparto di Oncologia pediatrica dell’ospedale SS. Annunziata sia stato realizzato con i soldi della campagna di beneficenza attraverso la vendita delle magliette del mini bar dei Tamburi, conosciuta in tutta Italia grazie al sostegno della giornalista Nadia Toffa delle Iene scomparse prematuramente lo scorso agosto Emiliano, finalmente ci vien da dire, chiarisce la realtà delle cose. In realtà quel reparto esiste già da anni e il suo mancato utilizzo non è legato ad un problema di soldi, ma di assenza di medici. Emiliano rivendica come sua la decisione di aver ‘preso’ da Pescara il primario Cecinati, di avergli costruito un concorso su misura per farlo venire qui. Il vero problema denuncia Emiliano, è la mancanza di pediatri e non di risorse finanziarie.
Emiliano ammette, rivolgendosi a Conte, come Taranto vanti il poco lusinghiero primato dell’indice dei posti letto più basso di tutta la Puglia. Ricorda a Conte i tentativi fatti con i governi precedenti nel chiedere che venissero rinforzate le strutture sanitarie, consentendo alla Regione Puglia di spendere più risorse su Taranto.
E chiedendo al governo e alle istituzioni locali, e persino ai presenti, di dar vita ad una campagna di “incentivo economico o finanche morale” per far venire giovani medici a Taranto. Si tira in ballo la facoltà di Medicina
che ha preso il via quest’anno, partita in realtà con grandi difficoltà
e che dall’anno prossimo dovrebbe partire a tutti gli effetti e per
tempo. Emiliano propone incentivi per finanziare a Taranto le scuole di specializzazione così da evitare che i medici vadano ad esercitare altrove. Ricorda che nel 2020 sarà posta la prima pietra del nuovo ospedale San Cataldo che “darà vita a nuova storia”.
Il governatore prova poi a tirare su il morale dei presenti ricordando che l’aeroporto di Grottaglie è in ricostruzione completa attraverso tanti lavori già appaltati, e che ora bisogna trovare compagnie aree da portare qui, magari sfruttando anche i Giochi del Mediterraneo del 2026
che per il governatore serviranno a mettete in moto una Taranto
diversa. Rivendica l’iniziativa di aver portato negli ultimi due anni a
Taranto il Medimex, per incentivare un turismo culturale che muova nuova economia.
Conte alle strette ribadisce: il futuro può essere solo con ArcelorMittal
Ma l’attenzione dei lavoratori è rivolta altrove. Si torna a parlare del futuro dell’Ilva, ribadendo al premier che se l’Italia ha deciso di puntare sull’acciaio “o si lavora tutti o nessuno“. E che si mettano gli Impianti finalmente a norma.
C’è spazio anche per un lavoratore dell’indotto, che racconta di un lavoro di 25 ore settimanali pari 850 euro mensili. C’è chi lavora anche 14 ore settimanali per uno stipendio di appena 340 euro al mese. Un indotto dove la maggioranza dei lavoratori sono giovani. Dove non c’è la possibilità ancora oggi di usufruire di spogliatoi e lavanderie. Siamo di fatto di fronte a lavoratori di Serie C. L’umile richiesta avanzata al premier, senza gridare o inveire è molto semplice ma fin troppo chiara: ampliare le tutele a favore dei lavoratori dell’indotto, un bacino occupazionale in cui gravitano oltre 6mila operai.
A quel punto Conte è costretto a chiudere. Il tempo è tiranno e lo attendono mons. Santoro e la cena alla Caritas con chi un lavoro non ce l’ha o l’ha perduto e sicuramente non lo avrà più.
Rinnova ai presenti il lavoro e l’impegno del governo per arrivare ad una soluzione con ArcelorMittal, giudicata dal premier come l’unica concreta possibilità, l’unico interlocutore possibile per dare un futuro immediato al siderurgico. Ribadisce che il piano industriale della multinazionale in cui ci sono 5mila esuberi è stato prontamente rispedito al mittente. Ricorda che la trattativa al momento è ferma ad un accordo di intenti da seguire.
Ma gli operai mostrano insofferenza, commentano a voce alta. Viene chiesto il rispetto dell’accordo del 6 settembre del 2018. A quel punto il premier per un attimo si spazientisce: “Allora volete che portiamo avanti la causa in tribunale?
Se è questo che volete ditelo chiaramente. Il risultato della causa
legale è l’inizio di questa trattativa. Se siamo ancora qui è perché gli
abbiamo impedito di lasciare l’Italia nonostante quell’accordo”.
Il messaggio è chiaro: il futuro prossimo può essere soltanto con ArcelorMittal. E dimostra che tutta questa sicurezza nel vincere la ‘causa del secolo’ il governo non l’abbia mai avuta. Conte prova a fare una battuta per smorzare i toni rivolgendosi alla Morselli: “Questa signora non ce la siamo scelta, ma ce la siamo ritrovati, con tutto il rispetto”. Ma nessuno ride e la Morselli lo gela con lo sguardo.
Rinnova infine l’impegno del governo sul decreto ‘Cantiere Taranto’ che sarà approvato soltanto dopo un’interlocuzione con le istituzioni locali.
L’ultima parola è proprio dell’ad Morselli. Che dopo aver garantito l’impegno dell’azienda nel portare a termine, positivamente, la trattativa con il governo, si rivolge alla platea con un monito sin troppo chiaro: “Ricordatevi tutti bene una cosa: siete tutti ArcelorMittal
in questo momento. O tutti voi collaborerete, con il vostro lavoro, con
le vostre proteste giuste, le vostre segnalazioni con le cose che non
vanno, oppure non andremo da nessuna parte. Dovrete volerla tutti questa società“. Non il massimo per un messaggio di auguri alla vigilia di Natale.
Le tante cose non dette e taciute
Durante il Consiglio di fabbrica sono state tante le cose non dette. Specie da parte di chi quasi ogni giorno sull’argomento Ilva esprime sentenze di ogni tipo. Ad esempio il governatore Emiliano si è ben guardato dal ripetere un pensiero che negli ultimi mesi ha ribadito in tutte le trasmissioni televisive e radiofoniche in cui è intervenuto, in tutte le interviste rilasciate sui quotidiani nazionali e locali, nei vari convegni organizzati a Taranto, in Puglia, a Roma o a Bruxelles: ovvero che “sarebbe stato meglio se l’Ilva a Taranto non fosse mai stata costruita“. Così come il governatore ha taciuto sul progetto di decarbonizzazione per il siderurgico portato avanti dalla Regione negli ultimi anni e ribadito anch’esso in ogni circostanza: probabilmente perché avendo di fronte a se una platea di lavoratori e tecnici, in cinque minuti gli sarebbe stato spiegato che rendere l’Ilva totalmente decarbonizzata sia di fatto impossibile.
È invece rimasto in silenzio per tutto il tempo il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, accompagnato per l’occasione dal presidente del Consiglio comunale Lucio Lonoce (interessato due volte all’argomento Ilva visto che è un dipendente del siderurgico). Un silenzio che ha tratto in inganno anche il premier Conte, che si è accorto della sua presenza soltanto al termine dell’incontro, scusandosi per non averlo riconosciuto. Melucci dunque ha evitato di ribadire davanti al premier e all’ad Morselli tutti i suoi giudizi negativi su ArcelorMittal, definita soltanto lo scorso mese una multinazionale gestita da “veri e propri pirati“.
Hanno preferito ascoltare e restare in silenzio quasi tutti i rappresentanti sindacali (ad eccezione di una Rsu della Uilm e della Fim Cisl). Nessuno ha quindi sentito l’esigenza di denunciare quanto avvenuto questo mese nei confronti dei lavoratori delle ditte dell’indotto, a cui non sono state pagate le tredicesime. Oltre ad aver trovato nelle buste paga la ‘sorpresa‘ della decurtazione dallo stipendio delle giornate in cui fu impedito agli stessi di recarsi sul posto di lavoro, dalle stesse ditte. Sarà forse perché quella serrata ebbe l’appoggio del sindaco Melucci e del governatore Emiliano e quindi si è voluto evitare un incidente diplomatico la vigilia di Natale?
Lo stesso premier Conte non ha fatto alcun riferimento al piano industriale del governo, chiamato “Linee guida per un piano industriale sostenibile 2020-2023“, dal quale si evince chiaramente come, anche se sino al 2023 (se i calcoli si riveleranno giusti), ci saranno esuberi anche con l’ingresso dello Stato nell’azionariato di ArcelorMittal. Meglio rinviare il tutto al prossimo anno.
Così com’è stato evitato da tutti l’argomento del momento: ovvero cosa potrebbe accadere lunedì quando sarà discusso al tribunale del Riesame, il ricorso dei commissari straordinari di Ilva in AS, contro l’ordinanza dello scorso 10 dicembre del giudice Francesco Maccagnano, che ha respinto l’istanza di proroga della facoltà d’uso dell’altoforno 2 dello stabilimento ex Ilva, ora ArcelorMittal Italia di Taranto.
È stata infine ancora una volta taciuta l’unica vera grande verità di tutta questa vicenda, a prescindere da tutto quello che sarà realizzato in futuro attraverso i progetti contenuti nel CIS e nel Cantiere Taranto.
Perché se la salute fosse davvero prioritaria in tutta questa storia, con l’esigenza di tutelare lavoratori e cittadini, si sarebbe dovuto ammettere una volta e per tutte che non esisterà mai il rischio sanitario zero. Nonostante l’implementazione del gas (e magari tra qualche anno anche dell’idrogeno), il risanamento degli impianti che resteranno in funzione, la dismissione e la bonifica di quelli che saranno spenti per sempre, nonostante sarà portato a compimento il piano sullo smaltimento dell’amianto presentato la scorsa primavera dalla stessa ArcelorMittal. Bisogna dirselo una volta per tutte con grande chiarezza. E dovrebbero ammetterlo tutte le parti in causa.
Del resto, fu messo nero su bianco con grande chiarezza da ARPA Puglia nel lontano 2013, con la stesura della relazione della prima Valutazione del Danno Sanitario (redatta con l’apporto della Asl e dell’AReS Puglia), che riportammo in totale solitudine nella primavera del maggio dello stesso anno sulle colonne del ‘TarantoOggi‘. Riportiamo testualmente: “La
valutazione del rischio cancerogeno inalatorio prodotto dalle emissioni
in aria dello stabilimento ILVA di Taranto ha evidenziato una
probabilità aggiuntiva di sviluppare un tumore nell’arco dell’intera
vita superiore a 1:10.000 rispettivamente per una popolazione di circa
22.500 residenti a Taranto per il quadro emissivo 2010 pre-AIA e per una
popolazione di circa 12.000 residenti a Taranto nello scenario post-AIA“.
L’ex direttore generale di ARPA Puglia Giorgio Assennato, nel presentare il rapporto evidenziava quanto segue: “Il rapporto chiarisce in modo graficamente molto chiaro che i miglioramenti delle prestazioni ambientali che saranno conseguiti con la completa attuazione della nuova AIA (prevista all’epoca per il 2016) comportano un dimezzamento del rischio cancerogeno nella popolazione residente intorno all’area industriale; nel contempo evidenzia pure come in ogni caso residui un rischio sanitario in eccesso
rispetto a quello previsto ad es. dall’US-EPA: una situazione che
potrebbe dar luogo ad un’ulteriore fase di gestione del rischio, ad
esempio correggendo la massima capacità produttiva dell’impianto, riducendo così le emissioni massiche annue”.
Questo deve essere chiaro a tutti. A maggior ragione a fronte delle intenzioni del governo che vuol portare l’Ilva, dal 2023, a produrre stabilmente 8 milioni di tonnellate d’acciaio all’anno, come peraltro previsto anche dall’AIA del 2012. Serve chiarezza e trasparenza da parte di tutti gli organi competenti che lavorano alacremente da anni sulle vicende ambientali come l‘Asl di Taranto, l’ARPA Puglia, l’ISPRA, l’Istituto superiore di Sanità. Che si chiariscano con maggiore frequenza il significato dei dati sulle emissioni e di quelli sanitari sulle incidenze delle malattie, affinché questi argomenti non vengano utilizzati e lasciati appannaggio dei soliti noti.
Magari iniziare a dire la verità, con serietà,
competenza, grande semplicità ed onestà, porterebbe tutti a discutere
del presente e del futuro senza più inganni di sorta. E sarebbe
francamente anche ora.
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