28/02/2021
Bologna 1977–1992: una avventura culturale unica
Negli anni '80, fuori dal circuito delle major, Bologna si trasforma in un laboratorio musicale creativo di grande successo. Lo hanno dimostrato i professori Raffaele Corrado, Sabrina Pedrini e Pier Luigi Sacco in un paper pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica americana Journal of Urban Affairs.
Nel paper, pensato direttamente in inglese, è stato utilizzato l’algoritmo Newman Community Detection (NCD), basato sulla modularity statistic, il quale, applicato all’industria musicale, ha permesso di dimostrare che esiste una relazione diretta tra i cantanti (music-centered creative communities) e la città (urban contexts), tenuto conto anche della tendenza dei cantanti a emigrare dal paese (Zocca) in posti dove c’è più gente e più locali dove suonare (tendency to aggregate into dense, place-based relational networks). Nella letteratura di riferimento, questo fenomeno di aggregazione è stato chiamato music scene (scena musicale).
Questa scena, dice il paper, seppur fortemente territorializzata, per effetto di Vibrancy, Spatiality, Placeless, Trans-locality, produce evidenze metriche che, elaborate dall’NCD, dimostrano che (traduzione mia) non esiste una formula semplice che può prevedere in modo esaustivo se una certa città diventerà o rimarrà culturalmente vivace in un dato tempo futuro, e ciò in quanto le ragioni dietro i successi e gli insuccessi sono sfuggenti. Detto ciò, il successo di Bologna, si legge nel paper, è da ricondurre all’ambiente giovanile e al fascino delle proteste del 1977, ma soprattutto al fatto che (traduco alla buona) le maglie sociali erano lasche e permettevano alle ballotte un certo cazzeggio.
Cazzeggio che durò fino al 1992, cioè fino a quando, dato “a new policy cycle”, lo urban laboratory (sic!) venne smantellato per effetto di pratiche neo-liberiste che hanno portato alla “securitization” (cartolarizzazione) della maggior parte del centro storico, consentendo ai nuovi proprietari di prendere a calci nel sedere i quattro reduci Punkabbestia che scorrazzavano lungo la T (traduzione google leggermente modificata).
Sia come sia, dividendo il cluster in 4 sottogruppi (cluster analysis) i ricercatori hanno ottenuto una matrice binaria A di 64×248, dove A è uguale a 1 se il cantante è stato coinvolto nella realizzazione dell’album considerato (I), altrimenti è pari a 0 (zero), eccetera.
La computazione meccanica dei dati ha portato alla conclusione che nel periodo di tempo considerato (77-92) i cantanti Francesco Guccini, Vasco Rossi, Lucio Dalla, Gianni Morandi, Stadio, Skiantos, Luca Carboni, Angela Baraldi, Biagio Antonacci hanno collaborato tra di loro, oppure si sono scambiati i turnisti o i parolieri, eccetera.
La ricerca dà per acquisto un dato incontrovertibile, e cioè che l’Università di Bologna (UniBo), a partire dalla fine degli anni '60, quando il totale degli iscritti era pari a 18.500 studenti, e soprattutto negli anni '80, ha attirato una massa sempre più consistente di studenti, fino a raggiunge nel 2002 il picco di 101.903 studenti.
Niente male per una piccola città di provincia, che ha incassato una trasformazione che l’ha portata ad avere uno studente universitario ogni 3,5 adulti senzienti.
Come si vede dai numeri, si tratta di un fenomeno sociologico tutt’altro che secondario.
Questi studenti, probabilmente, contribuirono al successo della music scene. La ricerca non lo dice, e io mi guardo bene dal suggerirlo.
Cosa ha attirato questi studenti verso la capitale della contestazione, oltre a Fascino77, propiziato dal fiume di inchiostro versato per imbalsamarlo?
Gli studenti – lo dico in italiano e senza sostegno statistico – sono stati attratti dalla promessa di emanciparsi da quel mondo di contadini, braccianti, muratori, meccanici, bidelli, manovali al quale appartenevano i loro genitori che pagavano gli affitti e i libri.
Negli anni '90, quando cominciò a diventare chiaro che la promessa di un posto di professore associato di filosofia, di ingegnere elettromeccanico, di avvocato coi soldi o di amministratore delegato di qualche azienda milanese, era una promessa da marinaio, e che anche i posti di ripiego, come maestro alle elementari o professore alle superiori, cominciavano a scarseggiare, e che l’esercito di riserva era formato da più di un milione di disoccupati intellettualmente formati dallo Stato; quando anche il Movimento della Pantera, diventato famoso con lo slogan Privatizzare è prima di tutto Privare, nonostante il clamoroso successo, non poté niente contro l’evidenza macroeconomica che il sistema industriale italiano non poteva assorbire quel mare di intelligenza libera e fresca; quando ci si rese conto di tutto ciò, era ormai troppo tardi, si era andati troppo avanti, ci si era compromessi con la difesa di un sistema che aveva cooptato ed emancipato solo un pugno di fortunati.
Nel frattempo, contro ogni evidenza, anche di reddito dei cittadini, le iscrizioni all’università sono continuate ad aumentare. Nel 2004-05 gli iscritti sono stati 1.376.088. Nel 2018-19 gli iscritti sono diventati 1.763.614.
Mentre Bologna perdeva iscritti (68.301 nel 2004), le università del sud esplodevano. Salerno passava dai 24.783 iscritti del 2004 ai 35.782 del 2018, e la Federico II, nello stesso periodo, da 59 mila a 76.282 iscritti.
Forse i giovani preferiscono polleggiarsi all’università, piuttosto che patire l’infamia della disoccupazione, preferiscono leggere paper impapocchiati in inglese, da professori che, pur di aver un like (una citazione), vero borsino accademico, si abbassano a scrivere emerite stronzate; forse preferiscono attendere, prendere la rincorsa, prima di abbattersi contro questa ipocrisia e metterla al tappeto.
Chiudo fornendo il doi dell’articolo. Se avete possibilità, cliccatelo, pardon!, citatelo, aiuterete i prof a scalare le classifiche mondiali.
Fonte
Nel paper, pensato direttamente in inglese, è stato utilizzato l’algoritmo Newman Community Detection (NCD), basato sulla modularity statistic, il quale, applicato all’industria musicale, ha permesso di dimostrare che esiste una relazione diretta tra i cantanti (music-centered creative communities) e la città (urban contexts), tenuto conto anche della tendenza dei cantanti a emigrare dal paese (Zocca) in posti dove c’è più gente e più locali dove suonare (tendency to aggregate into dense, place-based relational networks). Nella letteratura di riferimento, questo fenomeno di aggregazione è stato chiamato music scene (scena musicale).
Questa scena, dice il paper, seppur fortemente territorializzata, per effetto di Vibrancy, Spatiality, Placeless, Trans-locality, produce evidenze metriche che, elaborate dall’NCD, dimostrano che (traduzione mia) non esiste una formula semplice che può prevedere in modo esaustivo se una certa città diventerà o rimarrà culturalmente vivace in un dato tempo futuro, e ciò in quanto le ragioni dietro i successi e gli insuccessi sono sfuggenti. Detto ciò, il successo di Bologna, si legge nel paper, è da ricondurre all’ambiente giovanile e al fascino delle proteste del 1977, ma soprattutto al fatto che (traduco alla buona) le maglie sociali erano lasche e permettevano alle ballotte un certo cazzeggio.
Cazzeggio che durò fino al 1992, cioè fino a quando, dato “a new policy cycle”, lo urban laboratory (sic!) venne smantellato per effetto di pratiche neo-liberiste che hanno portato alla “securitization” (cartolarizzazione) della maggior parte del centro storico, consentendo ai nuovi proprietari di prendere a calci nel sedere i quattro reduci Punkabbestia che scorrazzavano lungo la T (traduzione google leggermente modificata).
Sia come sia, dividendo il cluster in 4 sottogruppi (cluster analysis) i ricercatori hanno ottenuto una matrice binaria A di 64×248, dove A è uguale a 1 se il cantante è stato coinvolto nella realizzazione dell’album considerato (I), altrimenti è pari a 0 (zero), eccetera.
La computazione meccanica dei dati ha portato alla conclusione che nel periodo di tempo considerato (77-92) i cantanti Francesco Guccini, Vasco Rossi, Lucio Dalla, Gianni Morandi, Stadio, Skiantos, Luca Carboni, Angela Baraldi, Biagio Antonacci hanno collaborato tra di loro, oppure si sono scambiati i turnisti o i parolieri, eccetera.
La ricerca dà per acquisto un dato incontrovertibile, e cioè che l’Università di Bologna (UniBo), a partire dalla fine degli anni '60, quando il totale degli iscritti era pari a 18.500 studenti, e soprattutto negli anni '80, ha attirato una massa sempre più consistente di studenti, fino a raggiunge nel 2002 il picco di 101.903 studenti.
Niente male per una piccola città di provincia, che ha incassato una trasformazione che l’ha portata ad avere uno studente universitario ogni 3,5 adulti senzienti.
Come si vede dai numeri, si tratta di un fenomeno sociologico tutt’altro che secondario.
Questi studenti, probabilmente, contribuirono al successo della music scene. La ricerca non lo dice, e io mi guardo bene dal suggerirlo.
Cosa ha attirato questi studenti verso la capitale della contestazione, oltre a Fascino77, propiziato dal fiume di inchiostro versato per imbalsamarlo?
Gli studenti – lo dico in italiano e senza sostegno statistico – sono stati attratti dalla promessa di emanciparsi da quel mondo di contadini, braccianti, muratori, meccanici, bidelli, manovali al quale appartenevano i loro genitori che pagavano gli affitti e i libri.
Negli anni '90, quando cominciò a diventare chiaro che la promessa di un posto di professore associato di filosofia, di ingegnere elettromeccanico, di avvocato coi soldi o di amministratore delegato di qualche azienda milanese, era una promessa da marinaio, e che anche i posti di ripiego, come maestro alle elementari o professore alle superiori, cominciavano a scarseggiare, e che l’esercito di riserva era formato da più di un milione di disoccupati intellettualmente formati dallo Stato; quando anche il Movimento della Pantera, diventato famoso con lo slogan Privatizzare è prima di tutto Privare, nonostante il clamoroso successo, non poté niente contro l’evidenza macroeconomica che il sistema industriale italiano non poteva assorbire quel mare di intelligenza libera e fresca; quando ci si rese conto di tutto ciò, era ormai troppo tardi, si era andati troppo avanti, ci si era compromessi con la difesa di un sistema che aveva cooptato ed emancipato solo un pugno di fortunati.
Nel frattempo, contro ogni evidenza, anche di reddito dei cittadini, le iscrizioni all’università sono continuate ad aumentare. Nel 2004-05 gli iscritti sono stati 1.376.088. Nel 2018-19 gli iscritti sono diventati 1.763.614.
Mentre Bologna perdeva iscritti (68.301 nel 2004), le università del sud esplodevano. Salerno passava dai 24.783 iscritti del 2004 ai 35.782 del 2018, e la Federico II, nello stesso periodo, da 59 mila a 76.282 iscritti.
Forse i giovani preferiscono polleggiarsi all’università, piuttosto che patire l’infamia della disoccupazione, preferiscono leggere paper impapocchiati in inglese, da professori che, pur di aver un like (una citazione), vero borsino accademico, si abbassano a scrivere emerite stronzate; forse preferiscono attendere, prendere la rincorsa, prima di abbattersi contro questa ipocrisia e metterla al tappeto.
Chiudo fornendo il doi dell’articolo. Se avete possibilità, cliccatelo, pardon!, citatelo, aiuterete i prof a scalare le classifiche mondiali.
Fonte
Rapimento Moro, il Gip ordina test del dna sui Br già condannati per via Fani
Se non fosse la dimostrazione di interessi disonesti e malsani, l’insistenza dei «dietrologi» sarebbe un caso da macchietta comica, come quei clown che si danno ripetutamente martellate in testa senza capire come mai...
Purtroppo non c’è da ridere. E qualcuno dovrà rispondere, davanti alla Storia, di questo ultra-quarantennale sforzo di dimostrare il falso rifiutando la verità.
L’ultima notizia sul tentativo di trovare nel sequestro di Aldo Moro un indizio estraneo al piccolo mondo dei brigatisti sta nell’ordine del pm di Roma, Albamonte, di prelevare forzosamente il dna ad alcuni componenti delle Br già condannati per l’azione di via Fani, per altri riconosciuti estranei ai fatti e persino per un parente.
L’ordine arriva a soddisfazione della richiesta avanzata, qualche anno prima, dall’ultima Commissione parlamentare di inchiesta su quei fatti, presieduta dal democristiano Fioroni. Ultima e più ridicola, avendo dovuto incassare non solo smentite, ma persino denunce per gli «azzardi» di immaginazione nei confronti di alcune persone totalmente innocenti e – per loro sfortuna – ancora in vita a 43 anni dagli eventi.
Il magistrato se l’è presa comoda, in effetti. Ma di certo non si può dire che ci fossero ragioni di «necessità e urgenza». Non sappiamo se abbia ritardato perché neanche lui convinto di questa ennesima variazione sul tema dietrologico, oppure per normale disattenzione giudiziaria.
Ma in ogni caso, sul piano storico e politico, questo «prelievo forzoso» (noi ricordiamo quello di Giuliano Amato sui conti correnti, altrimenti chiamata «tassa per l'Europa») non aggiungerà nulla a quanto si sa ed è stato raccontato in 43 anni dagli stessi protagonisti (pentiti, dissociati o irriducibili).
E siamo certi che l’ennesimo flop – dopo l’esame del dna – non sarà affatto pubblicizzato sui media. Gli insuccessi si nascondono, giusto?
Come facciamo a dirlo? Il prelievo sul dna fornisce certamente informazioni quasi sicure, ma hanno il difetto di “non avere data”. I mozziconi di sigaretta trovati sull’auto in questione possono insomma risalire a persone salite su quell’auto prima (il proprietario, certamente), durante l’azione e anche anni dopo (persino agli inquirenti accorsi sul luogo o agli agenti che poi hanno «parcheggiato» l’auto nel garage dell’Ufficio corpi di reato).
Resta la curiosità. Com’è possibile che per le centinaia di azioni delle Br non ci sia alcun dubbio sulla matrice e sugli autori, mentre si producono migliaia di ipotesi – sempre smentite dalle indagini – per il solo sequestro di Aldo Moro?
Qualche imbecille motiva questa ossessione con psudo-argomentazioni «tecniche», tipo «era un“azione troppo complessa perché potessero farla da soli». A noi poveri cronisti è toccato registrare in quegli anni azioni ben più complicate di quella, con un numero maggiore di militanti in azione e addirittura con scontri a fuoco imprevisti. Dunque, quella «capacità militare» autonoma esisteva ed era più che sufficiente...
Ma sappiamo anche che è inutile appellarsi alle prove e alla logica di fronte al sillogismo da gesuiti che sta dietro il lavoro dei dietrologi («noi ti accusiamo di essere in rapporto con il diavolo. Se riesci a dimostrare il contrario vuol dire che sei davvero in rapporto con il diavolo, perché solo il diavolo può riuscirci»).
Il sito Insorgenze.net riporta sulla notizia un commento e un articolo di Frank Cimini, storico giornalista della «cronaca nera» milanese, ma con la schiena dritta.
Purtroppo non c’è da ridere. E qualcuno dovrà rispondere, davanti alla Storia, di questo ultra-quarantennale sforzo di dimostrare il falso rifiutando la verità.
L’ultima notizia sul tentativo di trovare nel sequestro di Aldo Moro un indizio estraneo al piccolo mondo dei brigatisti sta nell’ordine del pm di Roma, Albamonte, di prelevare forzosamente il dna ad alcuni componenti delle Br già condannati per l’azione di via Fani, per altri riconosciuti estranei ai fatti e persino per un parente.
L’ordine arriva a soddisfazione della richiesta avanzata, qualche anno prima, dall’ultima Commissione parlamentare di inchiesta su quei fatti, presieduta dal democristiano Fioroni. Ultima e più ridicola, avendo dovuto incassare non solo smentite, ma persino denunce per gli «azzardi» di immaginazione nei confronti di alcune persone totalmente innocenti e – per loro sfortuna – ancora in vita a 43 anni dagli eventi.
Il magistrato se l’è presa comoda, in effetti. Ma di certo non si può dire che ci fossero ragioni di «necessità e urgenza». Non sappiamo se abbia ritardato perché neanche lui convinto di questa ennesima variazione sul tema dietrologico, oppure per normale disattenzione giudiziaria.
Ma in ogni caso, sul piano storico e politico, questo «prelievo forzoso» (noi ricordiamo quello di Giuliano Amato sui conti correnti, altrimenti chiamata «tassa per l'Europa») non aggiungerà nulla a quanto si sa ed è stato raccontato in 43 anni dagli stessi protagonisti (pentiti, dissociati o irriducibili).
E siamo certi che l’ennesimo flop – dopo l’esame del dna – non sarà affatto pubblicizzato sui media. Gli insuccessi si nascondono, giusto?
Come facciamo a dirlo? Il prelievo sul dna fornisce certamente informazioni quasi sicure, ma hanno il difetto di “non avere data”. I mozziconi di sigaretta trovati sull’auto in questione possono insomma risalire a persone salite su quell’auto prima (il proprietario, certamente), durante l’azione e anche anni dopo (persino agli inquirenti accorsi sul luogo o agli agenti che poi hanno «parcheggiato» l’auto nel garage dell’Ufficio corpi di reato).
Resta la curiosità. Com’è possibile che per le centinaia di azioni delle Br non ci sia alcun dubbio sulla matrice e sugli autori, mentre si producono migliaia di ipotesi – sempre smentite dalle indagini – per il solo sequestro di Aldo Moro?
Qualche imbecille motiva questa ossessione con psudo-argomentazioni «tecniche», tipo «era un“azione troppo complessa perché potessero farla da soli». A noi poveri cronisti è toccato registrare in quegli anni azioni ben più complicate di quella, con un numero maggiore di militanti in azione e addirittura con scontri a fuoco imprevisti. Dunque, quella «capacità militare» autonoma esisteva ed era più che sufficiente...
Ma sappiamo anche che è inutile appellarsi alle prove e alla logica di fronte al sillogismo da gesuiti che sta dietro il lavoro dei dietrologi («noi ti accusiamo di essere in rapporto con il diavolo. Se riesci a dimostrare il contrario vuol dire che sei davvero in rapporto con il diavolo, perché solo il diavolo può riuscirci»).
Il sito Insorgenze.net riporta sulla notizia un commento e un articolo di Frank Cimini, storico giornalista della «cronaca nera» milanese, ma con la schiena dritta.
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A 43 anni dal rapimento, il gip romano Patrone ha autorizzato la richiesta di prelievo del Dna avanzata dal pm Albamonte per i Br già condannati per il sequestro del dirigente democristiano ma anche per alcuni militanti estranei ai fatti.
Per il brigatista Azzolini, già membro del comitato esecutivo si tratta di una decisione: «pretestuosa e fuorviante». Per Enrico Triaca, il tipografo delle Br romane arrestato e torturato nel maggio 1978: «questo continuo cercare fantasmi è un tentativo per distrarre l’attenzione dalle vere verità, come le torture».
La commissione d’inchiesta sul sequestro e l’uccisione del presidente del Consiglio nazionale della Dc, Aldo Moro, presieduta dall’ex Dc Giuseppe Fioroni, prima di chiudere la propria fallimentare missione consegnò alla procura di Roma alcune richieste di accertamento che hanno condotto alla apertura di nuovi filoni di inchiesta: oltre a quello preesistente sulla moto Honda avocato dalla Procura generale dopo un tormentato iter di richieste di archiviazione, e quello sul ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani, costato all’artificiere Vito Antonio Raso una iscrizione nel registro degli indagati per aver tentato di depistare con le sue dichiarazioni fuorvianti fatti già accertati, la procura della repubblica ha avviato da tempo una serie di verifiche sulle dichiarazioni del consulente americano chiamato dal ministro degli Interni Cossiga, Steve Pieczenik, su via dei Massimi, sul tentativo di depistaggio messo in piedi con un falso documento intestato a Casimirri (leggi qui), sulle armi impiegate in via Fani e in via Caetani e l’eventuale presenza di «altre persone» nel commando che attaccò il convoglio dove si trovava Aldo Moro. Nasce da qui la richiesta di prelievo del Dna: all’interno dell’abitacolo del Fiat 128 giardinetta, targata corpo diplomatico, condotta da Mario Moretti e che la mattina del 16 marzo 1978 bloccò allo stop con via Stresa la Fiat 130 su cui viaggiava lo statista democristiano e l’Alfetta della scorta, la scientifica rinvenne 39 mozziconi di sigarette.
Recuperati i reperti nel deposito dei corpi di reato del tribunale di Roma, la commissione Fioroni ne dispose l’estrazione del Dna, tecnica forense che nel 1978 non esisteva. Dalle analisi sono stati estratti 8 profili diversi, uno dei quali compatibile con il proprietario del mezzo.
Secondo i dietrologi della commissione, la comparazione del Dna con quello dei brigatisti si sarebbe dimostrato necessario per accertare la presenza di un’altra figura che si sarebbe trovata accanto al guidatore Moretti e che avrebbe partecipato all’agguato. Presenza che secondo l’ampia pubblicistica complottista non sarebbe da identificare in un eventuale brigatista ma in un misterioso «professionista» di qualche servizio segreto.
Sulla decisione della procura e del gip di dare seguito ai deliri della Commissione si possono sollevare numerose obiezioni: la presenza di tracce di sigarette risalenti al proprietario del mezzo rubato dalle Br dimostra che la 128 non venne pulita dai brigatisti il che lascia pensare che quei mozziconi fossero lì dal momento del furto dell’automobile; il Dna non ha una data, i mozziconi possono essere stati lasciati in fasi diverse e lontane dal periodo dell’inchiesta e dell’agguato in via Fani.
Come spiega il gip, la convocazione di ieri, venerdì 26 febbraio 2021, negli uffici Digos di diverse questure d’Italia ha riguardato quegli ex brigatisti che si rifiutarono di fornire nel 2018 il proprio Dna alla Commissione Fioroni, da loro ritenuto un organismo inaffidabile che tentava di costruire una verità politica interessata sul sequestro Moro ricorrendo a tutti gli artifici possibili.
Motivo che li portò a rifiutare l’invito (leggi qui). Tra i convocati c’è addirittura Corrado Alunni, che uscì dalle Brigate Rosse quattro anni prima del rapimento Moro per dare vita ad un’altra organizzazione. Ci sono anche Giovanni Senzani e Paolo Baschieri, estranei al sequestro e all’epoca dei fatti prestanome del comitato rivoluzionario toscano.
C’è anche Tommaso Casimirri, che brigatista non è mai stato, convocato per consentire di ricavare dal suo materiale biologico il Dna del fratello Alessio, riparato in Nicaragua.
Gli altri, fatta eccezione per Rita Algranati, assolta ma di cui sul piano storico è noto il ruolo avuto nella vicenda, sono già stati tutti condannati in via definitiva per il sequestro di Aldo Moro.
A differenza della richiesta della Commissione d’inchiesta, la convocazione del gip ha forza di legge ed implica, se rifiutata, l’estrazione coatta del Dna. Gli ex Br si sono recati in questura per i prelievi, ma alcuni di loro hanno chiesto di mettere agli atti delle dichiarazioni che potete leggere in integrale in fondo all’articolo di Frank Cimini.
*****
Frank Cimini, Il Riformista, 27 febbraio 2021
Moro senza fine. Ieri mattina a 43 anni dai fatti a Mario Moretti è stato prelevato il Dna per confrontarlo con i mozziconi di sigarette trovati nella Fiat 128 Giardinetta con targa diplomatica, una delle auto utilizzate il 16 marzo del 1978 per sequestrare Aldo Moro. Il gip romano Francesco Patrone accogliendo la richiesta della procura ha autorizzato il prelievo di reperti biologici per tutti i condannati in relazione al caso Moro e anche per militanti del gruppo estranei ai fatti come Giovanni Senzani, Paolo Bascheri e Corrado Alunni.
«È dunque necessario procedere alla comparazione dei profili del Dna in tal modo acquisiti con quelli delle persone coinvolte nella strage di via Fani allo scopo di consentire l’individuazione di profili appartenenti a persone diverse da quelle di cui ad oggi è nota la partecipazione criminale», scrive il gip nel provvedimento.
Nell’elenco dei nomi ci sono Franco Bonisoli, Lauro Azzolini, Barbara Balzerani, Valerio Morucci, Bruno Seghetti, Anna Laura Braghetti, Enrico Triaca, Rita Algranati, Corrado Alunni, Rocco Micaletto e Paolo Baschieri. Lauro Azzolini replica parlando di «strumento pretestuoso e fuorviante che vuole gettare ombre su una realtà che è già stata ampiamente chiarita in ripetute circostanze dentro e fuori i processi e che appartengono alla storia politica e sociale di questo paese. C’è chi ne ha fatto un lucroso mestiere costruendoci sopra carriere politiche e giornalistiche».
L’idea dei prelievi era partita dalla commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni, affascinata da sempre dalla dietrologia. Gli imputati già condannati per la strage di via Fani ricordano che la procura di Roma nulla ha fatto nei confronti del testimone Alessandro Marini il quale, smentito dalle indagini, sosteneva che il parabrezza del suo scooter era stato colpito da diversi proiettili sparati dalle Br. Gli imputati sono stati condannati anche per il tentato omicidio del teste Marini, fatto mai avvenuto. Si tratta di un testimone falso mai perseguito.
Enrico Triaca ricorda di essere già stato convocato tre anni fa e di essersi al pari di altri rifiutato di partecipare alla “caccia alle streghe”. «Non è forse questo cercare fantasmi inesistenti un tentativo di distrarre l’attenzione dalle vere verità sicuramente molto più scomode per voi?». È la conclusione di Triaca che all’epoca aveva denunciato torture e fu condannato pure per diffamazione. Successivamente, il tribunale di Perugia, in sede di revisione, pronunciò sentenza di assoluzione. Triaca era stato torturato.
La magistratura dunque non demorde sollecitata da una commissione parlamentare di inchiesta sul terrorismo che formalmente non esiste più perché non è stata rinnovata ma che continua a far sentire il suo peso politico e mediatico. C’è una ben precisa fazione erede di un partito che non c’è più pronta a proseguire la campagna dietrologia con una dedizione particolare e degna di miglior causa.
E la magistratura asseconda questa “voglia”, aumentando i rischi per la sua credibilità, già messa a dura prova da avvenimenti recenti e molto lontani dall’essere chiariti.
Fonte
Il principe saudita Bin Salman mandante dell’omicidio Kashoggi. Ci sono domande?
Il principe saudita Mohammed bin Salman, il giovane uomo forte della petromonarchia e principe ereditario dell’Arabia Saudita, diede il via libera all’operazione che portò nel 2018 al brutale assassinio del giornalista Jamal Khashoggi a Instanbul.
È questa la conclusione, scritta nero su bianco, contenuta nel rapporto dell’Ufficio del Direttore Nazionale dell’Intelligence americana, che coordina le agenzie dei servizi segreti statunitensi.
Questo rapporto era pronto da tempo ma finora era rimasto segreto per opportunità politiche nell’alleanza tra Usa e Arabia Saudita. In realtà alcune delle sue conclusioni erano già state fatte filtrare all’esterno – pare – proprio da parte della Cia.
Le quattro pagine del rapporto dell’intelligence Usa rese pubbliche omettono molte informazioni, rimaste comunque top secret. Ma il rapporto giunge alla conclusione che inchioda le responsabilità del principe saudita Bin Salman per il suo noto e fortissimo controllo proprio degli apparati di sicurezza responsabili del delitto.
Risultano infatti coinvolti nell’operazione anche uno stretto consigliere del principe e i membri della sua squadra personale di sicurezza. Secondo il rapporto l’indicazione di Bin Sallman ai suoi uomini era quella della cattura o dell’uccisione del dissidente.
“Valutiamo che il principe ereditario Mohammed bin Salman approvò una operazione a Istanbul, in Turchia, per catturare o uccidere il giornalista saudita Jamal Khashoggi”, si legge nel rapporto reso pubblico da Avril Haines, direttore nazionale dell’intelligence dell’amministrazione Biden.
Il documento afferma inoltre che il leader saudita non si è limitato a prendere di mira Khashoggi: “Ha sostenuto il ricorso a misure violente per zittire dissidenti all’estero, compreso Khashoggi”.
La decisione di rendere pubblico il rapporto che inchioda il principe Bin Salman come mandante dell’omicidio Kashoggi, va interpretata con attenzione.
Com’è noto, storicamente Washington affianca e sostiene l’alleato saudita, sia per i comuni interessi nel mercato petrolifero, sia per le ingenti forniture di armi e protezione strategica che gli Usa assicurano da sempre a Riad.
Inoltre Washington punta molto sull’Arabia Saudita in funzione anti-Iran e per il lavoro sporco che spesso i sauditi hanno fatto per conto degli Usa in giro per il mondo (Afghanistan, Bosnia, Kosovo, Cecenia, Siria).
Questo tipo di relazioni erano diventate ancora più strette durante l’amministrazione Trump che aveva innalzato l’Arabia Saudita a leader regionale e del mondo islamico e decisivo alleato statunitense. Anche Trump, come Obama, aveva sostenuto le operazioni militari saudite nello Yemen in chiave anti-iraniana.
Biden sembra, per ora, introdurre una diversa variante. Ha cominciato con lo stop al sostegno alla guerra saudita nello Yemen ed ora mette sulla graticola l’attuale uomo forte e capo di fatto del regime saudita, ossia un giovane principe rampante. Anche se, occorre dire, non lo ha ancora messo nella “lista nera” delle persone sanzionabili. In compenso ci sono qualche decina di funzionari sauditi.
Il parziale sganciamento da parte degli Usa sta forse proprio in questa caratteristica. A Washington preferiscono da sempre che un paese come l’Arabia Saudita sia nelle mani di persone mediocri e manipolabili e non di giovani ambiziosi.
In fondo, il contesto in cui sono maturati gli attentati dell’11 settembre, era proprio questo. Le aspirazioni frustrate dei giovani rampanti della classe dirigente di quella petromonarchia, avevano minato le basi di una alleanza fondata sulla totale subalternità.
P.S.: Sulla vicenda stiamo ancora aspettando qualche parola chiara di qualcuno che in Italia è abituato a straparlare e lo ha fatto anche nel salotto del principe Bin Salman: Matteo Renzi.
Fonte
Le porte girevoli di Marco Minniti
Marco Minniti si è appena dimesso da deputato per lavorare in Leonardo, l’azienda che produce armi e cybersecurity ed esporta per 5,17 miliardi di euro. Per la precisione, diventerà presidente della Fondazione Med-Or, il cui “campo di interesse” è già nel nome.
L’Egitto è il primo acquirente (commesse per 872 milioni di euro) seguito da Turkmenistan (446 milioni di euro), Arabia Saudita, Turchia, Thailandia, Marocco, Israele, India, Nigeria e Pakistan.
È da sottolineare come questi passaggi dalle “imprese” a ruoli di governo e viceversa siano abituali ai vertici Usa, ma un po’ più rari in Italia.
Né sembra un aspetto secondario che Minniti sia stato prima sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti (con Enrico Letta) e poi ministro degli interni con Renzi. Ruoli che testimoniano una notevole “vicinanza” con il mondo militare e dello spionaggio, e dunque particolarmente “interessanti” per un’azienda controllata dallo Stato e che fa da perno del nostrano “complesso militare-industriale”.
Da ministro degli interni sposò la tesi salviniana dell'”invasione” e fu fautore principale dell’accordo italo-libico anti-immigrazione del febbraio 2017 che incluse un forte sviluppo delle guardie costiere libiche su cui si riversarono una valanga di investimenti.
Il memorandum Italia-Libia del 2017, ufficialmente “Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica Italiana“, venne firmato dal presidente del Consiglio dei ministri italiano Paolo Gentiloni e dal primo ministro del Governo di Riconciliazione Nazionale libico Fayez al-Sarraj.
Uno scoop di Avvenire documentò un successivo incontro tra le autorità italiane e i libici per trovare un accordo sulle partenze dei migranti, al quale prese parte anche un noto trafficante di esseri umani, Abd al-Rahman al-Milad, conosciuto come Bija, entrato indisturbato nel Cara di Mineo, in Sicilia.
Quell’incontro avvenne l’11 maggio 2017.
Fonte
L’Egitto è il primo acquirente (commesse per 872 milioni di euro) seguito da Turkmenistan (446 milioni di euro), Arabia Saudita, Turchia, Thailandia, Marocco, Israele, India, Nigeria e Pakistan.
È da sottolineare come questi passaggi dalle “imprese” a ruoli di governo e viceversa siano abituali ai vertici Usa, ma un po’ più rari in Italia.
Né sembra un aspetto secondario che Minniti sia stato prima sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti (con Enrico Letta) e poi ministro degli interni con Renzi. Ruoli che testimoniano una notevole “vicinanza” con il mondo militare e dello spionaggio, e dunque particolarmente “interessanti” per un’azienda controllata dallo Stato e che fa da perno del nostrano “complesso militare-industriale”.
Da ministro degli interni sposò la tesi salviniana dell'”invasione” e fu fautore principale dell’accordo italo-libico anti-immigrazione del febbraio 2017 che incluse un forte sviluppo delle guardie costiere libiche su cui si riversarono una valanga di investimenti.
Il memorandum Italia-Libia del 2017, ufficialmente “Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica Italiana“, venne firmato dal presidente del Consiglio dei ministri italiano Paolo Gentiloni e dal primo ministro del Governo di Riconciliazione Nazionale libico Fayez al-Sarraj.
Uno scoop di Avvenire documentò un successivo incontro tra le autorità italiane e i libici per trovare un accordo sulle partenze dei migranti, al quale prese parte anche un noto trafficante di esseri umani, Abd al-Rahman al-Milad, conosciuto come Bija, entrato indisturbato nel Cara di Mineo, in Sicilia.
Quell’incontro avvenne l’11 maggio 2017.
Fonte
Servi all’ultimo stadio
di Daniele Sepe
In definitiva nella ristorazione sta succedendo quello che è successo nel campo della musica.
Non c’è differenza con la distribuzione digitale.
Io faccio l’album, ma chi guadagna un plusvalore da padroni del vapore dell’800 è Spotify. Tu fai la pizza, ma chi ci guadagna è Uber.
Che non fa ‘nu cazz. Il padrone col cilindro.
Hanno iniziato con noi perché siamo i più inutili, e poi al resto.
Se si pensa ai valigioni in cui viaggiano i panini di Just Eat si prende l’epatite, mica il Covid. Era più sicuro mangiare seduti al vostro ristorante, caso mai all’aperto.
Ma voi siete una pizzeria, mica una multinazionale. Avita murì, oppure state al gioco.
Sulla grande emergenza si misura anche la bussola politica dei vostri eletti, Conte o Draghi non cambia, sembra che i famosi vaccini non arrivano.
Pfizer e co. hanno preferito dirottare su Israele e Usa che pagano di più. L’Europa è la puttana più economica.
Detto per inciso il vaccino Pfizer costa 18€, lo Sputnik 2€, infatti a San Marino si so’ presi lo Sputnik.
Prenderei i compagni europeisti a calci nelle gengive, tutti borghesi ben pasciuti, com’è ovvio.
E state tranquilli, il Covid mica è l’unico, tra qualche anno potrebbe arrivare un virus che vi fa cadere il pesce nel bidè e le zizze nel lavandino mentre vi lavate.
Sempre che non siano i postumi del vaccino odierno...
Nel frattempo la gioventù antagonista, in gran parte, da quanto mi risulta scopa con la mascherina e esorta la popolazione a seguire le istruzioni dello sceriffo di Nottingham.
Anche insospettabili incendiari.
Abbè, io c’ho un età, me ne sono visto bene, ma voi che avete trent’anni avete un futuro di merda ad attendervi.
E non date la colpa a me.
Fonte
In definitiva nella ristorazione sta succedendo quello che è successo nel campo della musica.
Non c’è differenza con la distribuzione digitale.
Io faccio l’album, ma chi guadagna un plusvalore da padroni del vapore dell’800 è Spotify. Tu fai la pizza, ma chi ci guadagna è Uber.
Che non fa ‘nu cazz. Il padrone col cilindro.
Hanno iniziato con noi perché siamo i più inutili, e poi al resto.
Se si pensa ai valigioni in cui viaggiano i panini di Just Eat si prende l’epatite, mica il Covid. Era più sicuro mangiare seduti al vostro ristorante, caso mai all’aperto.
Ma voi siete una pizzeria, mica una multinazionale. Avita murì, oppure state al gioco.
Sulla grande emergenza si misura anche la bussola politica dei vostri eletti, Conte o Draghi non cambia, sembra che i famosi vaccini non arrivano.
Pfizer e co. hanno preferito dirottare su Israele e Usa che pagano di più. L’Europa è la puttana più economica.
Detto per inciso il vaccino Pfizer costa 18€, lo Sputnik 2€, infatti a San Marino si so’ presi lo Sputnik.
Prenderei i compagni europeisti a calci nelle gengive, tutti borghesi ben pasciuti, com’è ovvio.
E state tranquilli, il Covid mica è l’unico, tra qualche anno potrebbe arrivare un virus che vi fa cadere il pesce nel bidè e le zizze nel lavandino mentre vi lavate.
Sempre che non siano i postumi del vaccino odierno...
Nel frattempo la gioventù antagonista, in gran parte, da quanto mi risulta scopa con la mascherina e esorta la popolazione a seguire le istruzioni dello sceriffo di Nottingham.
Anche insospettabili incendiari.
Abbè, io c’ho un età, me ne sono visto bene, ma voi che avete trent’anni avete un futuro di merda ad attendervi.
E non date la colpa a me.
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La Cina ha “sconfitto il virus” e guida la corsa al vaccino
La Cina ha concesso l’approvazione “condizionale” per un quarto vaccino anti-Covid-19 di produzione propria, ha dichiarato questo venerdì il Ministro della Scienza e della Tecnologia Wang Zhigang, secondo quanto riportato dall’agenzia stampa cinese Xinhua.
La Repubblica Popolare è quindi il Paese che ha prodotto in proprio il numero maggiore di vaccini approvati.
I vaccini cinesi sono usati non solo per la Repubblica Popolare, ma sono stati approvati anche da altri Stati in vari continenti e due dozzine di Paesi hanno firmato contratti di fornitura con la Cina.
Per certi versi, è una condizione condivisa dalla Russia, i cui eccellenti risultati di sicurezza ed efficacia dello Sputnik V sono stati certificati dalla prestigiosa rivista scientifica The Lancet.
Guarda caso non hanno ricevuto ancora l’autorizzazione delle autorità della UE, nonostante l’Ungheria lo abbia approvato già da fine gennaio e abbia già allora ribadito la volontà di procurasi un milione di dosi del vaccino prodotto dalla Sinopharm, che nel tempo ha approvato.
I vaccini dell’industria statale – sottolineiamo statale – Sinopharm sono distribuiti per esempio negli Emirati Arabi Uniti e nei Balcani, tra cui la Serbia, divenuto il primo Paese europeo ad usare un vaccino cinese, ed il Montenegro; mentre il governo bosniaco ha iniziato una contrattazione anche con Pechino.
Sinovac ha ricevuto ordini anche dalla Turchia e dal Brasile, mentre il vaccino della CanSino – sempre cinese – sta affrontando la Fase-3 dei test clinici in Pakistan e Messico.
Per una sorta di paradosso la Cina, avendo fermato prima di tutti il contagio, non aveva un numero sufficiente di persone su cui poter testare le differenti fasi cliniche che presuppongono un numero crescente di persone a rischio contagio; ha quindi dovuto ricorrere alla popolazione di altre nazioni. Questo ne ha rallentato inizialmente la corsa, ma il gap è stato presto colmato.
Secondo quanto riporta il quotidiano d’informazione in lingua inglese China Daily, il Paese: “ha adottato cinque approcci tecnologici diversi sviluppando i vaccini per il Covid-19. La Cina ora dispone di 17 vaccini che ha sviluppato da sé e che affrontano i test clinici, con 7 di questi che stanno affrontando la Fase-3″, ha affermato Wang in una conferenza stampa tenutasi a Pechino.
Il pacchetto curativo della Repubblica Popolare include anche “11 tra farmaci e metodi di trattamento nella sua diagnosi e per il piano di trattamento”, ha aggiunto Wang.
La UE è in grande difficoltà sui vaccini perché arrivano con il contagocce dalle multinazionali farmaceutiche con cui ha firmato contratti secretati, mentre alcuni attori dell’industria farmaceutica di primo piano europea hanno fallito completamente nella corsa al vaccino, si pensi al caso di Sanofi-Aventis.
Di fronte ai successi cinesi, russi e prossimamente cubani, la rete di relazioni commerciali atlantico-europee appare sempre più un evidente handicap, così come lo è la subordinazione alle catene del valore franco-tedesche, che limitano lo sviluppo di prodotti strategici per l’Italia.
Di seguito l'articolo con cui il quotidiano inglese The Guardian riportava gli aggiornamenti sullo sviluppo dei vaccini in Cina, pochi giorni fa.
La Repubblica Popolare è quindi il Paese che ha prodotto in proprio il numero maggiore di vaccini approvati.
I vaccini cinesi sono usati non solo per la Repubblica Popolare, ma sono stati approvati anche da altri Stati in vari continenti e due dozzine di Paesi hanno firmato contratti di fornitura con la Cina.
Per certi versi, è una condizione condivisa dalla Russia, i cui eccellenti risultati di sicurezza ed efficacia dello Sputnik V sono stati certificati dalla prestigiosa rivista scientifica The Lancet.
Guarda caso non hanno ricevuto ancora l’autorizzazione delle autorità della UE, nonostante l’Ungheria lo abbia approvato già da fine gennaio e abbia già allora ribadito la volontà di procurasi un milione di dosi del vaccino prodotto dalla Sinopharm, che nel tempo ha approvato.
I vaccini dell’industria statale – sottolineiamo statale – Sinopharm sono distribuiti per esempio negli Emirati Arabi Uniti e nei Balcani, tra cui la Serbia, divenuto il primo Paese europeo ad usare un vaccino cinese, ed il Montenegro; mentre il governo bosniaco ha iniziato una contrattazione anche con Pechino.
Sinovac ha ricevuto ordini anche dalla Turchia e dal Brasile, mentre il vaccino della CanSino – sempre cinese – sta affrontando la Fase-3 dei test clinici in Pakistan e Messico.
Per una sorta di paradosso la Cina, avendo fermato prima di tutti il contagio, non aveva un numero sufficiente di persone su cui poter testare le differenti fasi cliniche che presuppongono un numero crescente di persone a rischio contagio; ha quindi dovuto ricorrere alla popolazione di altre nazioni. Questo ne ha rallentato inizialmente la corsa, ma il gap è stato presto colmato.
Secondo quanto riporta il quotidiano d’informazione in lingua inglese China Daily, il Paese: “ha adottato cinque approcci tecnologici diversi sviluppando i vaccini per il Covid-19. La Cina ora dispone di 17 vaccini che ha sviluppato da sé e che affrontano i test clinici, con 7 di questi che stanno affrontando la Fase-3″, ha affermato Wang in una conferenza stampa tenutasi a Pechino.
Il pacchetto curativo della Repubblica Popolare include anche “11 tra farmaci e metodi di trattamento nella sua diagnosi e per il piano di trattamento”, ha aggiunto Wang.
La UE è in grande difficoltà sui vaccini perché arrivano con il contagocce dalle multinazionali farmaceutiche con cui ha firmato contratti secretati, mentre alcuni attori dell’industria farmaceutica di primo piano europea hanno fallito completamente nella corsa al vaccino, si pensi al caso di Sanofi-Aventis.
Di fronte ai successi cinesi, russi e prossimamente cubani, la rete di relazioni commerciali atlantico-europee appare sempre più un evidente handicap, così come lo è la subordinazione alle catene del valore franco-tedesche, che limitano lo sviluppo di prodotti strategici per l’Italia.
Di seguito l'articolo con cui il quotidiano inglese The Guardian riportava gli aggiornamenti sullo sviluppo dei vaccini in Cina, pochi giorni fa.
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Il vaccino cinese di Sinopharm efficace al 72.5%, secondo la compagnia
Il vaccino cinese di Sinopharm efficace al 72.5%, secondo la compagnia
La Cina si porta avanti con l’introduzione di due nuovi vaccini per il Covid nel processo di regolamentazione, uno della compagnia statale Sinopharm e l’altro dall’azienda privata CanSino, riporta AP.
Entrambi i vaccini sono stati sottoposti agli enti di controllo per l’approvazione questa settimana.
CanSino dichiara che gli enti cinesi stanno revisionando la richiesta per il vaccino, in archivio da mercoledì.
La sussidiaria di Sinopharm, l’Istituto di Wuhan per Prodotti Biologici, mercoledì ha annunciato di aver sottoposto la domanda domenica e che gli enti regolatori la stanno visionando.
La Cina ha già approvato due vaccini che sta già usando in una campagna di vaccinazioni di massa. Uno di questi è anch’esso della Sinopharm, ma è stato sviluppato dalla sua sussidiaria di Beijing. L’altro è il vaccino Sinovac.
Il vaccino della Sinopharm di Wuhan è efficace al 72,51%, dichiara la compagnia. Entrambi i vaccini di Sinopharm si basano su virus disattivati, una tecnologia tradizionale.
Il vaccino di CanSino è un vaccino monodose che si basa su un virus innocuo dell’influenza comune, l’adenovirus, il quale porta il gene della proteina Spike. La tecnologia è simile a quella dei vaccini di Astrazeneca e Johnson & Johnson, basati su diversi adenovirus.
Il vaccino di CanSino è efficace al 65,28%, ha dichiarato l’azienda mercoledì. Nessuna delle compagnie ha pubblicato i suoi dati in riviste scientifiche peer-reviewed.
Fonte
27/02/2021
“Nel Bresciano bisognerebbe chiudere tutto”
“Bisognerebbe chiudere, stiamo implorando da giorni che lo si faccia“. Osvaldo Brignoli è medico di base di Capriolo, uno degli otto Comuni del Bresciano in zona arancione rafforzata e racconta all’AGI la situazione in uno dei focolai più preoccupanti per come lo vede dal suo, sempre più affollato, ambulatorio.
“Siamo messi male, siamo pieni di infetti, che non vuol dire necessariamente malati. Quello che osserviamo è che, nel giro di poche ore, se si infetta uno della famiglia lo diventano anche tutti gli altri. Gli ospedali – aggiunge – sono saturi, tengono solo qualche posto per i casi gravissimi. Bisognerebbe fare le vaccinazioni a tappeto e invece solo dal 26 febbraio inizia quella sistematica degli over 80“.
Secondo il medico, Brescia è la provincia più colpita per varie ragioni: “Perché non c’è mai stata soluzione di discontinuità, anzitutto. Da ottobre dopo la ‘pausa’ estiva il virus è ricomparso senza mai sparire e quando i giovani sono stati ‘liberati’ hanno impestato tutto. Il settanta per cento ora è variante inglese. Poi c’è il fatto che Brescia è una provincia che lavora molto e, come anche altrove, non si rispettano le regole per evitare il contagio“.
Brignoli è molto critico con la scelta di non far vaccinare nei loro studi, per il momento, i medici di medicina generale, “così poi succede che gli anziani li portiamo, malconci, a dieci chilometri di distanza da dove vivono quando potrebbero venire da noi. Sono scelte incomprensibili“.
Fonte
“Siamo messi male, siamo pieni di infetti, che non vuol dire necessariamente malati. Quello che osserviamo è che, nel giro di poche ore, se si infetta uno della famiglia lo diventano anche tutti gli altri. Gli ospedali – aggiunge – sono saturi, tengono solo qualche posto per i casi gravissimi. Bisognerebbe fare le vaccinazioni a tappeto e invece solo dal 26 febbraio inizia quella sistematica degli over 80“.
Secondo il medico, Brescia è la provincia più colpita per varie ragioni: “Perché non c’è mai stata soluzione di discontinuità, anzitutto. Da ottobre dopo la ‘pausa’ estiva il virus è ricomparso senza mai sparire e quando i giovani sono stati ‘liberati’ hanno impestato tutto. Il settanta per cento ora è variante inglese. Poi c’è il fatto che Brescia è una provincia che lavora molto e, come anche altrove, non si rispettano le regole per evitare il contagio“.
Brignoli è molto critico con la scelta di non far vaccinare nei loro studi, per il momento, i medici di medicina generale, “così poi succede che gli anziani li portiamo, malconci, a dieci chilometri di distanza da dove vivono quando potrebbero venire da noi. Sono scelte incomprensibili“.
Fonte
Il sogno di una “catena del valore” senza investimenti
Alle ore 6.30 di stamane Il sussidiario pubblicava il consueto editoriale di Giulio Sapelli. Ma come al solito questo analista svia.
Innanzitutto, la caduta del saggio di profitto è avvenuta non 30 anni fa, ma alla fine degli anni sessanta. La successiva “guerra al salario”, di cui parla Sapelli, con spostamento da salari a profitti e rendite, partì nel 1973 con la Trilaterale.
In Italia solo alcuni settori di Potere Operaio – non Negri – l’Autonomia Operaia e pochi altri, cui fu riservata la non benevola attenzione dell’autorità giudiziaria, colsero il dato storico, mentre il Pci si votava all’austerità.
La stessa caduta del saggio di profitto – ma questo Sapelli non lo dice – dà la possibilità di avviare controtendenze, e sono 5, elencate da Marx nel Capitale e specificate dettagliatamente da Grossmann.
L’unica scelta concreta tra le 5 controtendenze è stata però il capitale produttivo di interesse, vale a dire la finanziarizzazione, resa possibile dalle banche centrali.
Il fantasma della Cina, che Sapelli evoca anche in questo scritto, al limite ormai del paranoico, ha offerto in questi decenni un sentiero opposto: politiche monetarie restrittive e politiche fiscali espansive.
Nel 2008 quel paese ha deciso (e soprattutto praticato) il passaggio al plusvalore relativo, conseguente aumento della produttività totale dei fattori produttivi e reflazione salariale (ossia aumenti, continui e progressivi).
Visto l’enorme tasso di risparmio, le autorità cinesi avviarono la strategia del “salario sociale globale di classe“, di cui parlo nel libro, proprio come ha chiesto l’ex Ministro del Tesoro Usa Lawrence Summers a novembre scorso.
Se Sapelli ritiene che Draghi operi in questo senso, non si capisce la ragione di questa compagine governativa, tutta votata da decenni alla deflazione salariale (diminuzione continua e progressiva).
Infine, la necessità della “centralizzazione capitalistica”, di cui sarebbe portatore Draghi, come controtendenza alla caduta del saggio di profitto, volta a passare alla testa della catena del valore industriale, cozza con la vecchia idea di Sapelli della Lega come “espressione della borghesia nazionale”, visto che essa è semmai espressione dei subfornitori e contoterzisti (in primo luogo verso la Germania),
Ossia coloro, che impediscono il salto tecnologico che il nostro Paese già era stato in grado di realizzare fino a 30 anni fa, con i colossi pubblici.
L’attuale compagine parlamentare e delle classi dirigenti italiche cozzano con la speranza di Sapelli di arrivare alla testa della catena del valore, resa possibile dalla centralizzazione capitalistica. Quella centralizzazione, infatti, richiede grande capacità di fuoco e una domanda interna fortissima, fuori dal paradigma export oriented.
Fonte
Innanzitutto, la caduta del saggio di profitto è avvenuta non 30 anni fa, ma alla fine degli anni sessanta. La successiva “guerra al salario”, di cui parla Sapelli, con spostamento da salari a profitti e rendite, partì nel 1973 con la Trilaterale.
In Italia solo alcuni settori di Potere Operaio – non Negri – l’Autonomia Operaia e pochi altri, cui fu riservata la non benevola attenzione dell’autorità giudiziaria, colsero il dato storico, mentre il Pci si votava all’austerità.
La stessa caduta del saggio di profitto – ma questo Sapelli non lo dice – dà la possibilità di avviare controtendenze, e sono 5, elencate da Marx nel Capitale e specificate dettagliatamente da Grossmann.
L’unica scelta concreta tra le 5 controtendenze è stata però il capitale produttivo di interesse, vale a dire la finanziarizzazione, resa possibile dalle banche centrali.
Il fantasma della Cina, che Sapelli evoca anche in questo scritto, al limite ormai del paranoico, ha offerto in questi decenni un sentiero opposto: politiche monetarie restrittive e politiche fiscali espansive.
Nel 2008 quel paese ha deciso (e soprattutto praticato) il passaggio al plusvalore relativo, conseguente aumento della produttività totale dei fattori produttivi e reflazione salariale (ossia aumenti, continui e progressivi).
Visto l’enorme tasso di risparmio, le autorità cinesi avviarono la strategia del “salario sociale globale di classe“, di cui parlo nel libro, proprio come ha chiesto l’ex Ministro del Tesoro Usa Lawrence Summers a novembre scorso.
Se Sapelli ritiene che Draghi operi in questo senso, non si capisce la ragione di questa compagine governativa, tutta votata da decenni alla deflazione salariale (diminuzione continua e progressiva).
Infine, la necessità della “centralizzazione capitalistica”, di cui sarebbe portatore Draghi, come controtendenza alla caduta del saggio di profitto, volta a passare alla testa della catena del valore industriale, cozza con la vecchia idea di Sapelli della Lega come “espressione della borghesia nazionale”, visto che essa è semmai espressione dei subfornitori e contoterzisti (in primo luogo verso la Germania),
Ossia coloro, che impediscono il salto tecnologico che il nostro Paese già era stato in grado di realizzare fino a 30 anni fa, con i colossi pubblici.
L’attuale compagine parlamentare e delle classi dirigenti italiche cozzano con la speranza di Sapelli di arrivare alla testa della catena del valore, resa possibile dalla centralizzazione capitalistica. Quella centralizzazione, infatti, richiede grande capacità di fuoco e una domanda interna fortissima, fuori dal paradigma export oriented.
Fonte
La strategia dell’incertezza
Qualche tempo fa – pochi anni, in fondo – uno dei mantra abituali sui media e soprattutto nei talk show prendeva di mira “la cultura del posto fisso”.
Quella che era stata un’invenzione del liberismo a partire dalla seconda rivoluzione industriale – l’”era fordista”, diciamo – ossia quel sistema in cui si producevano merci che dovevano essere acquistate da chi le produceva, comprese le automobili, fin lì roba di ultra-lusso, veniva improvvisamente raccontata come un insopportabile “privilegio”, di natura quasi “socialista”.
Ricordate Mario Monti? Era appena il 2012, presidente del consiglio non eletto da pochi mesi (dalla Commissione Europea a Palazzo Chigi, quasi come Draghi), e dal teleschermo scuoteva la testa dicendo «Che monotonia avere un posto fisso per tutta la vita».
Le critiche contro di lui, ” da sinistra”, furano incentrate quasi soltanto sul classismo sfacciato di quella sortita. La stragrande maggioranza dei lavoratori, fin lì, erano stati obbligati a trovarsi un lavoro e tenerselo stretto per tutta la vita. L’alternativa, infatti, era il licenziamento e la fame, tranne per quei pochi che per qualche motivo trovavano qualcos’altro da fare. Chi poteva “saltabeccare” da un incarico all’altro, naturalmente, erano solo i membri della “classe dirigente”, secondo meccanismi di cooptazione privilegiata, altra roba...
All’inizio degli anni ‘80, i 23.000 licenziati della Fiat si erano quasi equamente divisi tra il suicidio e l’avvio di una boita, una piccola officina con al massimo due-tre dipendenti oltre al titolare-lavoratore, magari contoterzista della stessa Fiat. Fuori del “posto fisso” non c’erano alternative, specie se eri ormai di “mezza età” (dai 40 in su, grosso modo). A confortarli, in parte, giungeva l’ideologia del “piccolo è bello”; uno stereotipo della narrazione imprenditrice stracciona, mentre nel mondo galoppava a briglie sciolte il capitale multinazionale e finanziario.
Solo verso la fine del secolo, con il “pacchetto Treu”, vengono legalizzati quasi una quarantina di contratti “atipici” – a termine, part time, a chiamata, co.co.co, ecc. – e cominciava l’era del lavoro precario per tutti. Per tutti, ripetiamo, perché dopo una breve stagione di contrapposizione ad arte tra “garantiti” (con l’art. 18, quasi non licenziabili) e “precari”, si è arrivati alla precarietà per tutti visto che tutti siamo licenziabili in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo.
E siamo quindi piombati nella condizione dell’incertezza esistenziale generale.
Ma anche questa fase non poteva durare all’infinito. Le crisi ricorrenti (la net economy nel 2000, il grande botto del 2007-2008 tra mutui subprime e Lehmann Brothers) e la mondializzazione della produzione scavavano fosse incolmabili sotto il salario occidentale (fermo o in arretramento fin dagli anni ‘80) e persino sotto quei “piccoli produttori” che si scoprivano molto meno “belli”.
Nel frattempo era drasticamente cambiato anche il sistema della rappresentanza sociale e politica. Se nulla era più “fisso” nella struttura sociale, anche i sistemi di convogliamento del consenso basato su interessi materiali riconoscibili (sindacati, associazioni di categoria, ecc.) perdevano presa e peso.
E anche il sistema dei partiti implodeva miseramente. Se tutti “siamo liberali” (anche i Cinque Stelle, ma no?!), quali cavolo di distinzioni ci potranno mai essere agli occhi di elettori sull’orlo della crisi di nervi? Solo quelle inventate, è ovvio. Quelle che “parlano alla pancia” e ottundono cervelli logorati ogni giorno dalla tensione e dall’incertezza esistenziale. Cervelli ripiegati su se stessi e sull’insolubilità dei propri problemi.
Siamo all’oggi, ovviamente. Ma è bene ricordare come ci siamo arrivati.
Ogni fase di sviluppo/crisi del capitalismo occidentale ha prodotto una forma di gestione e “narrazioni” adatte alla bisogna. Ora c’è poco da “narrare”. O meglio: non ne viene fuori una narrazione ottimistica. Una che sia una.
La pandemia ha segato le gambe a qualsiasi ipotesi di “rilancio della crescita” a breve termine. Ha allargato a dismisura le disuguaglianze. Sta distruggendo gran parte dei “piccoli”, che erano la base sociale del sistema politico conservatore. Il salario tende a scendere ancora, i diritti sul lavoro sono occasionali (serve un giudice per dire che i rider sono “cittadini”, i sindacati complici non ci avevano neanche pensato...) o nulli.
Come si gestisce un insieme sociale a metà strada tra passività ed esplosioni incontrollabili?
Con la paura, facendo di necessità virtù. Il virus è un problema concreto e drammatico, ma hanno provato a farlo diventare un’”occasione”. Convivendoci, al prezzo (per ora) di centinaia di migliaia di morti in tutto l’Occidente (100.000 solo in Italia).
E non per fare profitti (solo pochi, e solo i più internazionalizzati, ci possono riuscire), ma per tenere in piedi la parte “forte” del sistema.
Non lo pensiamo soltanto noi.
Eccovi la riflessione di Guido Salerno Aletta, apparsa nientepopodimeno che sull’agenzia TeleBorsa. Si vede che anche in una parte del mondo economico mainstream le preoccupazioni stanno superando il livello di guardia.
Quella che era stata un’invenzione del liberismo a partire dalla seconda rivoluzione industriale – l’”era fordista”, diciamo – ossia quel sistema in cui si producevano merci che dovevano essere acquistate da chi le produceva, comprese le automobili, fin lì roba di ultra-lusso, veniva improvvisamente raccontata come un insopportabile “privilegio”, di natura quasi “socialista”.
Ricordate Mario Monti? Era appena il 2012, presidente del consiglio non eletto da pochi mesi (dalla Commissione Europea a Palazzo Chigi, quasi come Draghi), e dal teleschermo scuoteva la testa dicendo «Che monotonia avere un posto fisso per tutta la vita».
Le critiche contro di lui, ” da sinistra”, furano incentrate quasi soltanto sul classismo sfacciato di quella sortita. La stragrande maggioranza dei lavoratori, fin lì, erano stati obbligati a trovarsi un lavoro e tenerselo stretto per tutta la vita. L’alternativa, infatti, era il licenziamento e la fame, tranne per quei pochi che per qualche motivo trovavano qualcos’altro da fare. Chi poteva “saltabeccare” da un incarico all’altro, naturalmente, erano solo i membri della “classe dirigente”, secondo meccanismi di cooptazione privilegiata, altra roba...
All’inizio degli anni ‘80, i 23.000 licenziati della Fiat si erano quasi equamente divisi tra il suicidio e l’avvio di una boita, una piccola officina con al massimo due-tre dipendenti oltre al titolare-lavoratore, magari contoterzista della stessa Fiat. Fuori del “posto fisso” non c’erano alternative, specie se eri ormai di “mezza età” (dai 40 in su, grosso modo). A confortarli, in parte, giungeva l’ideologia del “piccolo è bello”; uno stereotipo della narrazione imprenditrice stracciona, mentre nel mondo galoppava a briglie sciolte il capitale multinazionale e finanziario.
Solo verso la fine del secolo, con il “pacchetto Treu”, vengono legalizzati quasi una quarantina di contratti “atipici” – a termine, part time, a chiamata, co.co.co, ecc. – e cominciava l’era del lavoro precario per tutti. Per tutti, ripetiamo, perché dopo una breve stagione di contrapposizione ad arte tra “garantiti” (con l’art. 18, quasi non licenziabili) e “precari”, si è arrivati alla precarietà per tutti visto che tutti siamo licenziabili in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo.
E siamo quindi piombati nella condizione dell’incertezza esistenziale generale.
Ma anche questa fase non poteva durare all’infinito. Le crisi ricorrenti (la net economy nel 2000, il grande botto del 2007-2008 tra mutui subprime e Lehmann Brothers) e la mondializzazione della produzione scavavano fosse incolmabili sotto il salario occidentale (fermo o in arretramento fin dagli anni ‘80) e persino sotto quei “piccoli produttori” che si scoprivano molto meno “belli”.
Nel frattempo era drasticamente cambiato anche il sistema della rappresentanza sociale e politica. Se nulla era più “fisso” nella struttura sociale, anche i sistemi di convogliamento del consenso basato su interessi materiali riconoscibili (sindacati, associazioni di categoria, ecc.) perdevano presa e peso.
E anche il sistema dei partiti implodeva miseramente. Se tutti “siamo liberali” (anche i Cinque Stelle, ma no?!), quali cavolo di distinzioni ci potranno mai essere agli occhi di elettori sull’orlo della crisi di nervi? Solo quelle inventate, è ovvio. Quelle che “parlano alla pancia” e ottundono cervelli logorati ogni giorno dalla tensione e dall’incertezza esistenziale. Cervelli ripiegati su se stessi e sull’insolubilità dei propri problemi.
Siamo all’oggi, ovviamente. Ma è bene ricordare come ci siamo arrivati.
Ogni fase di sviluppo/crisi del capitalismo occidentale ha prodotto una forma di gestione e “narrazioni” adatte alla bisogna. Ora c’è poco da “narrare”. O meglio: non ne viene fuori una narrazione ottimistica. Una che sia una.
La pandemia ha segato le gambe a qualsiasi ipotesi di “rilancio della crescita” a breve termine. Ha allargato a dismisura le disuguaglianze. Sta distruggendo gran parte dei “piccoli”, che erano la base sociale del sistema politico conservatore. Il salario tende a scendere ancora, i diritti sul lavoro sono occasionali (serve un giudice per dire che i rider sono “cittadini”, i sindacati complici non ci avevano neanche pensato...) o nulli.
Come si gestisce un insieme sociale a metà strada tra passività ed esplosioni incontrollabili?
Con la paura, facendo di necessità virtù. Il virus è un problema concreto e drammatico, ma hanno provato a farlo diventare un’”occasione”. Convivendoci, al prezzo (per ora) di centinaia di migliaia di morti in tutto l’Occidente (100.000 solo in Italia).
E non per fare profitti (solo pochi, e solo i più internazionalizzati, ci possono riuscire), ma per tenere in piedi la parte “forte” del sistema.
Non lo pensiamo soltanto noi.
Eccovi la riflessione di Guido Salerno Aletta, apparsa nientepopodimeno che sull’agenzia TeleBorsa. Si vede che anche in una parte del mondo economico mainstream le preoccupazioni stanno superando il livello di guardia.
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La Strategia dell’Incertezza
La Strategia dell’Incertezza
Se il Virus è imprevedibile come il Mercato, il Caos mediatico e normativo serve al controllo sociale
Guido Salerno Aletta – Teleborsa
Il frastuono delle notizie che rappresentano una realtà sanitaria, sociale ed economica in continua evoluzione, serve a mantenere la popolazione in uno stato di perenne incertezza.
Di fronte alla epidemia, il parapiglia mediatico tra virologi, epidemiologi, biologi ed esperti di vaccini è assolutamente necessario, perché riempie la nostra testa di argomenti pro e contro, ci obbliga a riflettere, ci impone di ponderare e prendere posizione.
Più il dibattito scientifico è caotico, meglio è.
In questa incertezza scientifica, tra virus, varianti e vaccini, non c’è che affidarsi ai governi, i nuovi Salvatori, che rendono tutto ancora più incerto.
Nel 2020 in Italia sono stati emanati 24 decreti-legge riconducibili al Covid-19. Di questi, ben 11 sono stati “abrogati” mediante apposite disposizioni legislative. In sostanza, quasi nella metà dei casi i decreti-legge non sono stati convertiti in legge, ma se ne sono sanati gli effetti per il passato e le loro disposizioni sono state fatte confluire in tutto o in parte in altri procedimenti di conversione in legge.
A questi provvedimenti va aggiunto il decreto “Milleproroghe” (d.l. n. 183/2020), che pure detta alcune norme collegate all’emergenza. Nel 2021, e siamo solo a fine febbraio, sono già stati emanati altri quattro decreti-legge, ancora in attesa di conversione in legge.
È una impresa quasi disperata, per i normali cittadini, capire che cosa stia succedendo. Anche gli esperti annaspano: perfetto!
Per le misure anti-contagio è lo stesso, con i colori che si moltiplicano e le realtà territoriali che si segmentano: dalla riapertura dei cinema e dei ristoranti alla didattica a distanza, ogni momento della nostra vita è sottoposto a norme sempre cangianti ed incomprensibili.
Nessun dubbio: di fronte alla progressiva disgregazione dei sistemi politici occidentali che da decenni hanno imposto la globalizzazione senza controlli, il turbo-liberismo mercatista, la finanziarizzazione delle economie, la svalutazione del lavoro e lo smantellamento dei sistemi di welfare, occorre riprendere il controllo sulle popolazioni sempre più insofferenti.
Le ondate di sovranismo e di populismo che hanno caratterizzato gli orientamenti popolari, con la vittoria del referendum sulla Brexit nel 2016 e la elezione di Donald Trump alla Presidenza degli Usa sempre nel 2016, l'evaporazione delle storiche famiglie politiche europee come i Popolari ed i Socialisti a favore di movimenti nuovi ed incontrollabili, la pur breve e turbolenta esperienza del governo giallo-verde in Italia, con la Lega che è diventata il primo partito cavalcando il contrasto alla immigrazione clandestina, hanno imposto una drastica revisione dei sistemi di controllo: la epidemia di coronavirus è arrivata a proposito.
Il virus è diventato il punto di svolta.
Come d’incanto, nell’opinione pubblica italiana è svanita la preoccupazione per gli sbarchi dei clandestini, è venuto meno il sentimento di insofferenza verso l'Unione Europea.
Alla fine, presi dalla paura del dopo, un po’ tutte le forze politiche si sono convinte della necessità di sostenere il Governo Draghi che proclama la “irreversibilità dell’euro” e la prospettiva di cedere ulteriori quote di sovranità nelle aree in cui siamo più deboli.
Sono tutti preoccupati per il futuro, non solo in Italia: la sopravvivenza delle imprese dipende quasi sempre dagli aiuti concessi dai governi, quella di tante famiglie è condizionata dagli interventi a sostegno del reddito a chi ha perso il lavoro. Si va dalle garanzie pubbliche sui crediti bancari erogati per assicurare la liquidità ai “ristori” di ogni genere.
Non si tratta di negare l’esistenza del virus o di sottovalutare la diffusione dei contagi, ma di constatare come la gestione politica della crisi sanitaria venga utilizzata per riassorbire ogni possibile protesta popolare attraverso un metodo classico e sempre efficace: ribaltare nella testa delle persone l’ordine delle priorità e la graduatoria delle preoccupazioni.
Non sono più le popolazioni a decidere democraticamente del loro destino, a cambiare i governi. Sono invece i governi che si legittimano per via dell’emergenza sanitaria ed economica: dalle loro decisioni dipende ogni atto della nostra vita.
Come accade in Borsa, ad ogni istante chi ha investito può ritrovarsi più ricco o più povero: dipende dal Mercato insondabile ed imprevedibile. Così, ora, ogni giorno dobbiamo cercare di scoprire se siamo più o meno liberi, e dobbiamo verificare se la nostra attività economica può riprendere o se deve ancora rimanere sospesa. Tutto dipende dal Virus, anch’esso insondabile ed imprevedibile.
Inchiodati al Mercato, Inchiodati al Virus.
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I fuoriusciti del M5S dichiarano guerra a “Tina”. Ne derivano grandi responsabilità
Quaranta anni fa, Margaret Thatcher gelò il sangue nelle vene di intere generazioni, affermando che al mondo che andava conformandosi intorno ad un brutale neoliberismo, “There Is Not Alternative” (poi abbreviato in “Tina”), non ci sono alternative.
L’ipoteca minacciosa del Tina ha continuato a pesare sulle sorti delle società occidentali, dotandosi di una ideologia conseguente che ha frantumato le fragili difese immunitarie di una sinistra fin troppo disponibile ad abbracciare Tina senza fare troppe resistenze.
In Italia è stata una regressione a volte lenta e logorante, passata soprattutto attraverso i governi Prodi e le alleanze locali con i liberal del Pd nelle regioni e nei comuni. L’ineluttabilità di Tina è così diventata una permanente ritirata sul “meno peggio”, che in realtà è stato quasi sempre peggiore dei fantasmi che si volevano esorcizzare.
A questa capitolazione non si sono però sottratti i nuovi movimenti definiti “populisti”, nati sulla base di generici principi ordinatori, come “basso contro alto”, “popoli contro élite”, ecc.
Ultimo a capitolare, in ordine di tempo, è stato il M5S e lo ha fatto fragorosamente. In una recente intervista, il suo esponente principale e ministro da tre governi, Luigi Di Maio, ha affermato che il M5S è ormai un movimento moderato e liberale e che la fedeltà ad europeismo, euro e atlantismo non sono più in discussione. Un rovesciamento a 180 gradi rispetto alle premesse. Che evidentemente erano molto fragili...
A questa dichiarazione ha replicato il deputato Pino Cabras, uscito insieme ad altri dal M5S in opposizione al governo Draghi, il quale commentando l’intervista di Di Maio afferma che questa è ormai diventata una linea politica “imbevuta di un atlantismo docile, da vassalli addomesticati, pronti ai fantomatici ‘Stati Uniti d’Europa’, come l’ultraliberista Bonino o un qualsiasi PD. La chiama evoluzione. E liquida la posizione che pure lo ha portato lì come roba da ‘nostalgici dell’Italexit'”.
Secondo Cabras con quella intervista a La Repubblica, “Di Maio ha voluto dare il sigillo allo strappo già consumato in quattrocento giorni dal segnaposto Crimi, che ha preparato il terreno per l’assunzione del M5S nell’eterna palude del moderatismo. L’ennesimo partito fedele ai desideri del sistema di potere dominante, ai padroni del vapore e al vincolo esterno europeo in base alla versione italiota, che prevede subalternità. Non ci stancheremo di dirlo: l’Alternativa c’è!”.
Ribattendo a Di Maio, Cabras accenna non solo ad una visione radicalmente diversa, ma anche alla nascita di un gruppo parlamentare alla Camera e al Senato che si chiamerà appunto “L’Alternativa c’è”.
Ne fanno parte un pugno di deputati e senatori che ancora non possono conformarsi come gruppo parlamentare autonomo, a causa dei regolamenti delle due Camere, ma che a questo obiettivo stanno lavorando. Per ora sono una componente del Gruppo Misto.
Rispondendo alle domande di Agata Iacono su L’Antidiplomatico, alcuni dei senatori hanno cominciato a delineare la fisionomia del gruppo “L’Alternativa c’è”.
Il senatore Mattia Crucioli ha così riassunto i punti cardine programmatici del nuovo gruppo: “Un europeismo non fideistico e ben attento al reale interesse del popolo italiano. Lotta all’austerità, alle diseguaglianze e alle privatizzazioni, tutela dei beni pubblici”.
Ma a chi intende parlare e con chi vuole interloquire il nuovo gruppo “L’Alternativa c’è”? Secondo il senatore Fabrizio Ortis “A quella parte della società che pensa si possa interrompere il processo di trasformazione dei cittadini in consumatori, e a chiunque voglia portare al centro della scena politica quel nuovo umanesimo di cui parlava Conte prima di essere defenestrato da Palazzo Chigi”.
Ma Tina non è mai stata una prospettiva affascinante, soprattutto quando ha voluto dichiarare che con essa era “finita la storia”. Al contrario è la gabbia ideologica e politica da rompere.
La pandemia di Covid-19, e la crisi di civilizzazione nei paesi a capitalismo avanzato che l’ha preceduta, hanno rivelato tutte le vulnerabilità del sistema dominante e fatto riemergere con forza proprio la necessità di una alternativa. Ed è chiaro che gli antichi architravi dell’ideologia grillina non possono essere semplicemente “conservati” in opposizione diretta al padre fondatore.
La definizione che i parlamentari fuoriusciti dal M5S si sono dati – L’Alternativa c’è – appare pertanto estremamente impegnativa. Adesso hanno una grande responsabilità.
Fonte
L’ipoteca minacciosa del Tina ha continuato a pesare sulle sorti delle società occidentali, dotandosi di una ideologia conseguente che ha frantumato le fragili difese immunitarie di una sinistra fin troppo disponibile ad abbracciare Tina senza fare troppe resistenze.
In Italia è stata una regressione a volte lenta e logorante, passata soprattutto attraverso i governi Prodi e le alleanze locali con i liberal del Pd nelle regioni e nei comuni. L’ineluttabilità di Tina è così diventata una permanente ritirata sul “meno peggio”, che in realtà è stato quasi sempre peggiore dei fantasmi che si volevano esorcizzare.
A questa capitolazione non si sono però sottratti i nuovi movimenti definiti “populisti”, nati sulla base di generici principi ordinatori, come “basso contro alto”, “popoli contro élite”, ecc.
Ultimo a capitolare, in ordine di tempo, è stato il M5S e lo ha fatto fragorosamente. In una recente intervista, il suo esponente principale e ministro da tre governi, Luigi Di Maio, ha affermato che il M5S è ormai un movimento moderato e liberale e che la fedeltà ad europeismo, euro e atlantismo non sono più in discussione. Un rovesciamento a 180 gradi rispetto alle premesse. Che evidentemente erano molto fragili...
A questa dichiarazione ha replicato il deputato Pino Cabras, uscito insieme ad altri dal M5S in opposizione al governo Draghi, il quale commentando l’intervista di Di Maio afferma che questa è ormai diventata una linea politica “imbevuta di un atlantismo docile, da vassalli addomesticati, pronti ai fantomatici ‘Stati Uniti d’Europa’, come l’ultraliberista Bonino o un qualsiasi PD. La chiama evoluzione. E liquida la posizione che pure lo ha portato lì come roba da ‘nostalgici dell’Italexit'”.
Secondo Cabras con quella intervista a La Repubblica, “Di Maio ha voluto dare il sigillo allo strappo già consumato in quattrocento giorni dal segnaposto Crimi, che ha preparato il terreno per l’assunzione del M5S nell’eterna palude del moderatismo. L’ennesimo partito fedele ai desideri del sistema di potere dominante, ai padroni del vapore e al vincolo esterno europeo in base alla versione italiota, che prevede subalternità. Non ci stancheremo di dirlo: l’Alternativa c’è!”.
Ribattendo a Di Maio, Cabras accenna non solo ad una visione radicalmente diversa, ma anche alla nascita di un gruppo parlamentare alla Camera e al Senato che si chiamerà appunto “L’Alternativa c’è”.
Ne fanno parte un pugno di deputati e senatori che ancora non possono conformarsi come gruppo parlamentare autonomo, a causa dei regolamenti delle due Camere, ma che a questo obiettivo stanno lavorando. Per ora sono una componente del Gruppo Misto.
Rispondendo alle domande di Agata Iacono su L’Antidiplomatico, alcuni dei senatori hanno cominciato a delineare la fisionomia del gruppo “L’Alternativa c’è”.
Il senatore Mattia Crucioli ha così riassunto i punti cardine programmatici del nuovo gruppo: “Un europeismo non fideistico e ben attento al reale interesse del popolo italiano. Lotta all’austerità, alle diseguaglianze e alle privatizzazioni, tutela dei beni pubblici”.
Ma a chi intende parlare e con chi vuole interloquire il nuovo gruppo “L’Alternativa c’è”? Secondo il senatore Fabrizio Ortis “A quella parte della società che pensa si possa interrompere il processo di trasformazione dei cittadini in consumatori, e a chiunque voglia portare al centro della scena politica quel nuovo umanesimo di cui parlava Conte prima di essere defenestrato da Palazzo Chigi”.
Ma Tina non è mai stata una prospettiva affascinante, soprattutto quando ha voluto dichiarare che con essa era “finita la storia”. Al contrario è la gabbia ideologica e politica da rompere.
La pandemia di Covid-19, e la crisi di civilizzazione nei paesi a capitalismo avanzato che l’ha preceduta, hanno rivelato tutte le vulnerabilità del sistema dominante e fatto riemergere con forza proprio la necessità di una alternativa. Ed è chiaro che gli antichi architravi dell’ideologia grillina non possono essere semplicemente “conservati” in opposizione diretta al padre fondatore.
La definizione che i parlamentari fuoriusciti dal M5S si sono dati – L’Alternativa c’è – appare pertanto estremamente impegnativa. Adesso hanno una grande responsabilità.
Fonte
26/02/2021
Draghi comincia a scoprire di non essere un drago...
La prima regola che ti insegnano i professori bravi, già al liceo, è “agli esami, parla soltanto di quello che hai studiato davvero; non ti buttare ad indovinare”. Più drastico e serio, il comandamento di Mao Zedong: “chi non ha fatto inchiesta non ha diritto di parola”.
Altrimenti ti esponi a figuracce come quella del neo sottosegretario leghista all’istruzione – all’istruzione! – Rossano Sasso, che spara una citazione da Topolino attribuendola a Dante. Ognuno ha il suo curriculum letterario, certo, ma il silenzio è d’oro, se non sai niente di una certa materia...
Coi parvenu della politica parlamentare è fin troppo facile sparare a palle incatenate, ma se ti chiami Mario Draghi dovresti essere un po’ più accorto. Non è che ti puoi appellare alla mancanza di esperienza...
I media hanno servilmente glissato sulla stupidaggine pericolosa che ha proposto addirittura in sede di Consiglio Europeo (il vertice dei capi di stato e di governo), aprendo alla possibilità di vaccinare le persone soltanto con le prime dosi, invece che due, in modo da coprire una platea più vasta.
Persino una immunologa molto “democratica” e ammiratrice del neo presidente del consiglio, come Antonella Viola, è stata costretta a balzare sulla sedia.
“Draghi ha azzardato a dire di somministrare una sola dose. Ha fatto un gravissimo errore. Non si deve giocare a dadi con la salute delle persone“. La spiegazione scientifica è semplice, per chi come lei conosce la materia:
“Con una sola dose di vaccino avrò pochi anticorpi che spariscono rapidamente. Ci sono due grandi problemi: uno è quello di salute pubblica l’altro è quello di metodo scientifico E noi ci possiamo basare sull’evidenza o sull’intuito. L’idea di vaccinare con una sola dose è intuitiva. Ma non ci sono dati scientifici per dire che così proteggiamo adeguatamente i vaccinati. C’è invece evidenza che potremmo favorire lo sviluppo di varianti“.
Che è insomma un modo educato di dire “ma di che parli? Informati, prima”.
Perché in medicina (come in fisica e altre “scienze dure”) non sempre la metà di una grandezza (una dose invece di due) equivale davvero alla metà. Quella è un’idea che può venire in mente a un matematico, oppure a un ragioniere e persino a un banchiere: “mezzo stipendio è meglio che niente”, così come “mezzo pasto è meglio che niente”.
In sede di virologia, invece, come spiega anche la prof. Viola, “la metà” può equivalere addirittura a niente, dopo qualche settimana o mese. Dal mondo matematico a quello fisico, il salto può essere infinito. E quell’idea di “dividere” il dosaggio diventa una fesseria degna di Boris Johnson o Bolsonaro, non una strategia con possibilità di riuscita.
L’esordio in Europa di Draghi en travesti – da banchiere a premier non eletto – ha comunque rivelato debolezze strategiche persino inaspettate, sia in lui sia nell’intera Unione Europea.
Per tutti i paesi il problema è la mancanza di vaccini. Ci si può girare intorno quanto si vuole, seminare i discorsi con “perle di saggezza” generica, come “Dobbiamo mantenere rigorose restrizioni e nel contempo intensificare gli sforzi per accelerare la fornitura dei vaccini”. Ma se materialmente non hai le dosi necessarie, quelle resteranno parole.
E la tua credibilità come “salvatore della patria” scende...
Ma non è che l’insieme dei leader europei stia messa meglio. Nel comunicato finale si legge che “le vaccinazioni sono ormai cominciate in tutti gli Stati membri e, grazie alla nostra strategia vaccinale, tutti gli Stati hanno accesso ai vaccini. Ciononostante, dobbiamo accelerare con urgenza l’autorizzazione, la produzione e la distribuzione dei vaccini, nonchè le vaccinazioni”. Ossia parole senza conseguenze pratiche.
Da cui emerge persino qualche preoccupante angoscia. Se i capi di Stato europei sono costretti ad invocare “l’accelerazione dell’autorizzazione” ai vaccini che verranno presentati all’Ema, significa che la carenza di rifornimenti è tale da far loro chiedere “controlli frettolosi”, invece che ben fatti. Aumentando così i rischi...
Ancora peggio: nessuno stato della Ue possiede la capacità autonoma di produrre i vaccini anti-Covid. Né ha messo in campo fin qui – dopo un anno! – alcuna iniziativa pratica per dotarsi di quella capacità. E dunque sono costretti a scrivere che: “Sosteniamo gli ulteriori sforzi profusi dalla Commissione per collaborare con l’industria e con gli Stati membri al fine di aumentare la capacità dell’attuale produzione di vaccini nonché di adeguare i vaccini alle nuove varianti, secondo necessità“.
Lo traduciamo per chi non è abituato al linguaggio viscido delle burocrazie continentali: “Stiamo cercando di fare pressione sulle multinazionali del farmaco perché ne producano e ce ne diano di più”. Ma neanche un accenno all’unica “misura di guerra” che potrebbe cominciare a risolvere la situazione: requisire gli impianti adatti alla produzione di vaccini, sospendere la validità legale dei brevetti, espropriare chi si rifiuta di collaborare.
In guerra si fa così. Fabbriche di automobili modificano le linee di montaggio per sfornare carri armati. Fabbriche chimiche vengono riconvertite per produrre munizioni. Ecc. Altrimenti di sicuro perdi la guerra, ovvio.
Tutta l’Unione Europa invece resta in rispettosa adorazione delle multinazionali di Big Pharma, alzando – al massimo – il livello della protesta quando queste non fanno pervenire neanche i quantitativi scritti nei contratti (meno del 50%, ormai). E dire che diversi stabilimenti di produzione di quei vaccini sono in territorio europeo! In Belgio, in Francia, ecc; l’inventore del vaccino Pfizer, BionTech, è addirittura una società tedesca. Ma neanche la Germania riesce ad averne quanti ne servono.
Anche su questo terreno Draghi ha sostanzialmente sparato a salve. Ha proposto infatti di ridurre l’export delle dosi prodotte in quegli impianti. Una sorta di “sovranismo europeo” per disperazione: visto che le produciamo qui, teniamoci almeno quei quantitativi.
Ma si è sentito dare dalla Von der Leyen la più scontata delle risposte neoliberiste: “questa strada potrebbe rivelarsi un vicolo cieco a causa dei contratti” sottoscritti con le multinazionali.
Perché quelle comandano e gli Stati possono solo “chiedere”, pagare (con le tasse dei cittadini) e al massimo lamentarsi se neanche i contratti vengono rispettati.
Questa è la realtà attuale dell’Unione. E neanche un anno di pandemia ha fatto correggere una virgola di questa sudditanza alle imprese più grandi.
E in questo pantano Mario Draghi ha cominciato a misurare la distanza abissale tra il suo ruolo precedente e quello attuale.
Da presidente della Bce poteva stoppare la speculazione sui mercati soltanto dicendo che avrebbe fatto whatever it takes per difendere la stabilità dell’euro. Era credibile perché una banca centrale di quelle dimensioni può in effetti stampare quanto denaro serve o vuole, in un fiat, a volontà, per annientare qualsiasi speculazione privata (che ha munizioni magari grandi, ma non estendibili a seconda delle necessità o volontà). Nel mondo magico delle monete e della finanza, se po’ ffà...
Tutt’altra cosa, invece, quando si deve affrontare una pandemia. Qui servono dosi di vaccino, almeno un miliardo (per mezzo miliardo di cittadini europei).
O sei in grado di produrli da solo o devi comprarli dai produttori privati. O sei davvero “sovrano” (“senza nessuno sopra di te”) nelle tue scelte, o sei dipendente da quelle altrui.
O ti imponi con la forza del potere pubblico, dello Stato, o resti uno schiavo del privato.
Benvenuto nel mondo dell’economia reale, mr. Draghi. Qui la finanza non aiuta granché, anzi. Qui servono cose materiali, prodotti fisici in grande quantità, che richiedono tempo per essere fabbricati. Qui non basta parlare o bloccare i bancomat, come fatto contro i greci nel 2015.
Qui, o si combatte contro lo strapotere dei “privati” oppure si resta servi o schiavi.
Di certo non draghi...
Fonte
Altrimenti ti esponi a figuracce come quella del neo sottosegretario leghista all’istruzione – all’istruzione! – Rossano Sasso, che spara una citazione da Topolino attribuendola a Dante. Ognuno ha il suo curriculum letterario, certo, ma il silenzio è d’oro, se non sai niente di una certa materia...
Coi parvenu della politica parlamentare è fin troppo facile sparare a palle incatenate, ma se ti chiami Mario Draghi dovresti essere un po’ più accorto. Non è che ti puoi appellare alla mancanza di esperienza...
I media hanno servilmente glissato sulla stupidaggine pericolosa che ha proposto addirittura in sede di Consiglio Europeo (il vertice dei capi di stato e di governo), aprendo alla possibilità di vaccinare le persone soltanto con le prime dosi, invece che due, in modo da coprire una platea più vasta.
Persino una immunologa molto “democratica” e ammiratrice del neo presidente del consiglio, come Antonella Viola, è stata costretta a balzare sulla sedia.
“Draghi ha azzardato a dire di somministrare una sola dose. Ha fatto un gravissimo errore. Non si deve giocare a dadi con la salute delle persone“. La spiegazione scientifica è semplice, per chi come lei conosce la materia:
“Con una sola dose di vaccino avrò pochi anticorpi che spariscono rapidamente. Ci sono due grandi problemi: uno è quello di salute pubblica l’altro è quello di metodo scientifico E noi ci possiamo basare sull’evidenza o sull’intuito. L’idea di vaccinare con una sola dose è intuitiva. Ma non ci sono dati scientifici per dire che così proteggiamo adeguatamente i vaccinati. C’è invece evidenza che potremmo favorire lo sviluppo di varianti“.
Che è insomma un modo educato di dire “ma di che parli? Informati, prima”.
Perché in medicina (come in fisica e altre “scienze dure”) non sempre la metà di una grandezza (una dose invece di due) equivale davvero alla metà. Quella è un’idea che può venire in mente a un matematico, oppure a un ragioniere e persino a un banchiere: “mezzo stipendio è meglio che niente”, così come “mezzo pasto è meglio che niente”.
In sede di virologia, invece, come spiega anche la prof. Viola, “la metà” può equivalere addirittura a niente, dopo qualche settimana o mese. Dal mondo matematico a quello fisico, il salto può essere infinito. E quell’idea di “dividere” il dosaggio diventa una fesseria degna di Boris Johnson o Bolsonaro, non una strategia con possibilità di riuscita.
L’esordio in Europa di Draghi en travesti – da banchiere a premier non eletto – ha comunque rivelato debolezze strategiche persino inaspettate, sia in lui sia nell’intera Unione Europea.
Per tutti i paesi il problema è la mancanza di vaccini. Ci si può girare intorno quanto si vuole, seminare i discorsi con “perle di saggezza” generica, come “Dobbiamo mantenere rigorose restrizioni e nel contempo intensificare gli sforzi per accelerare la fornitura dei vaccini”. Ma se materialmente non hai le dosi necessarie, quelle resteranno parole.
E la tua credibilità come “salvatore della patria” scende...
Ma non è che l’insieme dei leader europei stia messa meglio. Nel comunicato finale si legge che “le vaccinazioni sono ormai cominciate in tutti gli Stati membri e, grazie alla nostra strategia vaccinale, tutti gli Stati hanno accesso ai vaccini. Ciononostante, dobbiamo accelerare con urgenza l’autorizzazione, la produzione e la distribuzione dei vaccini, nonchè le vaccinazioni”. Ossia parole senza conseguenze pratiche.
Da cui emerge persino qualche preoccupante angoscia. Se i capi di Stato europei sono costretti ad invocare “l’accelerazione dell’autorizzazione” ai vaccini che verranno presentati all’Ema, significa che la carenza di rifornimenti è tale da far loro chiedere “controlli frettolosi”, invece che ben fatti. Aumentando così i rischi...
Ancora peggio: nessuno stato della Ue possiede la capacità autonoma di produrre i vaccini anti-Covid. Né ha messo in campo fin qui – dopo un anno! – alcuna iniziativa pratica per dotarsi di quella capacità. E dunque sono costretti a scrivere che: “Sosteniamo gli ulteriori sforzi profusi dalla Commissione per collaborare con l’industria e con gli Stati membri al fine di aumentare la capacità dell’attuale produzione di vaccini nonché di adeguare i vaccini alle nuove varianti, secondo necessità“.
Lo traduciamo per chi non è abituato al linguaggio viscido delle burocrazie continentali: “Stiamo cercando di fare pressione sulle multinazionali del farmaco perché ne producano e ce ne diano di più”. Ma neanche un accenno all’unica “misura di guerra” che potrebbe cominciare a risolvere la situazione: requisire gli impianti adatti alla produzione di vaccini, sospendere la validità legale dei brevetti, espropriare chi si rifiuta di collaborare.
In guerra si fa così. Fabbriche di automobili modificano le linee di montaggio per sfornare carri armati. Fabbriche chimiche vengono riconvertite per produrre munizioni. Ecc. Altrimenti di sicuro perdi la guerra, ovvio.
Tutta l’Unione Europa invece resta in rispettosa adorazione delle multinazionali di Big Pharma, alzando – al massimo – il livello della protesta quando queste non fanno pervenire neanche i quantitativi scritti nei contratti (meno del 50%, ormai). E dire che diversi stabilimenti di produzione di quei vaccini sono in territorio europeo! In Belgio, in Francia, ecc; l’inventore del vaccino Pfizer, BionTech, è addirittura una società tedesca. Ma neanche la Germania riesce ad averne quanti ne servono.
Anche su questo terreno Draghi ha sostanzialmente sparato a salve. Ha proposto infatti di ridurre l’export delle dosi prodotte in quegli impianti. Una sorta di “sovranismo europeo” per disperazione: visto che le produciamo qui, teniamoci almeno quei quantitativi.
Ma si è sentito dare dalla Von der Leyen la più scontata delle risposte neoliberiste: “questa strada potrebbe rivelarsi un vicolo cieco a causa dei contratti” sottoscritti con le multinazionali.
Perché quelle comandano e gli Stati possono solo “chiedere”, pagare (con le tasse dei cittadini) e al massimo lamentarsi se neanche i contratti vengono rispettati.
Questa è la realtà attuale dell’Unione. E neanche un anno di pandemia ha fatto correggere una virgola di questa sudditanza alle imprese più grandi.
E in questo pantano Mario Draghi ha cominciato a misurare la distanza abissale tra il suo ruolo precedente e quello attuale.
Da presidente della Bce poteva stoppare la speculazione sui mercati soltanto dicendo che avrebbe fatto whatever it takes per difendere la stabilità dell’euro. Era credibile perché una banca centrale di quelle dimensioni può in effetti stampare quanto denaro serve o vuole, in un fiat, a volontà, per annientare qualsiasi speculazione privata (che ha munizioni magari grandi, ma non estendibili a seconda delle necessità o volontà). Nel mondo magico delle monete e della finanza, se po’ ffà...
Tutt’altra cosa, invece, quando si deve affrontare una pandemia. Qui servono dosi di vaccino, almeno un miliardo (per mezzo miliardo di cittadini europei).
O sei in grado di produrli da solo o devi comprarli dai produttori privati. O sei davvero “sovrano” (“senza nessuno sopra di te”) nelle tue scelte, o sei dipendente da quelle altrui.
O ti imponi con la forza del potere pubblico, dello Stato, o resti uno schiavo del privato.
Benvenuto nel mondo dell’economia reale, mr. Draghi. Qui la finanza non aiuta granché, anzi. Qui servono cose materiali, prodotti fisici in grande quantità, che richiedono tempo per essere fabbricati. Qui non basta parlare o bloccare i bancomat, come fatto contro i greci nel 2015.
Qui, o si combatte contro lo strapotere dei “privati” oppure si resta servi o schiavi.
Di certo non draghi...
Fonte
Franco Cassano. Intellettuale libero e meridiano
«Essere comunista vuol dire “agire nel luogo dove la sorte ti ha gettato”; e rovesciare la sorte in destino comportandosi da individuo sociale, dalla coscienza enorme, all’altezza della specie. Comunista è colui che cerca l’attività che lo attrae, cerca il proprio “demone”; e una volta riconosciuto non lo lascia fuggir via. Come scrive Agnes Heller, nel senso comune l’azione è attribuita a chi sceglie. Il comunista non sceglie cercando il consenso degli altri, men che mai quello elettorale. Il comunista sceglie la libertà.»
Così, Franco Piperno introduceva nel 2014, il volume collettaneo, Briganti o emigranti. Sud e movimenti fra conricerca e studi subalterni, a cura di Orizzonti Meridiani, una rete di realtà sociali e politiche del Mezzogiorno, il cui scopo era quello di istruire una cassetta di attrezzi adoperati dai movimenti sociali meridionali.
Le molteplici riflessioni contenute in questo volume muovevano anche dagli studi sul Mezzogiorno iniziati a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, e tesi a una sua reinterpretazione al di fuori dei parametri del “meridionalismo”.
Vale a dire oltre quella corrente di pensiero, di politiche e di interventi che, nata dal progetto post-unitario di eliminazione del divario tra Nord e Sud, ha finito per fare del Sud l’antitesi del Nord e lo ha giudicato sulla base della sua incapacità e resistenza a diventare come il Nord, per rimanere al confronto arretrato, sottosviluppato e carente in «tradizioni civiche».
Queste posizioni, anche note come “nuovo meridionalismo” per aver messo in discussione il meridionalismo classico, erano accomunate dalla convinzione che è necessario considerare il Mezzogiorno nel suo specifico contesto storico, sociale, geografico e ambientale e nella sua diversità economica interna – cioè le sue varie “economie” – per poterlo capire e individuare le politiche adatte a promuoverne la crescita economica e sociale al di là delle tradizionali politiche di “sviluppo”.
Nondimeno, in “Briganti o emigranti. Sud e movimenti fra conricerca e studi subalterni”, si è cercato di andare oltre e contro queste posizioni, superandone i limiti a cominciare dai blocchi esperienziali e politici che molti degli studiosi – non tutti a dir il vero – del “nuovo meridionalismo” proponevano, cioè i contenitori politico-elettorali oppure gli stessi partiti che, nei paesi del Mezzogiorno – della «polpa» e soprattutto «dell’osso» – adoperano il clientelismo come dispositivo di egemonia e di garanzia degli interessi di poteri locali, e ancor più di conservazione dello status quo.
Il che fa il paio con il gattopardismo tipico delle classi intellettuali e dirigenti meridionali: «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima». Anche e soprattutto nel pensiero.
Essi smentivano, così, quella che era l’idea di autonomia tanto professata nei loro studi, e che in realtà è espressione del senso di libertà e autodeterminazione che le comunità del Sud, in determinati momenti della loro storia, hanno radicalmente incarnato: esemplari, fra le tante, sono state le lotte lucane del 2003 contro l’insediamento delle scorie nucleari a Scanzano, le mobilitazioni per un’altra gestione della crisi ambientale in Campania o le lotte per un altro sviluppo nel brindisino, No Tap e gasdotto.
Nel solco delle riflessioni di quel volume, il «pensiero meridiano» elaborato da Franco Cassano, nell’omonimo libro del 1996, è stato certamente un attrezzo apripista di un punto di vista autonomo sul Mezzogiorno e sulla molteplicità dello stesso.
Cassano ha rivalutato quelle caratteristiche del Sud che erano state stigmatizzate dal meridionalismo e viste come patologie che ne hanno impedito la crescita e la modernizzazione. Il pensiero di Cassano si fonda su due idee principali: gli interventi imposti sul Sud, finalizzati a rimediare allo scarto con il Nord, invece di agire da cura, hanno aggravato queste patologie – in certi casi le avrebbero persino determinate – e promosso il sottosviluppo; il Sud deve diventare soggetto di pensiero, cioè deve pensarsi da sé per poter riconquistare la propria autonomia.
Perché questo accada, esso deve operare un’inversione di marcia. In primo luogo, per Cassano, deve abbandonare la corsa allo sviluppo inteso come tecnicizzazione, industrializzazione e accumulo capitalistico, sviluppo che si è cercato di realizzare, senza successo, «prostituendo il territorio e l’ambiente, i luoghi pubblici e le istituzioni» e ricorrendo ad attività criminali, quando sono falliti metodi e forme legali.
In secondo luogo, deve aspirare a un diverso ideale di modernità e di sviluppo e creare questo ideale attingendo al proprio patrimonio culturale e al proprio deposito di risorse e valori, quelle risorse e quei valori che sono stati finora visti come «vincoli, limiti e vizi» dai sostenitori della modernità e che oggi esistono solo in forme disperse o malate.
Il primo valore che fa da fondamento agli altri è la lentezza, ciò che permette di percepire la vita (umana e naturale) nelle sue gradazioni e nella sua molteplicità, nelle sue relazioni e nella prossimità fisica dei suoi soggetti. Ciò che rende questo pensiero “meridiano” è la sua collocazione geografica al punto di incontro tra la terra e il mare – la costa – una collocazione di confine che simboleggia «la difficoltà di stare in un solo luogo», la coesistenza di più patrie e, quindi, la garanzia di identità complesse e di riscatto da soffocanti campanilismi.
«Il Mediterraneo e le sue coste garantiscono il viaggio ma anche il ritorno»: proprio perché mare interno e di frontiera, il Mediterraneo, e la sua gente, potrebbero fare da baluardo sia contro lo sradicamento e la perdita di identità postmoderna rappresentati dall’oceano e dall’esodo, sia contro l’assoluto e pernicioso radicamento rappresentato dalla terraferma, e perciò fare da argine al degrado e alla dismisura dell’Occidente.
Orizzonti Meridiani, per costituzione, è andata oltre e contro le traduzioni politiche di Cassano e del suo laboratorio di pensiero. Le sue posizioni molto spesso sono state incomprensibili rispetto proprio a quanto professato, ad esempio, il voto a favore del Jobs Act; sebbene egli abbia sempre mantenuto un confronto teso e critico con la sinistra riformista, tanto da recuperare negli ultimi anni l’arnese del Socialismo. Tuttavia, ci piace ricordarlo proprio per quello sguardo autonomo e molteplice, largo e profondo, sul Sud e sui Sud.
Così come ci piace ricordarne gli svolgimenti del suo «pensiero meridiano» anche negli studi di Mario Alcaro, il quale ha ricercato proprio le conformazioni comportamentali di un’identità meridionale: la pratica del dono e i legami comunitari, la natura, la «mentalità materna», la memoria e il dialogo con i defunti. La crisi della società industriale e capitalistica ha dimostrato che queste forme di vita precapitalistiche non sono da considerarsi «tare e cascami spirituali» del passato, bensì delle virtù da ripristinare perché il Sud possa rifondarsi e trovare un ruolo.
Per tornare da dove siamo partiti, Franco Piperno in “Vento del meriggio. Insorgenze meridionali e postmodernità nel Mezzogiorno”, documenta i tentativi di ricostruzione dell’anima meridionale nel decennio intercorso tra l’emergere del «pensiero meridiano» – e degli studi postcoloniali e i cultural studies – e il nuovo secolo.
Piperno, come indica già nella Prefazione a “Briganti o emigranti”, illumina quelle che è la potenza di trasformare le idee in azione locale, «la prassi politica del pensiero meridiano», che consiste in primo luogo nella «pratica di autorganizzazione delle città rurali che riprende senza saperlo il grande tema dell’estinzione dello Stato, dell’autonomia del Comune e dell’auto-governo»; e in secondo luogo nella «dimensione dell’individuo sociale», che concerne la capacità collettiva di rifiutare il lavoro salariato e ritornare alla concezione del lavoro come vocazione e fatica piacevole, che dovrebbe condurre alla buona vita, invertendo la realtà corrente di «mala-vita», cioè di una vita sprecata in attività lavorative tediose e stupide che non corrispondono alle passioni personali.
Ci piace ricordare Franco Cassano per quella «luce intellettuale» che ha illuminato l’autonomia di pensiero del Mezzogiorno, dischiudendo a nuovi punti di vista, anche se l’autonomia politica e materiale è enucleata nella storia delle lotte, piccole e grandi, di liberazione dalla posizione subalterna appiccicata al Sud, e dalle pratiche, micro e macro, di autorganizzazione del comune nelle comunità meridionali.
Fonte
Così, Franco Piperno introduceva nel 2014, il volume collettaneo, Briganti o emigranti. Sud e movimenti fra conricerca e studi subalterni, a cura di Orizzonti Meridiani, una rete di realtà sociali e politiche del Mezzogiorno, il cui scopo era quello di istruire una cassetta di attrezzi adoperati dai movimenti sociali meridionali.
Le molteplici riflessioni contenute in questo volume muovevano anche dagli studi sul Mezzogiorno iniziati a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, e tesi a una sua reinterpretazione al di fuori dei parametri del “meridionalismo”.
Vale a dire oltre quella corrente di pensiero, di politiche e di interventi che, nata dal progetto post-unitario di eliminazione del divario tra Nord e Sud, ha finito per fare del Sud l’antitesi del Nord e lo ha giudicato sulla base della sua incapacità e resistenza a diventare come il Nord, per rimanere al confronto arretrato, sottosviluppato e carente in «tradizioni civiche».
Queste posizioni, anche note come “nuovo meridionalismo” per aver messo in discussione il meridionalismo classico, erano accomunate dalla convinzione che è necessario considerare il Mezzogiorno nel suo specifico contesto storico, sociale, geografico e ambientale e nella sua diversità economica interna – cioè le sue varie “economie” – per poterlo capire e individuare le politiche adatte a promuoverne la crescita economica e sociale al di là delle tradizionali politiche di “sviluppo”.
Nondimeno, in “Briganti o emigranti. Sud e movimenti fra conricerca e studi subalterni”, si è cercato di andare oltre e contro queste posizioni, superandone i limiti a cominciare dai blocchi esperienziali e politici che molti degli studiosi – non tutti a dir il vero – del “nuovo meridionalismo” proponevano, cioè i contenitori politico-elettorali oppure gli stessi partiti che, nei paesi del Mezzogiorno – della «polpa» e soprattutto «dell’osso» – adoperano il clientelismo come dispositivo di egemonia e di garanzia degli interessi di poteri locali, e ancor più di conservazione dello status quo.
Il che fa il paio con il gattopardismo tipico delle classi intellettuali e dirigenti meridionali: «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima». Anche e soprattutto nel pensiero.
Essi smentivano, così, quella che era l’idea di autonomia tanto professata nei loro studi, e che in realtà è espressione del senso di libertà e autodeterminazione che le comunità del Sud, in determinati momenti della loro storia, hanno radicalmente incarnato: esemplari, fra le tante, sono state le lotte lucane del 2003 contro l’insediamento delle scorie nucleari a Scanzano, le mobilitazioni per un’altra gestione della crisi ambientale in Campania o le lotte per un altro sviluppo nel brindisino, No Tap e gasdotto.
Nel solco delle riflessioni di quel volume, il «pensiero meridiano» elaborato da Franco Cassano, nell’omonimo libro del 1996, è stato certamente un attrezzo apripista di un punto di vista autonomo sul Mezzogiorno e sulla molteplicità dello stesso.
Cassano ha rivalutato quelle caratteristiche del Sud che erano state stigmatizzate dal meridionalismo e viste come patologie che ne hanno impedito la crescita e la modernizzazione. Il pensiero di Cassano si fonda su due idee principali: gli interventi imposti sul Sud, finalizzati a rimediare allo scarto con il Nord, invece di agire da cura, hanno aggravato queste patologie – in certi casi le avrebbero persino determinate – e promosso il sottosviluppo; il Sud deve diventare soggetto di pensiero, cioè deve pensarsi da sé per poter riconquistare la propria autonomia.
Perché questo accada, esso deve operare un’inversione di marcia. In primo luogo, per Cassano, deve abbandonare la corsa allo sviluppo inteso come tecnicizzazione, industrializzazione e accumulo capitalistico, sviluppo che si è cercato di realizzare, senza successo, «prostituendo il territorio e l’ambiente, i luoghi pubblici e le istituzioni» e ricorrendo ad attività criminali, quando sono falliti metodi e forme legali.
In secondo luogo, deve aspirare a un diverso ideale di modernità e di sviluppo e creare questo ideale attingendo al proprio patrimonio culturale e al proprio deposito di risorse e valori, quelle risorse e quei valori che sono stati finora visti come «vincoli, limiti e vizi» dai sostenitori della modernità e che oggi esistono solo in forme disperse o malate.
Il primo valore che fa da fondamento agli altri è la lentezza, ciò che permette di percepire la vita (umana e naturale) nelle sue gradazioni e nella sua molteplicità, nelle sue relazioni e nella prossimità fisica dei suoi soggetti. Ciò che rende questo pensiero “meridiano” è la sua collocazione geografica al punto di incontro tra la terra e il mare – la costa – una collocazione di confine che simboleggia «la difficoltà di stare in un solo luogo», la coesistenza di più patrie e, quindi, la garanzia di identità complesse e di riscatto da soffocanti campanilismi.
«Il Mediterraneo e le sue coste garantiscono il viaggio ma anche il ritorno»: proprio perché mare interno e di frontiera, il Mediterraneo, e la sua gente, potrebbero fare da baluardo sia contro lo sradicamento e la perdita di identità postmoderna rappresentati dall’oceano e dall’esodo, sia contro l’assoluto e pernicioso radicamento rappresentato dalla terraferma, e perciò fare da argine al degrado e alla dismisura dell’Occidente.
Orizzonti Meridiani, per costituzione, è andata oltre e contro le traduzioni politiche di Cassano e del suo laboratorio di pensiero. Le sue posizioni molto spesso sono state incomprensibili rispetto proprio a quanto professato, ad esempio, il voto a favore del Jobs Act; sebbene egli abbia sempre mantenuto un confronto teso e critico con la sinistra riformista, tanto da recuperare negli ultimi anni l’arnese del Socialismo. Tuttavia, ci piace ricordarlo proprio per quello sguardo autonomo e molteplice, largo e profondo, sul Sud e sui Sud.
Così come ci piace ricordarne gli svolgimenti del suo «pensiero meridiano» anche negli studi di Mario Alcaro, il quale ha ricercato proprio le conformazioni comportamentali di un’identità meridionale: la pratica del dono e i legami comunitari, la natura, la «mentalità materna», la memoria e il dialogo con i defunti. La crisi della società industriale e capitalistica ha dimostrato che queste forme di vita precapitalistiche non sono da considerarsi «tare e cascami spirituali» del passato, bensì delle virtù da ripristinare perché il Sud possa rifondarsi e trovare un ruolo.
Per tornare da dove siamo partiti, Franco Piperno in “Vento del meriggio. Insorgenze meridionali e postmodernità nel Mezzogiorno”, documenta i tentativi di ricostruzione dell’anima meridionale nel decennio intercorso tra l’emergere del «pensiero meridiano» – e degli studi postcoloniali e i cultural studies – e il nuovo secolo.
Piperno, come indica già nella Prefazione a “Briganti o emigranti”, illumina quelle che è la potenza di trasformare le idee in azione locale, «la prassi politica del pensiero meridiano», che consiste in primo luogo nella «pratica di autorganizzazione delle città rurali che riprende senza saperlo il grande tema dell’estinzione dello Stato, dell’autonomia del Comune e dell’auto-governo»; e in secondo luogo nella «dimensione dell’individuo sociale», che concerne la capacità collettiva di rifiutare il lavoro salariato e ritornare alla concezione del lavoro come vocazione e fatica piacevole, che dovrebbe condurre alla buona vita, invertendo la realtà corrente di «mala-vita», cioè di una vita sprecata in attività lavorative tediose e stupide che non corrispondono alle passioni personali.
Ci piace ricordare Franco Cassano per quella «luce intellettuale» che ha illuminato l’autonomia di pensiero del Mezzogiorno, dischiudendo a nuovi punti di vista, anche se l’autonomia politica e materiale è enucleata nella storia delle lotte, piccole e grandi, di liberazione dalla posizione subalterna appiccicata al Sud, e dalle pratiche, micro e macro, di autorganizzazione del comune nelle comunità meridionali.
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Risultati della sperimentazione clinica del vaccino Soberana 02
Barbara Gallavotti è una brava biologa e divulgatrice scientifica, tanto da diventare autrice – fra gli altri – di SuperQuark, storica trasmissione televisiva inventata e diretta per anni da Piero Angela. Detto senza riserve, la parte migliore della televisione, un autentico “casco di ossigeno” in mezzo ai miasmi...
La sua competenza è al di sopra di ogni sospetto, e dunque la scivolata in cui è incorsa durante la puntata del 23 febbraio, in DiMartedì, non può essere imputata all’approssimazione. Come i nostri lettori sapranno, Gallavotti ha contestato a Marta Collot la definizione di “vaccino” per Soberana, in corso di sviluppo a Cuba, affermando che “era in fase 1” e dunque era solo “una speranza di vaccino”.
Potremmo rispondere che in Italia, invece, non “abbiamo neanche la speranza” di un vaccino, ma una risposta del genere può andar bene in un dibattito televisivo, non ragionando scientificamente.
Sui social, il giorno dopo, Barbara Gallavotti ha ammesso di essere incappata in una “svista”, perché Soberana ha completato anche la “fase 2” dell’iter di verifica clinica e sta iniziando la terza e definitiva. Ma che “comunque non cambia la sostanza, quello cubano è ancora una speranza di vaccino“, pur augurandosi – e ci mancherebbe – che “diventi una certezza“.
Per una persona con le sue conoscenze ciò significa che, a meno di sorprese imprevedibili (sempre possibili, nel procedere concreto dell’attività scientifica), “ci siamo quasi”. Qualcosa di molto più materiale di una “speranza”, insomma, anche se non ancora una “certezza” confermata dalla doverosa peer review.
Questo per dire che tra “speranza” e “certezza” la strada è lunga, ma nel valutare un progetto di ricerca si deve vedere se ci si trova più vicini ai “primi passi” oppure agli ultimi. E Soberana 02 è sicuramente più vicino alla meta.
Abbiamo già spiegato a nostro modo la “svista” di Gallavotti, addebitandola a “prudenza geostrategica”. Insomma, di Cuba e di altri paesi variamente socialisti non si deve parlar bene in nessun caso, sulle principali tv italiane. Lo sanno tutti i protagonisti abituali dei talk show, lo sanno meglio di tutti i conduttori, in contatto diretto con la proprietà (La7 fa parte del gruppo Cairo-Corriere della Sera). Da questo non si può derogare. Neanche uno scienziato di valore se lo può permettere.
E per fortuna che siamo un paese dove vige, in teoria, la “libertà di espressione”... Sul vaccino di Cuba, da parte nostra, pubblichiamo qui un articolo recentissimo apparso sul quotidiano argentino Pagina 12, che dà conto degli ultimi sviluppi.
La sua competenza è al di sopra di ogni sospetto, e dunque la scivolata in cui è incorsa durante la puntata del 23 febbraio, in DiMartedì, non può essere imputata all’approssimazione. Come i nostri lettori sapranno, Gallavotti ha contestato a Marta Collot la definizione di “vaccino” per Soberana, in corso di sviluppo a Cuba, affermando che “era in fase 1” e dunque era solo “una speranza di vaccino”.
Potremmo rispondere che in Italia, invece, non “abbiamo neanche la speranza” di un vaccino, ma una risposta del genere può andar bene in un dibattito televisivo, non ragionando scientificamente.
Sui social, il giorno dopo, Barbara Gallavotti ha ammesso di essere incappata in una “svista”, perché Soberana ha completato anche la “fase 2” dell’iter di verifica clinica e sta iniziando la terza e definitiva. Ma che “comunque non cambia la sostanza, quello cubano è ancora una speranza di vaccino“, pur augurandosi – e ci mancherebbe – che “diventi una certezza“.
Per una persona con le sue conoscenze ciò significa che, a meno di sorprese imprevedibili (sempre possibili, nel procedere concreto dell’attività scientifica), “ci siamo quasi”. Qualcosa di molto più materiale di una “speranza”, insomma, anche se non ancora una “certezza” confermata dalla doverosa peer review.
Questo per dire che tra “speranza” e “certezza” la strada è lunga, ma nel valutare un progetto di ricerca si deve vedere se ci si trova più vicini ai “primi passi” oppure agli ultimi. E Soberana 02 è sicuramente più vicino alla meta.
Abbiamo già spiegato a nostro modo la “svista” di Gallavotti, addebitandola a “prudenza geostrategica”. Insomma, di Cuba e di altri paesi variamente socialisti non si deve parlar bene in nessun caso, sulle principali tv italiane. Lo sanno tutti i protagonisti abituali dei talk show, lo sanno meglio di tutti i conduttori, in contatto diretto con la proprietà (La7 fa parte del gruppo Cairo-Corriere della Sera). Da questo non si può derogare. Neanche uno scienziato di valore se lo può permettere.
E per fortuna che siamo un paese dove vige, in teoria, la “libertà di espressione”... Sul vaccino di Cuba, da parte nostra, pubblichiamo qui un articolo recentissimo apparso sul quotidiano argentino Pagina 12, che dà conto degli ultimi sviluppi.
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A pochi giorni dall’inizio dell’ultima fase della sperimentazione clinica di Soberana 02, che ha tutte le carte in regola per essere il primo vaccino completamente sviluppato in America Latina, la comunità scientifica cubana ha confermato di aspettarsi una produzione di 100 milioni di dosi per quest’anno.
“Si tratta di condividere con il mondo quello che siamo, la risposta che Cuba può dare al problema della pandemia“, ha riflettuto Rolando Pérez Rodríguez, dottore in Scienze Biologiche e Direttore Scienza e Innovazione dell’azienda BioCubaFarma, in dialogo con Página 12.
“Saremo in grado di vaccinare l’intera popolazione entro la fine dell’anno ma avremo anche la capacità produttiva per offrirla ad altri paesi che lo richiedono“, ha detto lo specialista. Alla fine di marzo, un altro dei vaccini cubani, Abdala, sviluppato dal Center for Genetic Engineering and Biotechnology (CIGB), si unirà alla terza fase della sperimentazione clinica.
BioCubaFarma, fondata nel 2012, è una società statale che riunisce 32 aziende del settore biotecnologico e dell’industria farmaceutica cubana. Con 20mila lavoratori, esporta più di 300 prodotti in 50 paesi e ha al suo attivo circa 700 cartelle cliniche. Da quando il coronavirus ha iniziato a diffondersi in tutto il mondo, le sue risorse si sono concentrate sulla gestione della pandemia.
Da un lato, lo sviluppo di vaccini – quattro dei quali in fase avanzata – e dall’altro la produzione di farmaci per affrontare le infezioni e gli sforzi per aumentare la capacità diagnostica, che hanno portato al raggiungimento di una delle più basse mortalità nel mondo – con solo 300 morti in totale fino a questo lunedì – nonostante l’aumento dei contagi nelle ultime settimane, quando da 12mila casi, Cuba ne aveva più di 45mila.
Perché sviluppare il tuo vaccino?
Diversi motivi convergono. A Cuba, uno dei punti di forza dell’industria biotecnologica è proprio lo sviluppo dei vaccini. Inoltre, dal momento in cui si sono iniziati potenziali accordi nel resto del mondo, a prezzi altissimi, per acquistare vaccini che ancora non esistevano, ci siamo resi conto che non lo avremmo raggiunto.
Per noi il blocco economico degli Stati Uniti, soprattutto in questo ultimo periodo – durante il governo di Donald Trump – complica l’accesso a determinati prodotti e non sempre riusciamo a raggiungere il fornitore più adatto, questo si aggiunge al fatto che stiamo vivendo un carenza globale di alcune forniture, come le siringhe.
Nonostante questa difficoltà, abbiamo fatto progressi. L’idea del vaccino è quella di poter dimostrare che proprio come Cuba ha bisogno del resto del mondo, può anche contribuire molto.
Finora, tra le decine di indagini per sviluppare un antigene contro il coronavirus, sono in sviluppo quattro vaccini cubani. Due sono responsabili del Finlay Vaccine Institute (IFV), Sovereign 02, con 150mila dosi pronte per l’inizio della terza fase di sperimentazione clinica, e Sovereign 01, ancora nella prima fase di sperimentazione umana. Gli altri due sono responsabili del CIGB: il Mambisa, diverso per la sua caratteristica di spray nasale, e l’Abdala, che inizia l’ultima fase di prove su larga scala sugli esseri umani alla fine di marzo.
I quattro vaccini candidati utilizzano la proteina RBD come antigene, che lega il corpo virale con la cellula umana. Sia per Abdala che per Sovereign 02 gli specialisti prevedono l’applicazione di tre dosi, con un programma di immunizzazione di 0-28-56 giorni, anche se per il primo valutano ancora un programma più breve, di 0-14-28 giorni.
Come sta il Soberana 02?
La cosa più importante è che sia una piattaforma sicura. Finora non ha mostrato effetti negativi. È un vaccino a subunità coniugata, basato sulla proteina RBD, che è una subunità di dominio della proteina S, con il termine “spike” (Spike), in inglese. RBD, legandosi al recettore, consente al virus di entrare nella cellula umana. Il vaccino inibisce questo legame, generando anticorpi neutralizzanti. Abbiamo scelto questo tipo di vaccino basato su proteine ricombinanti perché abbiamo esperienza con la stessa tecnologia in ricerche precedenti, contro altri virus, e le capacità non solo di indagare, ma di portare la produzione su scala industriale.
Quando inizierà ad essere somministrato in modo massiccio?
Per prima cosa dobbiamo passare attraverso la fase 3, che, poiché c’è più incidenza del virus nel paese, sebbene questa sia una cattiva notizia per la società, facilita lo studio clinico. Per questa fase produciamo 150 mila dosi.
Parallelamente, aumenteremo le prove di efficacia con prove in aree che sappiamo avere una maggiore complessità epidemiologica a causa della densità di popolazione. E nel frattempo stiamo facendo progressi nella protezione, immunizzando migliaia di persone.
Per il mese di giugno ci saranno i risultati, per la registrazione e l’uso massiccio del vaccino, e dal secondo semestre potremo immunizzare l’intera popolazione, fornendo anche le dosi ai Paesi che lo richiedono. La capacità produttiva che abbiamo per questo tipo di vaccino è davvero grande, che utilizza solo un quinto di un anticorpo.
Per questa fase della sperimentazione clinica, l’IFV – sotto l’orbita di BioCubaFarma – ha firmato un accordo con l’Istituto Pasteur dell’Iran, per inviare un contingente di dose di Sovereign 02 come parte delle sperimentazioni sui vaccini. L’Iran è uno dei paesi del Medio Oriente più colpiti dal coronavirus. La campagna di vaccinazione con il vaccino russo Sputnik V è iniziata all’inizio di questo mese.
Il Soberana 02 arriverà in Argentina?
Non vedo perché no. È ancora prematuro parlare di distribuzione, perché occorre vedere come viene registrato il vaccino e quali paesi accettano l’autorizzazione dell’ente locale. Sono molte le parti interessate nella regione, ma non sono ancora stati raggiunti accordi particolari.
Cuba ha una lunga tradizione nel campo delle biotecnologie: è stato il primo paese a eradicare la poliomielite, ha sviluppato il primo vaccino contro la meningite alla fine degli anni ’80 ed è riuscita a produrre il proprio vaccino contro l’epatite B nel 1990. Cos’era? La chiave dello sviluppo del vaccino?
L’esperienza in altre indagini ci ha permesso di avanzare con una certa velocità, ma è stato anche il prodotto del coordinamento tra le aziende e il Polo Scientifico, lavoriamo sempre in modo integrato, in una filiera produttiva che valorizza e accelera i progetti.
Nel caso dei due vaccini all’orizzonte – Soberana 02 e Abdala – i responsabili della produzione su larga scala sono il Centro Nazionale per le Biopreparazioni (Biocen) e il Laboratorio Aica, ma sempre in coordinamento con le altre istituzioni che sono state parte dell’indagine.
Oltre ai quattro vaccini in fase avanzata, ce ne sono altri in corso?
Sì, siamo favorevoli a non interrompere le indagini. Esistono già nuovi ceppi del virus che potrebbero essere resistenti ai vaccini, se continuiamo a indagare, possiamo prevenire il problema. Ci sono altri sviluppi su cui continuiamo a lavorare a livello preclinico, vaccini che potrebbero essere ricombinati per combattere i ceppi più resistenti.
Stiamo anche iniziando la seconda fase delle sperimentazioni del Sovereign 02 nella popolazione pediatrica, che a Cuba è considerata dalla scuola materna ai 19 anni, ma ora dobbiamo concentrarci sulla cosa più urgente, che è quella di avanzare rapidamente con la produzione in per iniziare la vaccinazione massiccia.
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Brancaccio - Esproprio? Persino Big Pharma se lo aspetta ma la politica non osa
RAI Radio Uno – Eresie – 26 febbraio 2021 – Il Consiglio europeo dedicato ai ritardi della campagna vaccinale è un’altra delusione: i brevetti non si toccano, le esportazioni di vaccini non si discutono e Draghi si limita solo a dire che le aziende ritardatarie non devono essere “scusate”. Eppure nei documenti di fine estate presentati agli investitori, Biontech e le altre aziende farmaceutiche si attendevano una reazione politica ben più aggressiva, arrivando addirittura a prevedere l’esproprio dei brevetti e degli stabilimenti produttivi. Mentre Big Pharma immaginava una risposta socialista alle sue inadempienze, la politica resta a tappetino e non osa. Il commento dell’economista Emiliano Brancaccio dell’Università del Sannio.
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Siria - Raid aereo statunitense. Con Biden si torna ai “vecchi tempi”
È passato poco più di un mese dall’insediamento di Biden alla Casa Bianca e gli Stati Uniti sono già tornati a bombardare in Siria. Ad essere colpita è stata l’area di Al Bukamal nell’est del paese. La motivazione è la rappresaglia per alcuni attacchi subiti dai militari Usa in Iraq, dunque non in Siria.
“Su ordine del presidente Biden, le forze militari statunitensi hanno condotto raid aerei contro infrastrutture utilizzate da gruppi militanti filo iraniani nell’est della Siria”, dichiara in una nota il portavoce del Pentagono John Kirby. “I raid – spiega – sono stati autorizzati in risposta ai recenti attacchi contro americani e personale della coalizione in Iraq”.
“Siamo fiduciosi sull’obiettivo che abbiamo attaccato, siamo convinti che era usato dalla stessa milizia sciita che ha condotto gli attacchi contro basi Usa in Iraq”, ha detto il segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin, secondo cui i bombardamenti hanno distrutto varie strutture localizzate ad un punto di controllo alla frontiera usate da una serie di gruppi di militanti di organizzazione come Kait’ib Hezbollah e Kait’ib Sayyid al-Shuhada. Alcuni giorni fa, una base militare Usa nell’enclave curda nel nord dell’Iraq era stata attaccata con razzi che avevano ucciso un agente della Cia, ferito altri agenti e diversi contractor, mentre lunedì alcuni razzi hanno colpito anche la Green Zone di Baghdad, che ospita l’ambasciata degli Stati Uniti e altre missioni diplomatiche.
Secondo la Cnn, i raid statunitensi sulla Siria arrivano mentre Washington e Teheran si stanno posizionando per i negoziati sul programma nucleare iraniano, complicando potenzialmente un processo già fragile.
Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Saeed Khatibzadeh ha negato qualsiasi legame con l’attacco del 15 febbraio a Erbil, e l’Iran non ha rivendicato nessuno degli altri attacchi.
Ma i bombardamenti ordinati dall’amministrazione Usa, potrebbero creare tensione con i congressisti che sosterrebbero l’agenda di Biden e del cui sostegno avrà bisogno per andare avanti. “Questo rende il presidente Biden il quinto presidente degli Stati Uniti consecutivo a ordinare bombardamenti in Medio Oriente”, ha detto il deputato Ro Khanna, un democratico della California nella commissione per gli affari esteri della Camera. “Non c’è assolutamente alcuna giustificazione per un presidente che autorizzi un attacco militare che non sia per autodifesa contro una minaccia imminente senza l’autorizzazione del Congresso. Dobbiamo districarci dal Medio Oriente, non complicare la nostra posizione. Il presidente non dovrebbe intraprendere queste azioni senza chiedere un’autorizzazione esplicita invece di fare affidamento su leggi di autorizzazione per l’uso delle forze militari ampie e obsolete”, ha detto Khanna. “Mi sono battuto contro la guerra senza fine con Trump, e mi batterò contro di essa anche se abbiamo un presidente democratico”.
Il vicepresidente della commissione esteri al Consiglio della Federazione russa, Vladimir Dzhabarov, ha condannato l’aggressione statunitense alla zona di confine iracheno-siriana, sottolineando che è “illegale e un attacco al territorio di uno Stato sovrano”. Il senatore russo ha detto a Sputnik che “Il bombardamento Usa della Siria è illegale perché si tratta di un attacco al territorio di uno Stato sovrano", sottolineando che questo passaggio è una grave escalation che potrebbe portare a un’escalation della situazione nell’intero regione. Ha avvertito che tali atti potrebbero portare a “un grande conflitto”. Questa aggressione arriva in un momento in cui unità dell’esercito arabo siriano stanno dando la caccia ai resti dei terroristi Daesh nella regione siriana di Al-Badia.
Colpisce indubbiamente il fatto che gli Usa abbiano bombardato la Siria per un attacco avvenuto in Iraq, sicuramente un modo per non mettere in difficoltà il governo iracheno, ma che indica una escalation nella regione da parte degli Stati Uniti, insomma un pessimo segnale – non certo imprevedibile – da parte della nuova amministrazione Biden.
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“Su ordine del presidente Biden, le forze militari statunitensi hanno condotto raid aerei contro infrastrutture utilizzate da gruppi militanti filo iraniani nell’est della Siria”, dichiara in una nota il portavoce del Pentagono John Kirby. “I raid – spiega – sono stati autorizzati in risposta ai recenti attacchi contro americani e personale della coalizione in Iraq”.
“Siamo fiduciosi sull’obiettivo che abbiamo attaccato, siamo convinti che era usato dalla stessa milizia sciita che ha condotto gli attacchi contro basi Usa in Iraq”, ha detto il segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin, secondo cui i bombardamenti hanno distrutto varie strutture localizzate ad un punto di controllo alla frontiera usate da una serie di gruppi di militanti di organizzazione come Kait’ib Hezbollah e Kait’ib Sayyid al-Shuhada. Alcuni giorni fa, una base militare Usa nell’enclave curda nel nord dell’Iraq era stata attaccata con razzi che avevano ucciso un agente della Cia, ferito altri agenti e diversi contractor, mentre lunedì alcuni razzi hanno colpito anche la Green Zone di Baghdad, che ospita l’ambasciata degli Stati Uniti e altre missioni diplomatiche.
Secondo la Cnn, i raid statunitensi sulla Siria arrivano mentre Washington e Teheran si stanno posizionando per i negoziati sul programma nucleare iraniano, complicando potenzialmente un processo già fragile.
Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Saeed Khatibzadeh ha negato qualsiasi legame con l’attacco del 15 febbraio a Erbil, e l’Iran non ha rivendicato nessuno degli altri attacchi.
Ma i bombardamenti ordinati dall’amministrazione Usa, potrebbero creare tensione con i congressisti che sosterrebbero l’agenda di Biden e del cui sostegno avrà bisogno per andare avanti. “Questo rende il presidente Biden il quinto presidente degli Stati Uniti consecutivo a ordinare bombardamenti in Medio Oriente”, ha detto il deputato Ro Khanna, un democratico della California nella commissione per gli affari esteri della Camera. “Non c’è assolutamente alcuna giustificazione per un presidente che autorizzi un attacco militare che non sia per autodifesa contro una minaccia imminente senza l’autorizzazione del Congresso. Dobbiamo districarci dal Medio Oriente, non complicare la nostra posizione. Il presidente non dovrebbe intraprendere queste azioni senza chiedere un’autorizzazione esplicita invece di fare affidamento su leggi di autorizzazione per l’uso delle forze militari ampie e obsolete”, ha detto Khanna. “Mi sono battuto contro la guerra senza fine con Trump, e mi batterò contro di essa anche se abbiamo un presidente democratico”.
Il vicepresidente della commissione esteri al Consiglio della Federazione russa, Vladimir Dzhabarov, ha condannato l’aggressione statunitense alla zona di confine iracheno-siriana, sottolineando che è “illegale e un attacco al territorio di uno Stato sovrano”. Il senatore russo ha detto a Sputnik che “Il bombardamento Usa della Siria è illegale perché si tratta di un attacco al territorio di uno Stato sovrano", sottolineando che questo passaggio è una grave escalation che potrebbe portare a un’escalation della situazione nell’intero regione. Ha avvertito che tali atti potrebbero portare a “un grande conflitto”. Questa aggressione arriva in un momento in cui unità dell’esercito arabo siriano stanno dando la caccia ai resti dei terroristi Daesh nella regione siriana di Al-Badia.
Colpisce indubbiamente il fatto che gli Usa abbiano bombardato la Siria per un attacco avvenuto in Iraq, sicuramente un modo per non mettere in difficoltà il governo iracheno, ma che indica una escalation nella regione da parte degli Stati Uniti, insomma un pessimo segnale – non certo imprevedibile – da parte della nuova amministrazione Biden.
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Lombardia - Le mani dei “privati” anche sulle vaccinazioni
In Lombardia, la campagna vaccinale va sempre peggio. Si procede con circa 10.000 dosi al giorno e ora si propone di dirottare i vaccini disponibili verso le provincie a maggior rischio, come quella di Brescia, tralasciando le persone che fanno parte della “fase 1 bis”, inventata di sana pianta da Fontana-Moratti-Bertolaso per giustificare i ritardi. Insomma, guerra tra poveri.
Peraltro, il gioco dei colori sta diventando davvero esasperante, la provincia di Brescia è in zona “arancione rafforzato”, un escamotage verbale per non dichiarare la “zona rossa” e lasciare aperta qualche attività commerciale in più. Insomma, storie di ordinaria vergogna e follia.
Ora, per accelerare i tempi di un piano vaccinale in realtà inesistente, con una sanità regionale esausta e al crollo, la giunta ha deciso di ricorrere, come al solito, alla “sussidiarietà” dei privati.
In pratica, gli ospedali privati saranno coinvolti nella somministrazione dei vaccini, naturalmente a pagamento. L’onnipresente gruppo San Donato (presieduto da Angelino Alfano e con Maroni consigliere d’amministrazione), ma anche Multimedica e l’Istituto Auxologico sono già pronti all’affare.
Infatti, si parla di un rimborso da parte della regione, cioè dei cittadini lombardi, di circa trenta euro a somministrazione, considerando le due dosi. Tutto ciò grazie all’incapacità delle strutture pubbliche, ormai distrutte dalle politiche della destra al potere, in Lombardia, da trent’anni.
Inoltre, per accelerare la campagna vaccinale, Letizia Moratti ha avuto un’altra idea geniale: somministrare solo una dose di vaccino senza data certa di richiamo, per vaccinare più persone possibili in tempi rapidi. Ciò garantirebbe, secondo Moratti, la possibilità di “continuare le normali attività”, vale a dire di produrre senza chiudere le fabbriche. In pratica, verrebbe così diffusa nella popolazione una falsa sensazione di “sicurezza”, che contribuirebbe enormemente alla diffusione del contagio.
Anche se è vero che alcuni articoli scientifici sostengono che una prima dose possa procurare una certa immunità, i protocolli approvati dall’Agenzia europea del farmaco e da quella italiana, anche sulla documentazione prodotta dalle case produttrici, indicano che almeno per i vaccini Pfitzer e Moderna è necessario effettuare il richiamo a tre settimane dalla prima somministrazione.
Resta quindi il ragionevole dubbio che seguendo il protocollo suggerito da Moratti si possa in realtà solo sprecare dosi di vaccino che non garantiranno un’effettiva copertura. È chiaro che l’obiettivo della giunta lombarda è quello di garantire il profitto delle imprese, non quello di tutelare la salute dei cittadini, mandati allo sbaraglio a lavorare in luoghi non controllati e su mezzi contaminati.
Il caos della sanità lombarda è totale, tra logica del profitto e della sussidiarietà, tra privatizzazioni e taglio delle strutture pubbliche.
Fonte
Peraltro, il gioco dei colori sta diventando davvero esasperante, la provincia di Brescia è in zona “arancione rafforzato”, un escamotage verbale per non dichiarare la “zona rossa” e lasciare aperta qualche attività commerciale in più. Insomma, storie di ordinaria vergogna e follia.
Ora, per accelerare i tempi di un piano vaccinale in realtà inesistente, con una sanità regionale esausta e al crollo, la giunta ha deciso di ricorrere, come al solito, alla “sussidiarietà” dei privati.
In pratica, gli ospedali privati saranno coinvolti nella somministrazione dei vaccini, naturalmente a pagamento. L’onnipresente gruppo San Donato (presieduto da Angelino Alfano e con Maroni consigliere d’amministrazione), ma anche Multimedica e l’Istituto Auxologico sono già pronti all’affare.
Infatti, si parla di un rimborso da parte della regione, cioè dei cittadini lombardi, di circa trenta euro a somministrazione, considerando le due dosi. Tutto ciò grazie all’incapacità delle strutture pubbliche, ormai distrutte dalle politiche della destra al potere, in Lombardia, da trent’anni.
Inoltre, per accelerare la campagna vaccinale, Letizia Moratti ha avuto un’altra idea geniale: somministrare solo una dose di vaccino senza data certa di richiamo, per vaccinare più persone possibili in tempi rapidi. Ciò garantirebbe, secondo Moratti, la possibilità di “continuare le normali attività”, vale a dire di produrre senza chiudere le fabbriche. In pratica, verrebbe così diffusa nella popolazione una falsa sensazione di “sicurezza”, che contribuirebbe enormemente alla diffusione del contagio.
Anche se è vero che alcuni articoli scientifici sostengono che una prima dose possa procurare una certa immunità, i protocolli approvati dall’Agenzia europea del farmaco e da quella italiana, anche sulla documentazione prodotta dalle case produttrici, indicano che almeno per i vaccini Pfitzer e Moderna è necessario effettuare il richiamo a tre settimane dalla prima somministrazione.
Resta quindi il ragionevole dubbio che seguendo il protocollo suggerito da Moratti si possa in realtà solo sprecare dosi di vaccino che non garantiranno un’effettiva copertura. È chiaro che l’obiettivo della giunta lombarda è quello di garantire il profitto delle imprese, non quello di tutelare la salute dei cittadini, mandati allo sbaraglio a lavorare in luoghi non controllati e su mezzi contaminati.
Il caos della sanità lombarda è totale, tra logica del profitto e della sussidiarietà, tra privatizzazioni e taglio delle strutture pubbliche.
Fonte
25/02/2021
Il governo matrioska
I “due governi in uno” procedono tranquillamente, al coperto della divisione dei compiti che li caratterizza e delle “distrazioni di massa” abilmente messe in piedi dalla “comunicazione istituzionale”. E intanto si fanno nella massima discrezione sia nomine decisive in Banca d’Italia sia per quanto riguarda i servizi segreti.
L’attenzione di tutti viene attirata sul solito, indecente, spettacolo dell’assalto alla diligenza, con 49 sottosegretari 49, scelti col manuale “Cencelli rinforzato”. C’era infatti da soddisfare non soltanto i vari partiti, ma le singole correnti di ognuno. E siccome mai come questa volta sono “tutti insieme”, la contrattazione è stata più scoperta e puzzolente del solito.
Nulla di tutto ciò sembra turbare il silenziosissimo monarca di Palazzo Chigi, che fin dal primo giorno ha assunto come suo obbiettivo esclusivo le “riforme di cui ha bisogno il paese” – quelle “necessarie” a rendere l’Italia un paese totalmente dipendente dalle filiere produttive in primo luogo tedesche e in parte anche francesi (e statunitensi, ci mancherebbe) – mentre “tutto il resto” viene lasciato agli appetiti e alle esigenze di visibilità della più inguardabile classe politica dell’Occidente.
In questo “tutto il resto” c’è anche la gestione della pandemia, che prosegue senza alcuna discontinuità nel solco criminale del governo Conte: “convivere con il virus”, decretando qualche lockdown temporaneo, ma senza campagna di tracciamenti di massa; qualche restrizione per alcune categorie commerciali, ma nessun limite per le attività industriali; e soprattutto nessuna iniziativa autonoma per produrre i vaccini, le cui forniture vengono sempre più spesso tagliate dalle varie multinazionali (Pfizer, Moderna, AstraZeneca), in violazione dei contratti firmati con l’Unione Europea.
I “due governi in uno” conoscono perfettamente i propri ambiti di amministrazione, e i partitucoli si assumono con entusiasmo il compito di occupare la scena mediatica con polemicuzze da due soldi. Pensano come sempre al “dopo”, quando dovranno presentarsi agli elettori con un carico di responsabilità identico per le decisioni sottoscritte tutti insieme, ma marcando una qualche differenza che proveranno a presentare come “decisiva”.
Ma intanto il “governo vero” – Mario Draghi e suoi uomini di fiducia nei ministeri-chiave – procedono, senza troppi riguardi per le norme costituzionali o, almeno, per le “convenzioni” rispettate in 75 anni di Repubblica nata dalla Resistenza.
Un primo allarme, due giorni fa, è stato lanciato da Angelo De Mattia, con un articolo su Milano Finanza. Il caso riguarda la nomina del nuovo Direttore della Banca d’Italia, visto che c’è da sostituire Daniele Franco, appena nominato ministro dell’economia.
“Sarà la prima volta in assoluto che l’attivazione dell’iter di approvazione, il quale termina con il decreto del Presidente della Repubblica, è promossa da due ex di Bankitalia, ai massimi livelli, il presidente del Consiglio Mario Draghi (ex governatore, ndr) e il ministro dell’economia Daniele Franco, che dovranno sottoporre al consiglio dei ministri per il prescritto parere le nomine”.
Il punto è decisamente delicato, perché a decidere la successione in Bankitalia (organo tecnico) non saranno dei “politici”, ma due ex altissimi funzionari di quell’organo tecnico medesimo.
Dice ancora De Mattia: “quanto ai rapporti che si stabiliranno tra governo (e in specie tra presidenza del consiglio e Tesoro) e Banca d’Italia, quest’ultima anche come parte del sistema di banche centrali, l’osservanza della netta distinzione e della reciproca indipendenza è fondamentale”.
Se tutti i protagonisti del rapporto (governo e Bankitalia) vengono dallo stesso giro (Bankitalia) qualche legittimo sospetto sulla “indipendenza” di quest’ultima può venire. Non solo ai bastian contrari come noi, ma persino – forse – ai partner europei.
“La collaborazione (tra diversi organi, ndr) è un dovere istituzionale. Ma ciò esclude eventuali commistioni o ‘porte girevoli’ ovvero una ‘visione allargata’ delle attribuzioni del potere esecutivo”. E invece proprio queste “porte girevoli” sono in azione sotto gli occhi di tutti.
Sul punto c’è da aggiungere due cose. Noi non siamo tra i sostenitori dell’indipendenza della banca centrale rispetto al governo di un Paese (c’è in effetti solo all’interno dell’Unione Europea, ma non negli Usa o in Gran Bretagna, né tantomeno in Cina), perché questa separazione – che fa data qui da noi dal 1981 – consegna l’emissione di titoli di stato, e dunque la dinamica del debito pubblico, ai capricci speculativi dei mercati finanziari.
Ma se c’è un quadro di regole istituzionali – “l’indipendenza per la Banca è l’adempimento allo specifico obbligo del Trattato Ue che, per l’Italia, ha il rango di norma costituzionale” – non possono essere proprio gli organi dello Stato a violarle...
L’aspetto paradossale è però in agguato: avendo propri uomini alla guida sia di se stessa sia del governo sembrerebbe che la Banca d’Italia sia ancora più “indipendente” dal potere politico. Lo è così tanto da sostituirlo, in effetti...
Ma non può essere taciuto il fatto che Bankitalia, allo stesso tempo, è una filiale nazionale della Banca Centrale Europea. Dunque, la catena delle matrioske del potere si allinea in questo modo: a) il governo italiano è in mano a uomini della Banca d’Italia, b) ma la Banca d'Italia dipende gerarchimente dalla Bce, c) ergo, il “governo vero” italiano è in mano alla Bce (al suo ex presidente, addirittura).
In secondo luogo, non è affatto secondario sapere che Angelo De Mattia non è un semplice giornalista, ma è stato a sua volta direttore centrale della Banca d’Italia. Uno che ha ricoperto il ruolo di Daniele Franco e conosce dunque benissimo i limiti istituzionali entro cui dovrebbe essere agita quella funzione.
Si potrebbe pensare che si tratta di una “sgrammaticatura” sfuggita a Mario Draghi sotto la pressione delle decisioni da prendere, o per carenza di alternative valide (ma non mancano davvero economisti di vaglia in grado di agire sotto la sua guida).
Ma il pensiero passa subito quando, come stamattina, ci si trova di fronte a una forzatura ancora più pesante e gravida di conseguenze: la nomina di Franco Gabrielli a sottosegretario con delega ai servizi segreti.
Quel posto – istituzionalmente – sta ad indicare il controllo sui “servizi” da parte dell’autorità politica di governo. O, in altri termini, la supremazia del potere civile su quello militare (i “servizi”, al di là delle qualifiche formali, sono forse il più militarizzato dei corpi dello Stato).
Dunque, logica vuole e consuetudine istituzionale ha sempre voluto, che quel posto fosse assegnato a un “civile”, o meglio ancora a un “politico” incaricato di seguire la scottante materia in nome e per conto del Presidente del Consiglio.
Franco Gabrielli è l’esatto contrario: poliziotto di lunghissimo corso, è stato direttore del Sisde – servizio segreto “interno”, che ha cambiato nome in Aisi proprio sotto la sua direzione – e poi capo della Polizia.
È insomma un “militare” messo a controllare i militari, rovesciando il corretto rapporto costituzionale. E certo non basta a diminuire la “sgrammaticatura” il fatto che gli appartenenti alla polizia siano rubricati ufficialmente come “civili”, diversamente – per esempio – da Carabinieri e Guardia di Finanza.
Due punti fanno una linea, sia in geometria che in politica.
Mario Draghi sta disegnando un’altra Italia. Ma non è per nulla “democratica”. Né nel “programma di riforme”, né sul piano della prassi costituzionale.
Fonte
L’attenzione di tutti viene attirata sul solito, indecente, spettacolo dell’assalto alla diligenza, con 49 sottosegretari 49, scelti col manuale “Cencelli rinforzato”. C’era infatti da soddisfare non soltanto i vari partiti, ma le singole correnti di ognuno. E siccome mai come questa volta sono “tutti insieme”, la contrattazione è stata più scoperta e puzzolente del solito.
Nulla di tutto ciò sembra turbare il silenziosissimo monarca di Palazzo Chigi, che fin dal primo giorno ha assunto come suo obbiettivo esclusivo le “riforme di cui ha bisogno il paese” – quelle “necessarie” a rendere l’Italia un paese totalmente dipendente dalle filiere produttive in primo luogo tedesche e in parte anche francesi (e statunitensi, ci mancherebbe) – mentre “tutto il resto” viene lasciato agli appetiti e alle esigenze di visibilità della più inguardabile classe politica dell’Occidente.
In questo “tutto il resto” c’è anche la gestione della pandemia, che prosegue senza alcuna discontinuità nel solco criminale del governo Conte: “convivere con il virus”, decretando qualche lockdown temporaneo, ma senza campagna di tracciamenti di massa; qualche restrizione per alcune categorie commerciali, ma nessun limite per le attività industriali; e soprattutto nessuna iniziativa autonoma per produrre i vaccini, le cui forniture vengono sempre più spesso tagliate dalle varie multinazionali (Pfizer, Moderna, AstraZeneca), in violazione dei contratti firmati con l’Unione Europea.
I “due governi in uno” conoscono perfettamente i propri ambiti di amministrazione, e i partitucoli si assumono con entusiasmo il compito di occupare la scena mediatica con polemicuzze da due soldi. Pensano come sempre al “dopo”, quando dovranno presentarsi agli elettori con un carico di responsabilità identico per le decisioni sottoscritte tutti insieme, ma marcando una qualche differenza che proveranno a presentare come “decisiva”.
Ma intanto il “governo vero” – Mario Draghi e suoi uomini di fiducia nei ministeri-chiave – procedono, senza troppi riguardi per le norme costituzionali o, almeno, per le “convenzioni” rispettate in 75 anni di Repubblica nata dalla Resistenza.
Un primo allarme, due giorni fa, è stato lanciato da Angelo De Mattia, con un articolo su Milano Finanza. Il caso riguarda la nomina del nuovo Direttore della Banca d’Italia, visto che c’è da sostituire Daniele Franco, appena nominato ministro dell’economia.
“Sarà la prima volta in assoluto che l’attivazione dell’iter di approvazione, il quale termina con il decreto del Presidente della Repubblica, è promossa da due ex di Bankitalia, ai massimi livelli, il presidente del Consiglio Mario Draghi (ex governatore, ndr) e il ministro dell’economia Daniele Franco, che dovranno sottoporre al consiglio dei ministri per il prescritto parere le nomine”.
Il punto è decisamente delicato, perché a decidere la successione in Bankitalia (organo tecnico) non saranno dei “politici”, ma due ex altissimi funzionari di quell’organo tecnico medesimo.
Dice ancora De Mattia: “quanto ai rapporti che si stabiliranno tra governo (e in specie tra presidenza del consiglio e Tesoro) e Banca d’Italia, quest’ultima anche come parte del sistema di banche centrali, l’osservanza della netta distinzione e della reciproca indipendenza è fondamentale”.
Se tutti i protagonisti del rapporto (governo e Bankitalia) vengono dallo stesso giro (Bankitalia) qualche legittimo sospetto sulla “indipendenza” di quest’ultima può venire. Non solo ai bastian contrari come noi, ma persino – forse – ai partner europei.
“La collaborazione (tra diversi organi, ndr) è un dovere istituzionale. Ma ciò esclude eventuali commistioni o ‘porte girevoli’ ovvero una ‘visione allargata’ delle attribuzioni del potere esecutivo”. E invece proprio queste “porte girevoli” sono in azione sotto gli occhi di tutti.
Sul punto c’è da aggiungere due cose. Noi non siamo tra i sostenitori dell’indipendenza della banca centrale rispetto al governo di un Paese (c’è in effetti solo all’interno dell’Unione Europea, ma non negli Usa o in Gran Bretagna, né tantomeno in Cina), perché questa separazione – che fa data qui da noi dal 1981 – consegna l’emissione di titoli di stato, e dunque la dinamica del debito pubblico, ai capricci speculativi dei mercati finanziari.
Ma se c’è un quadro di regole istituzionali – “l’indipendenza per la Banca è l’adempimento allo specifico obbligo del Trattato Ue che, per l’Italia, ha il rango di norma costituzionale” – non possono essere proprio gli organi dello Stato a violarle...
L’aspetto paradossale è però in agguato: avendo propri uomini alla guida sia di se stessa sia del governo sembrerebbe che la Banca d’Italia sia ancora più “indipendente” dal potere politico. Lo è così tanto da sostituirlo, in effetti...
Ma non può essere taciuto il fatto che Bankitalia, allo stesso tempo, è una filiale nazionale della Banca Centrale Europea. Dunque, la catena delle matrioske del potere si allinea in questo modo: a) il governo italiano è in mano a uomini della Banca d’Italia, b) ma la Banca d'Italia dipende gerarchimente dalla Bce, c) ergo, il “governo vero” italiano è in mano alla Bce (al suo ex presidente, addirittura).
In secondo luogo, non è affatto secondario sapere che Angelo De Mattia non è un semplice giornalista, ma è stato a sua volta direttore centrale della Banca d’Italia. Uno che ha ricoperto il ruolo di Daniele Franco e conosce dunque benissimo i limiti istituzionali entro cui dovrebbe essere agita quella funzione.
Si potrebbe pensare che si tratta di una “sgrammaticatura” sfuggita a Mario Draghi sotto la pressione delle decisioni da prendere, o per carenza di alternative valide (ma non mancano davvero economisti di vaglia in grado di agire sotto la sua guida).
Ma il pensiero passa subito quando, come stamattina, ci si trova di fronte a una forzatura ancora più pesante e gravida di conseguenze: la nomina di Franco Gabrielli a sottosegretario con delega ai servizi segreti.
Quel posto – istituzionalmente – sta ad indicare il controllo sui “servizi” da parte dell’autorità politica di governo. O, in altri termini, la supremazia del potere civile su quello militare (i “servizi”, al di là delle qualifiche formali, sono forse il più militarizzato dei corpi dello Stato).
Dunque, logica vuole e consuetudine istituzionale ha sempre voluto, che quel posto fosse assegnato a un “civile”, o meglio ancora a un “politico” incaricato di seguire la scottante materia in nome e per conto del Presidente del Consiglio.
Franco Gabrielli è l’esatto contrario: poliziotto di lunghissimo corso, è stato direttore del Sisde – servizio segreto “interno”, che ha cambiato nome in Aisi proprio sotto la sua direzione – e poi capo della Polizia.
È insomma un “militare” messo a controllare i militari, rovesciando il corretto rapporto costituzionale. E certo non basta a diminuire la “sgrammaticatura” il fatto che gli appartenenti alla polizia siano rubricati ufficialmente come “civili”, diversamente – per esempio – da Carabinieri e Guardia di Finanza.
Due punti fanno una linea, sia in geometria che in politica.
Mario Draghi sta disegnando un’altra Italia. Ma non è per nulla “democratica”. Né nel “programma di riforme”, né sul piano della prassi costituzionale.
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