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01/10/2024

Volonté – L’uomo dai mille volti

È uscito per solo tre giorni al cinema “Volonté – L’uomo dai mille volti”, documentario di Francesco Zippel su quello che è – senza troppi dubbi per me – il più grande attore di cinema italiano di sempre.

Il documentario in sé è simile a molti altri che abbiamo visto negli ultimi tempi (tutti prodotti anche da Rai Cinema, quindi per essi poca sala e rapido passaggio in tv): materiale di repertorio dell’illustre artista in oggetto, interviste miste tra sue conoscenze, esperti di settore, artisti di adesso, utilizzando di solito come filo conduttore la voce di un familiare (qui è la figlia); secondo questo schema sono stati costruiti anche i recenti documentari su Gaber e Jannacci.

Per sentir parlare di Volonté dobbiamo dunque ascoltare la voce di attori italiani di adesso, tutti distantissimi per ovvi motivi dalla tensione politica e dal modus operandi artistico del grande Gian Maria, persino quella di Favino, odierno campione della mimesis attoriale e dell’onnipresenza sullo schermo (tanto che essa era diventata una battuta proverbiale di Boris), cioè quanto di più lontano si possa immaginare dalla tensione dell’interpretazione e dalle scelte lavorative (un solo film l’anno di solito) di Volontè: male di poco, se si pensa che a parlare di Gaber era stato chiamato nientepopodimeno che tale Lorenzo Cherubini in arte Giovanotti, perlomeno Favino – tutto sommato – fa delle osservazioni non del tutto disprezzabili.

Il documentario si fa certamente vedere soprattutto per gli spezzoni Rai, le immagini dei film (pochine) e i backstage degli stessi, ovvero quando si vede Gian Maria in azione, ma d’altronde i grandi registi, attori e tecnici della sua generazione sono quasi tutti morti, possiamo solo sentire la voce di uno degli ultimi maestri del cinema ancora vivi, quella di Marco Bellocchio, che lo diresse in una delle sue più formidabili interpretazioni, il perfido capo redattore di giornale di “Sbatti il mostro in prima pagina”. Mancano però all’appello alcune notizie interessanti, ad esempio l’amicizia con Oreste Scalzone (che il nostro aiutò a scappare in Francia con la barca) o qualcosa di più sul rapporto tormentato col povero fratello Claudio, su cui c’è un breve, molto incompleto e non del tutto corretto, accenno. Viene messa in luce ovviamente la sua dimensione politica, soprattutto quella che emerge dal suo rapporto con il cinema (il suo criterio di accettare film solo se motivati politicamente per lui), in parte anche nei suoi interventi più pregnanti, a partire da quel meraviglioso corto su Pinelli, un esempio di cinema militante ancora efficace adesso, seppure non si ricordi che il film non fu finito per le minacce giunte ai realizzatori: insomma militante politico sì, ma sostanzialmente viene tracciato il quadro di un buon militante del PCI, sebbene critico (è la parola che viene usata, ma non se ne spiega il perché).

Devo confessare però che non ho scritto qui del documentario solo per fare un intervento di critica su di un lavoro in fondo non disprezzabile, perché comunque mi ha permesso di passare un po’ di tempo a ricordare un artista che ho molto amato e che continuo adesso ad amare, a trent’anni esatti della sua scomparsa, ma perché, mentre scorrevano le immagini del documentario mi è venuto un groppo in gola, nel pensare contemporaneamente ai momenti altissimi del nostro cinema passato e all’orrore e alla bassezza del cinema italiota di adesso, rendendomi conto con terribile amarezza che diversi dei film interpretati da Gian Maria oggi sarebbe impossibile non dico scriverli, ma anche soltanto pensarli: pensate a “Todo Modo” del gigante Elio Petri, come si potrebbe adesso mettere così in discussione il partito che governa ora, oppure rappresentare in modo grottesco, anche retrospettivamente, l’idolo di tutti i democratici, “la faccia che era”, dopo che la sua morte violenta lo ha reso “l’unico statista”?

Uscito dal cinema, piuttosto turbato per i malinconici pensieri, mi è venuta in mente la meravigliosa sequenza finale di quel capolavoro che è “La Classe Operaia Va in Paradiso”, per cui dobbiamo ringraziare il genio di Elio Petri e Ugo Pirro, genialmente coadiuvati da Luigi Kuveiller, Ruggero Mastroianni ed Ennio Morricone, perfettamente assecondati da una spettacolare sinfonia di grandi facce da cinema, in primis Gian Maria, che conduce le danze, poi Flavio Bucci, Luigi Diberti e compagni: tutta gente che non c’è più, è morta com’è morto il Militina, operaio devastato dall’alienazione in fabbrica, di cui Lulù Massa sta parlando nel racconto di quel sogno ai suoi compagni di catena, in mezzo al caos delle macchine.

Vi pregherei di riguardarla perché è fantastica, con tutte queste bellissime facce irregolari e deformate dalla fatica e dal rumore, tutti unti e sudati, incatenati alla loro macchine messe in fila una accanto all’altra, che non riescono a capire le parole di Lulù, nonostante stia urlando, dunque fanno una specie di telefono senza fili per parlarsi, per passarsi questo sogno di assalto al paradiso, confondendo il racconto, facendo domande, riportando il Militina dal Paradiso del sogno al manicomio, dove è in realtà morto.

Poi, siccome sono perfido di natura, mi è venuta in mente un’altra sequenza di un film (non italico ma italiota) del 1997, ambientata anch’essa in fabbrica, dove un giovane e gentile operaio racconta un romanzo di Dickens in una fabbrica tutta linda e pinta, dove gli operai ben vestiti in tute pulite e stirate, tutti sciugnati come se fossero a un aperitivo, se ne stanno belli tranquilli ad ascoltare le parole del giovane ben educato, senza quasi nessun rumore di fondo.

Il muro del paradiso non lo potremo mai abbattere e Militina è davvero morto per sempre.

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