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28/02/2025

La cinese (1967) di Jean-Luc Godard - Richiesta

Grecia - Sciopero generale e manifestazioni oceaniche contro il governo

Varie centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza oggi in tutta la Grecia per chiedere giustizia per le 57 vittime – per la maggior parte studenti – del disastro ferroviario di Tempes, avvenuto esattamente due anni fa vicino alla città di Larissa, nella regione della Tessaglia.

Le manifestazioni più partecipate si sono svolte in piazza Syntagma ad Atene e nel centro di Salonicco, ma cortei e presidi sono stati organizzati in circa 200 località del paese. Davanti al parlamento di Atene, al termine dell’enorme corteo, si sono registrati degli scontri tra alcuni gruppi di manifestanti e le forze dell’ordine schierate in assetto antisommossa.

La parola d’ordine della giornata di protesta contro il governo, accusato di negligenza e di aver insabbiata o comunque mai perseguito seriamente i responsabili della tragedia, è stata “Non ho ossigeno”, richiamando una frase pronunciata da una delle vittime dell’incendio che divampò subito dopo lo scontro frontale tra un treno passeggeri e un convoglio merci. Un altro slogan molto utilizzato dai manifestanti è stato “Il loro profitto, le nostre vite”.

A due anni dal disastro non è stato ancora avviato alcun procedimento penale e si ignora se effettivamente il treno merci coinvolto trasportasse un liquido infiammabile il cui trasporto però non fu dichiarato.

Il governo di centrodestra di Kyriakos Mitsotakis è stato più volte accusato di boicottare le indagini, dopo che a gennaio dello scorso anno i suoi parlamentari, che detengono la maggioranza assoluta, respinsero la richiesta della procura europea di istituire una commissione ufficiale d’inchiesta sulle responsabilità di due ex ministri dei Trasporti. Indubbiamente lo stato di abbandono in cui versa il sistema ferroviario ellenico ha avuto un ruolo importante nell’incidente; inoltre l’altissimo numero delle vittime è stata la conseguenza di forti ritardi nei soccorsi e della disorganizzazione delle autorità preposte.

Manifestazioni di sostegno organizzate dai greci della diaspora si stanno tenendo in centinaia di località in tutto il mondo, compresa l’Italia. La protesta, organizzata dai familiari delle vittime, è sostenuta dai maggiori sindacati del paese – Adedy e Gsee – che per la giornata di oggi hanno proclamato uno sciopero generale di 24 ore che coinvolge i settori pubblico e privato, compresi i trasporti. Anche molte associazioni di commercianti hanno deciso di partecipare alla giornata di mobilitazione chiudendo negozi, bar, supermercati e ristoranti.

In molte città un livello di partecipazione simile non si vedeva dai tempi del movimento di contestazione nei confronti dei Memorandum a base di tagli e austerità imposti dal paese dalla cosiddetta troika (FMI, UE, BCE)

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Segnali di economia di guerra. Rheinmetall converte produzioni civili in militari

Sappiamo bene che la spina dorsale dell’industria europea è l’automotive, che però si trova di fronte a una profonda crisi. Al punto che il prossimo 5 marzo la Commissione Europea licenzierà un piano d’azione apposito per sostenere il settore.

Ma c’è chi ha capito che un’epoca è finita e, forse, ne inizierà un’altra per Bruxelles, con priorità ben differenti. Rheinmetall, il colosso tedesco degli armamenti, ha annunciato a Reuters che ha intenzione di convertire due suoi impianti verso una produzione ibrida, civile-militare.

Il progetto deve ancora essere finalizzato, ma la società ha fatto presente all’agenzia di stampa britannica la volontà di trasferire gli stabilimenti di Berlino e Neuss alla divisione Armi e Munizioni della società. Seppur continueranno a produrre componenti per l’industria automobilistica, cominceranno a realizzarne anche per mezzi militari.

“Gli impianti beneficeranno della forza industriale che il Gruppo Rheinmetall possiede come importante fornitore di attrezzature militari – hanno scritto a Reuters –, nonché dell’elevata domanda da parte dei clienti in Germania e nel mondo”. L’obiettivo è dunque puntare sul riarmo europeo, unico tema su cui i vertici del continente sembrano essere d’accordo.

I dati di mercato sembrano dar ragione a Rheinmetall: il suo utile operativo su armi e munizioni è quasi raddoppiato nei primi nove mesi del 2024, mentre la divisione automobilistica ha registrato un calo del 3,8%. Anche KNDS, che divide la proprietà tra tedeschi e francesi, ha annunciato l’acquisizione di uno stabilimento ferroviario a Görlitz per riadattarlo alla produzione di veicoli blindati.

Sempre Reuters riporta che alcuni economisti della Deutsche Bank hanno calcolato che raggiungere il target del 2% di spesa militare, come previsto dalla NATO, significherà miliardi e miliardi in arrivo per il settore. Ma hanno sottolineato anche che, dei 200 miliardi spesi in equipaggiamenti della difesa dai paesi europei nel corso del 2022, solo 40 miliardi sono finiti a fornitori della UE.

Qui emerge uno dei due nodi che bisogna porre in evidenza. Per quanto si siano avuti processi di fusione o si siano create importanti joint venture – come quella tra Leonardo e la stessa Rheinmetall – tra i grandi attori della difesa europea, il complesso militare-industriale comunitario rimane ancora frammentato, dispersivo, incapace di porsi come motore di un nuovo, pericoloso, modello di sviluppo.

E qui giungiamo al secondo nodo. Se parliamo invece dell’automotive, le sue filiere occupano nel complesso 13 milioni di persone e producono intorno all’8% del PIL comunitario. Ma soprattutto, assorbono il 32% degli investimenti in Ricerca e Sviluppo: è, senza ombra di dubbio, il fulcro dell’industria europea.

Allo stesso tempo, è un settore che, per le caratteristiche che ha assunto alle latitudini occidentali, si fonda sostanzialmente sul consumo privato. Un consumo che è però messo in difficoltà dalla costante compressione della domanda interna (se i salari restano bassi e non tengono il passo dell’inflazione, c’è sempre meno da comprare) e dalle guerre commerciali, subite – da Washington – o promosse – contro Pechino.

Allora la domanda è: può il comparto militare prendere il posto dell’automotive come perno dell’economia UE? Sicuramente no in termini di riassorbimento dell’occupazione persa in altri settori, ma implica anche la prospettiva di avere necessariamente “più Stato”, sia nei processi economici sia nella loro direzione. Ma non a beneficio dei cittadini. Anzi...

Significherebbe, soprattutto, avere una classe politica capace e mostrare flessibilità nel trasformare il modello di sviluppo. Due cose che per la classe dirigente europea sembrano impossibili.

Ma intanto, la deriva bellicista continua, con i grandi gruppi industriali che ci puntano... E questo è già un segnale preoccupante.

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Faccia a faccia tra Trump e Zelenski. Reciproco bluff sulle terre rare

Intervistato dall’emittente britannica BBC dopo i colloqui con il primo ministro britannico Starmer sulla fine della guerra tra Ucraina e Russia, Trump ha giocato al finto tonto.

Parlando di un “incontro molto positivo” con Zelensky – atteso oggi a Washington – e affermando che gli sforzi per raggiungere la pace “stanno procedendo molto rapidamente”, alla domanda se pensasse ancora che Zelensky fosse un “dittatore”, ha risposto: “L’ho detto io? Non ci posso credere”, negando quello che aveva scritto nero su bianco qualche giorno fa su X.

Secondo il giornale statunitense Politico, “Trump è apparso indifferente all’appello disperato di Starmer per un maggiore impegno degli Stati Uniti a proteggere l’Ucraina, se e quando la sua guerra con la Russia finirà”. Starmer, consapevole del fatto che Trump ha respinto le richieste di fornire “garanzie di sicurezza” per l’Ucraina, ha chiesto qualcosa di meno: “un impegno degli Stati Uniti a “sostenere” gli sforzi europei per aiutare a difendere l’Ucraina da qualsiasi futura invasione da parte della Russia. Ma Trump ha detto no a tutto questo”.

Oggi dovrebbe anche essere l’occasione della firma dell’accordo tra Usa e Ucraina sulle cosiddette terre rare. Trump ha sottolineato che l’intesa che “firmeremo insieme” con Zelensky sulle terre rare sarà una “rete di sicurezza” per l’Ucraina.

Parlando ieri con il primo ministro britannico Starmer, Trump aveva affermato che “Il presidente Zelensky verrà da me venerdì mattina e firmeremo un accordo molto importante per entrambe le parti, perché ci farà entrare nel Paese e lavorare lì”.

L’accordo, secondo le bozze circolate e via via perfezionate, prevede l’apertura di un fondo a cui Kiev contribuirà al 50% degli introiti dello sfruttamento delle risorse minerarie di proprietà dello stato, grazie alla “futura monetizzazione” di litio, grafite, cobalto, titanio, terre rare come lo scandio, ma anche gas e petrolio, e delle logistiche associate.

Il fondo potrà essere usato anche per successivi progetti di investimento in Ucraina e gli Stati Uniti che si impegnano a sostenere il futuro sviluppo economico ucraino.

L’intesa non riguarda il flusso già attivo di proventi di attività di estrazione, quindi non le attività già in essere di Naftogaz e Ukrnafta sulle quali gli USA – già con Biden – hanno messo le mani da tempo. Non viene citata la quota degli Stati Uniti nel fondo. Ci si riferisce solo ad accordi di “proprietà congiunta” che dovranno essere dettagliati in accordi successivi. Non viene più citata la cifra di 500 miliardi di dollari di ‘debito’ che Trump aveva chiesto a Kiev in un primo momento come tetto massimo del contributo ucraino al fondo. Così come “il mantenimento, da parte degli Stati Uniti, del 100 per cento degli interessi finanziari” nel fondo.

Il problema è che di terre rare in Ucraina non ce ne sono. Ci sono minerali strategici ma è un’altra cosa.

L’analista di Bloomberg, Javier Blas, afferma che “Molti – non ultimo il presidente degli Stati Uniti Donald Trump – sembrano convinti che il paese abbia una ricca dotazione mineraria. È una follia”.

Secondo l’analista “Il clamore sulle terre rare ucraine è partito dagli stessi ucraini. Alla ricerca disperata di un modo per coinvolgere Trump, hanno fatto male i conti presentando all’allora presidente entrante, a novembre, un ‘piano di vittoria’ che parlava del potenziale – molto, molto elevato – delle risorse minerarie del paese. Ben presto hanno perso il controllo della narrazione. Al di là di qualche deposito di scandio, l’Ucraina non possiede giacimenti – non giacimenti noti, perlomeno – di terre rare”.

Nei database mondiali delle risorse minerarie, l’Ucraina non risulta detenere risorse importanti di terre rare nonostante Kiev dichiari che ci siano presenti importanti risorse di questo tipo L’Ucraina ha altri minerali, come il titanio o materiali come la grafite.

Nel sistema informativo sulle materie prime della Commissione Europea, l’Ucraina risulta avere un indice del contributo minerario considerevole, è 35° su un totale di 183 Paesi a livello mondiale. Ma non per la presenza di terre rare. Il database UE parla di gallio (per cui l’Ucraina è 3° produttrice al mondo), metallo di silicio (4° al mondo), titanio e metallo di titanio (5°), caolino (6°), ferro e acciaio (7°), manganese (7°), magnesio (7°), carbone da coke (8°) e germanio (8°).

C’è infine un “dettaglio”. Molti dei possibili giacimenti di questi minerali rari sono nelle zone controllate dalle forze armate russe o nelle repubbliche indipendentiste del Donbass annesse alla federazione russa. Il che riporta in primo piano la priorità di un accordo di pace ancora prima di parlare di business.

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Crisi Stellantis: per i lavoratori la grandine, per gli azionisti “il grano”

Nella giornata del 26 febbraio 2025, Stellantis ha annunciato che i parametri per l’erogazione del PDR 2024 non sono stati raggiunti ma comunque erogherà un una somma di 630 euro per la terza area professionale, 676 euro per la seconda e 830 euro per la prima.

Il mancato raggiungimento di parametri di obiettivi, probabilmente, comporterà anche la non applicabilità della detassazione di tali somme.

Naturalmente tali somme per molti lavoratori dovranno essere riparametrate, in base alle assenze per cassa integrazione.

Stellantis comunica anche dei risultati finanziari molto negativi con un meno 70% di utile netto e meno17% di fatturato, ma ci saranno ben 5,5 miliardi di euro che verranno distribuiti agli azionisti. I sindacati firmatari del CCSL si dicono delusi dalla situazione e dal PDR ma dimenticano che è solo una conseguenza di accordi sindacali da loro sottoscritti, piangono lacrime di coccodrillo mentre i lavoratori piangono alla vista delle buste paga decurtate dall’inflazione di questi anni, e mai recuperata, e dalla cassa integrazione.

Il tutto è inaccettabile, perché Stellantis continua con la propria politica che penalizza i lavoratori e l’occupazione nel nostro paese, utilizzando uno strumento antidemocratico come il CCSL che non garantisce libertà di rappresentanza sindacale.

Ci attendiamo che, nell’imminente incontro dell’11 marzo al MIMIT, l’azienda porti risposte concrete ad una crisi che non è solo di incertezza del mercato ma è figlia di scelte ben precise che hanno garantito sempre dividendi miliardari agli azionisti, mentre l’occupazione negli stabilimenti italiani diminuiva costantemente e gli investimenti sul futuro erano del tutto inadeguati.

È ora di tirar giù la maschera anche per le OO.SS. sottoscrittrici del CCSL che continuano a percorrere una politica di relazioni sindacali servile che per i lavoratori è letale.

È in discussione il rinnovo della parte economica del CCSL, chiediamo veri aumenti che permettano il recupero dell’inflazione e la copertura del 100% dei salari per i lavoratori in cassa integrazione.

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Per quale Costituzione hanno scioperato i magistrati?

Lo sciopero dei magistrati è una anomalia tutta italiana, ma purtroppo ce ne dobbiamo fare una ragione anche al fine di evitare di sentire la solita cantilena dell’attacco all’indipendenza e all’autonomia di una categoria incontrollata e incontrollabile che non paga mai per i suoi errori e nemmeno per i suoi orrori.

Ma veniamo al motivo dell’astensione dal lavoro. “In difesa della Costituzione” dicono dopo averla sbandierata e squadernata alle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario per poi uscire dalle aule nel momento in cui parlava un rappresentante del ministero. Comportamenti e atteggiamenti da asilo Mariuccia da parte di funzionari dello Stato super pagati.

La domanda è una sola. Per quale Costituzione scioperano? Per quella targata 1948 e poi buttata nel cesso circa mezzo secolo fa dal regime DC-PCI e dai governi di unità nazionale? O scioperano in nome della Costituzione materiale adeguata alle leggi di emergenza pretese e ottenute dalle procure, approvate da un Parlamento di vigliacchi che aveva interamente delegato ai magistrati la questione della sovversione interna?

Parliamo delle leggi premiali che consentirono ai responsabili dei crimini più efferati di uscire dal carcere “puniti” non per quello che avevano commesso ma per ciò che pensavano di quanto avevano fatto? Le leggi della madre di tutte le emergenze restarono in vigore anche nelle emergenze successive, mafia e Mani pulite. Non ci furono tribunali speciali come nel ventennio ma uso speciale dei tribunali ordinari. Cioè il peggio del peggio, perché se avessero creato i tribunali speciali poi avrebbero dovuto a un certo punto abolirli.

Invece stanno ancora lì. Tanto è vero che siamo alla repressione senza sovversione. In corte di assise 50 anni dopo per accertare con carte false e violazioni delle regole processuali chi uccise il carabiniere ma non Mara Cagol, finita con un colpo di grazia il 5 giugno del 1975. 50 anni fa.

E stiamo con il carcere duro del 41bis applicato a oltre 700 detenuti un numero superiore a quello del periodo delle stragi di mafia. Dove sta la Costituzione del 1948? Non c’è più da tempo immemore. Ma serve all’Anm, la cupola della magistratura, per prendere in giro un paese intero in nome della “legalità” che non è mai il diritto di chi è senza diritti.

Chi è senza diritti non ha alternative al conflitto sociale oggi in verità molto debole ma per quel poco che c’è viene represso da magistrati e politici uniti nella lotta. Su questo non litigano. Come quando usarono la Costituzione come carta igienica per contrastare un tentativo di rivoluzione, il più serio nel cuore dell’Occidente.

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Green e benessere: l’UE guardi alla Cina

Professor Carlo Rovelli, lei recentemente ha commentato con accenti assai positivi le virtù del sistema politico cinese. È parso un ultras di Pechino.

La disfatta dell’Unione Sovietica ha mostrato che il socialismo di Mosca non ha retto al confronto con il capitalismo. Le sinistre si sono trovate in difficoltà nel mondo intero e si sono messe a inseguire le destre. Lo strepitoso successo economico del sistema cinese, unico nella storia del mondo, e il grande consenso interno che ha il governo stanno ribaltando la conclusione. In pochi decenni la Cina ha portato mezzo miliardo di persone fuori dalla povertà estrema, ha diffuso il benessere, scolarizzato tutti, costruito la prima economia del mondo, continua a crescere a ritmo maggiore di chiunque altro.

Ma in Cina non si vota. Un solo partito al potere e una libertà di parola assai vigilata.

E questo comporta due ordini di problemi. Il primo è che le discussioni si svolgono all’interno del partito comunista e ciò rischia di rendere la leadership troppo sicura di sé. Il secondo è il pesante fardello del bavaglio in cui si vengono costrette le voci dissenzienti. Le votazioni sono una benedizione perché favoriscono la discussione e semplificano il controllo del potere da parte delle maggioranze.

Ma attenzione, non dimentichiamo che sono anche una maledizione: per due motivi. Il primo è che non si vincono le elezioni senza ingenti somme di denaro. Quindi il potere finisce nelle mani di chi ha molto denaro. Le democrazie occidentali sono spesso in realtà plutocrazie: il potere è dei ricchi. Paesi come l’Italia e gli Usa sono addirittura finiti in mano a miliardari. Per questo sono sparite le tasse fortemente progressive che ridistribuivano il reddito.

Il secondo è che le elezioni portano chi è al potere a mirare a farsi rieleggere, più che al bene comune a lungo termine. Una delle differenze più spettacolari fra la politica cinese e la politica occidentale è proprio questa: la leadership cinese pensa in termini di decenni, mentre i leader occidentali pensano al consenso giorno per giorno.

Lei dunque spera che la Cina prevalga sull’Occidente?

No. La Cina è una grande civiltà millenaria. Il problema non è chi prevale. Il problema, io penso, è uscire dalla folle logica dello scontro, quella di pensare che qualcuno debba sempre prevalere.

Pensa dunque che l’Europa dovrebbe avvicinarsi alla Cina?

Europa e Cina sono più vicine di quanto si dica. Il governo cinese ha la crisi climatica fra le sue priorità, sostiene le istituzioni internazionali, parla di collaborazione anziché competizione, vuole ridurre i dazi, spinge sempre per il dialogo. Se la confrontiamo con il governo di Washington che non crede all’emergenza climatica, vuole depotenziare le istituzioni internazionali, parla esplicitamente di predominio Usa, combatte il multilateralismo, è stato pressoché ininterrottamente in guerra da un secolo, e mette dazi, chi ci è ideologicamente più vicino?

Ma la Cina è anche una dittatura, opprime il suo popolo e minaccia i Paesi vicini.

Ho viaggiato a lungo in Cina, ho insegnato all’università Normale di Pechino, ho colleghi, studenti e amici cinesi. Quell’immagine della Cina non torna proprio. Confrontata con tutte le guerre che ha scatenato l’Occidente negli ultimi decenni, la Cina è un Paese estremamente pacifico. Internamente non si sente oppressione poliziesca. Vero, il governo spia tutti, ma anche qui da noi ci spiano tutti.

Se lei però fosse un intellettuale dissidente, certo non vorrebbe esserlo in Cina.

Vero. E spero che la Cina impari da noi, ma resto convinto che l’immagine di una Cina feroce internamente ed esternamente sia solo il risultato della forsennata propaganda anti-cinese.

Perché ritiene che ci sia una “forsennata” propaganda anti-cinese?

Per due motivi. Il primo è che gli Usa stanno perdendo il primato economico. Il mio timore peggiore è che cerchino ora lo scontro armato, dato che la loro preponderanza militare è ancora soverchiante. Non durerà se la Cina continua a crescere come sta facendo. Il secondo, più profondo, è che il capitalismo che domina l’Occidente è terrorizzato dall’idea che il socialismo possa alla fine rivelarsi più efficace.

Pronostica la vittoria del socialismo cinese sul capitalismo?

La Cina sta mettendo in dubbio la legittimità della plutocrazia che di fatto governa l’Occidente. Il suo socialismo sta vincendo proprio sul piano in cui sembrava perdere: l’economia.

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Ocalan chiede lo scioglimento del PKK: una prima analisi

L’appello di Ocalan allo scioglimento unilaterale del PKK è un evento potenzialmente storico, che potrebbe influenzare gli equilibri in tutta la regione. Traduciamo l’analisi effettuata da Amberin Zaman su Al Monitor.

Per dare un po’ di contesto, Amberin Zaman è una giornalista turco–statunitense con una solida carriera alle spalle in molti giornali dell’establishment USA (The Economist, Washington Post, The Los Angeles Times) come inviata in Turchia. Ha rotto con le autorità del suo paese a partire dal 2024, man mano che si sono inaspriti i rapporti con gli USA. È sposata con un alto diplomatico americano. È fra le maggiori esperte delle questioni relative alle minoranze della Turchia.

Per evitare i soliti equivoci interessati: quanto qui di seguito scritto viene riportato per informazione, ovviamente parziale, non rappresenta “la posizione” del giornale.

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Fine di un’era? Il leader del PKK Ocalan ordina ai militanti di porre fine alla guerra con la Turchia e di “sciogliersi”

Mentre l’appello di Ocalan solleva speranze di porre fine a decenni di conflitto con la Turchia, restano interrogativi sul futuro della politica curda in Siria e nella più ampia regione mediorientale.

In una dichiarazione ampiamente attesa che molti sperano possa preparare il terreno per porre fine a più di quattro decenni di conflitto tra Turchia e curdi, il leader curdo in prigione Abdullah Ocalan ha invitato i suoi seguaci giovedì a deporre le armi e a sciogliere l’organizzazione ribelle.

“Sto lanciando un appello per la deposizione delle armi e mi assumo la responsabilità storica di questo appello”, ha affermato Ocalan nelle sue osservazioni trasmesse in una conferenza stampa a Istanbul. “Tutti i gruppi devono deporre le armi e il PKK deve sciogliersi”, dopo aver convocato un congresso a tal fine.

Il capo ribelle 74enne non ha fatto alcun riferimento allo staterello guidato dai curdi nel nord-est della Siria, che lo venera come il suo leader ideologico, mentre la Turchia lo vede come una minaccia esistenziale. Mazlum Kobane, comandante in capo delle Forze democratiche siriane guidate dai curdi, il principale alleato del Pentagono nella lotta contro lo Stato islamico, ha confermato che la chiamata non era rivolta al suo gruppo. “Solo per chiarire, questo è solo per il PKK, niente che ci riguardi in Siria”, ha detto Kobane.

Le divergenze sulla Siria sono state un ostacolo chiave nei colloqui, con la Turchia che ha insistito sul fatto che comprendessero il nord-est della Siria, dove le forze turche e le fazioni sunnite sue alleate hanno condotto una feroce campagna di nove anni per distruggere l’autoproclamata Amministrazione autonoma democratica della Siria settentrionale e orientale per i suoi legami con il PKK.

Ma Ankara sembra aver ammorbidito la sua posizione, poiché diverse nazioni arabe hanno respinto la crescente influenza della Turchia in Siria, dove una propaggine di al-Qaeda ha rovesciato Bashar al-Assad e ha preso il potere l’8 dicembre dell’anno scorso. Se il cambiamento si rivelasse duraturo, ciò significherebbe una grande vittoria per i curdi siriani.

Le scene a Istanbul erano festose, poiché i parlamentari del più grande partito filo-curdo DEM della Turchia si sono alternati nel leggere gli ordini di Ocalan al suo PKK fuorilegge, prima in curdo e poi in turco, davanti a un pubblico che includeva politici curdi recentemente liberati dalla prigione e le madri dei curdi fatti sparire forzatamente dallo stato turco. La conferenza stampa è stata trasmessa in diretta dalla televisione nazionale.

Una fotografia di Ocalan affiancato dai legislatori DEM che lo avevano incontrato sulla sua isola-prigione in precedenza nel corso della giornata è stata mostrata su uno schermo gigante. Con indosso una camicia color ciliegia e una giacca blu navy, l’ex corpulento leader del PKK appariva più grigio e magro rispetto alle ultime fotografie ufficiali che lo ritraevano, circolate più di un decennio fa durante i precedenti colloqui di pace.

Un tuffo nel passato

Con argomentazioni che ricordano il suo processo in tribunale del 1999, in cui fu condannato all’ergastolo, Ocalan ha sostenuto che le condizioni per la continuazione del PKK, incluso il crollo del socialismo negli anni Novanta, non esistono più, “indebolendo così il significato fondante del PKK”. Ha sostenuto, inoltre, che l’identità curda non è più respinta in Turchia e che ci sono stati miglioramenti nella libertà di espressione, anche se un gran numero di curdi che esprimono opinioni nazionaliste o indossano simboli curdi continuano ad essere perseguiti e incarcerati in una nuova ondata di repressione.

Uno stato nazionale separato, una federazione, un’autonomia amministrativa o “soluzioni culturaliste” non sono la risposta, ha detto Ocalan. “Non c’è alternativa alla democrazia nel perseguimento e nella realizzazione di un sistema politico. Il consenso democratico è l’unica via”, ha aggiunto. Il suo riferimento all’autonomia amministrativa può ancora essere interpretato come un messaggio all’autoproclamata amministrazione autonoma nel nord-est della Siria, che la Turchia e i nuovi leader islamisti della Siria affermano debba essere sciolta.

Tuttavia, Foza Yusuf, un funzionario chiave nell’amministrazione guidata dai curdi, ha riecheggiato le opinioni del comandante delle SDF Kobane secondo cui Ocalan non stava alludendo alla Siria. “La sua dichiarazione rivela ancora una volta la sua brillantezza strategica. Sapevamo che non ci avrebbe reso parte di alcun patto. I nostri accordi, i nostri affari devono essere fatti con Damasco, non con la Turchia”, ha detto Yusuf ad Al-Monitor. “Questa è la conferma che non ci sono legami organici tra noi e il PKK”. La distinzione potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio, consentendo alla Turchia di proseguire i suoi attacchi contro i curdi siriani anche mentre fa pace con i propri.

Basandosi sulla narrazione del governo turco secondo cui le forze esterne maligne stanno deliberatamente mettendo i turchi contro i curdi, Ocalan ha anche sottolineato lo “spirito di fratellanza” tra turchi e curdi che è essenziale per “sopravvivere contro le potenze egemoniche”. Ha anche attribuito a Erdogan e al suo alleato nazionalista, Devlet Bahceli, il merito di aver creato le condizioni per gli attuali colloqui.

Nell’ottobre 2024, Bahceli ha rivelato che erano in corso colloqui segreti con il PKK e il governo, riportati per la prima volta da Al-Monitor, quando ha invitato Ocalan in parlamento, dove avrebbe dovuto fare un appello al disarmo, lo stesso appello che il leader del PKK ha fatto oggi.

La reazione ufficiale è stata finora smorzata e non c’è stata alcuna risposta dal PKK al momento della pubblicazione di questo articolo.

Efkan Ala, vicepresidente del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di Erdogan e figura chiave nei precedenti colloqui di pace falliti nel 2015, è stato il primo a commentare dalla parte turca.

“Il risultato dell’appello [di Ocalan] è che l’organizzazione terroristica si sciolga da sola e tutti devono fare uno sforzo per raggiungere questo risultato”, ha detto Ala al canale di notizie filogovernativo A Haber. “Se il terrorismo persiste, siamo determinati a continuare a combatterlo”, ha affermato.

Applausi e lacrime

Migliaia di persone si sono radunate davanti ai maxi schermi installati nelle piazze principali delle città nella regione sud-orientale prevalentemente curda per guardare la conferenza stampa. Hanno applaudito e ululato prima che il messaggio di Ocalan venisse letto. Alcuni non sono riusciti a nascondere lo shock quando hanno sentito le sue parole. “C’erano parecchie persone che piangevano, chiedendosi perché Ocalan avesse rinunciato a così tanto senza ottenere nulla in cambio”, ha detto il giornalista locale Selim Kurt ad Al-Monitor da Diyarbakir, la capitale informale dei curdi.

Sentimenti simili sono riecheggiati a Istanbul, spingendo il parlamentare DEM Sırrı Sureyya Onder a notare che il leader del PKK aveva anche affermato che erano necessarie “politiche democratiche e un quadro giuridico” – apparentemente da parte di Ankara – affinché i membri del PKK si disarmino.

Quelle parole non erano incluse nella dichiarazione che è stata letta ad alta voce.

Oltre 40.000 persone, la maggior parte delle quali combattenti del PKK, sono morte nella campagna armata dei ribelli lanciata da Ocalan nel 1984, che originariamente mirava a uno stato curdo indipendente ricavato da Turchia, Iran, Iraq e Siria. I ribelli hanno dichiarato sin dall’inizio degli anni ’90 che si sarebbero accontentati dell’autonomia locale.

Non è ancora chiaro cosa abbia offerto il governo in cambio dell’appello di Ocalan, con i colloqui avvolti nel segreto. Fonti a conoscenza dei negoziati affermano che a Ocalan sono state promesse condizioni di prigionia notevolmente migliorate e che numerosi prigionieri politici curdi, in particolare Selahattin Demirtas, il politico curdo più popolare della Turchia, saranno liberati.

L’amnistia per i combattenti del PKK cui non sono imputati fatti di sangue sarebbe fra le proposte, e il governo regionale del Kurdistan (KRG) in Iraq ha offerto asilo ai quadri superiori del PKK, hanno detto alcune fonti ad Al-Monitor.

Un primo e necessario passo per la continuazione del processo sarebbe un cessate il fuoco reciprocamente dichiarato, affermano fonti del PKK. Ci sono voci non confermate secondo cui il PKK rilascerà due alti ufficiali dell’agenzia di intelligence nazionale turca, MIT, che il gruppo ha rapito nella provincia di Sulaimaniyah nel Kurdistan iracheno nel 2017.

Ma il percorso verso una pace duratura è costellato di insidie, come hanno dimostrato i precedenti tentativi.

I detrattori nazionalisti di Erdogan si sono affrettati a criticare l’appello di Ocalan. Ali Sehiroglu, vicepresidente del partito di estrema destra Zafer (Vittoria), ha giurato in un post su X di annullare “questo torbido processo”.

“Non lasceremo che la repubblica [turca] venga distrutta! Non permetteremo che la patria turca venga divisa”, ha scritto Musavat Dervisoglu, leader del partito nazionalista Iyi (Bene), su X.

Il principale partito di opposizione, il Partito Popolare Repubblicano (CHP), che ha fatto affidamento sul sostegno curdo nelle recenti elezioni, ha appoggiato l’appello di Ocalan. Il leader del CHP Ozgur Ozel ha affermato che l’appello è “importante” e ha espresso la speranza che il PKK lo ascolti.

Uno degli obiettivi principali dell’impegno di Erdogan nei confronti di Ocalan è quello di creare una spaccatura tra il CHP e il DEM prima delle prossime elezioni presidenziali e parlamentari, che si terranno nel 2028. Essere in grado di rivendicare la vittoria sul PKK, un’organizzazione designata come gruppo terroristico da Turchia, Stati Uniti e Unione Europea, darebbe a Erdogan un’enorme spinta tra i nazionalisti. Le aperture a Ocalan, a lungo etichettato come “baby killer”, conquisterebbero un numero sufficiente di curdi, secondo Erdogan.

La gestione logistica del disarmo è complicata. “Una chiamata storica, sì, ma il PKK non scomparirà domani. A livello pratico, il PKK ha bisogno di garanzie di sicurezza per tenere un congresso, almeno uno grande, e questo richiederà più della dichiarazione di Ocalan”, ha affermato Aliza Marcus, autrice di “Blood and Belief: The PKK and the Kurdish Fight for Independence”.

“Inoltre, qual è la definizione, in questo caso, di ‘scioglimento’? Ci sono migliaia di ribelli armati sulle montagne del Kurdistan iracheno: il gruppo non può semplicemente sciogliersi o addirittura disarmarsi senza una decisione su cosa accadrà a queste persone. Dove andranno? Cosa faranno? Gli sarà permesso di tornare in Turchia e di entrare nella politica legale? Il KRG permetterà loro di stabilirsi nel Kurdistan iracheno? Il PKK dovrebbe sciogliersi, ma i suoi quadri non spariscono e basta”, ha detto Marcus ad Al-Monitor.

Il lato positivo, ha osservato Marcus, è che “sciogliendosi, il PKK in sostanza darebbe ai suoi affiliati locali, che siano per la Siria o l’Iran, l’indipendenza che era stata loro promessa quando questi partiti si sono fondati nel 2003”. “Se Ankara accetterà questo è un’altra questione”, ha aggiunto Marcus.

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27/02/2025

Via col vento (1939) di Victor Fleming - Minirece

Le macchine della paura

di Paolo Lago

Fabio Malagnini, Horror ex machina. Intelligenze artificiali, robot e androidi nel cinema dell’orrore tecnologico, Odoya, Bologna, 2024, pp. 285, euro 22,00.

L’animazione di un oggetto inanimato, secondo Sigmund Freud, rientra nella categoria del “perturbante”, un concetto che si riallaccia a ciò che è spaventoso e che provoca orrore. Rifacendosi alla fiaba di Hoffmann dal titolo Il mago Sabbiolino, Freud afferma che desta particolare perturbamento “una bambola che sembra viva”1 e che “è perturbante in sommo grado il fatto che un oggetto inanimato, ritratto o bambola, acquisti vita propria”2. La bambola della fiaba di Hoffmann appare come un “automa”, cioè un essere che si muove da solo: se lì la spiegazione del movimento era puramente magica e soprannaturale, il movimento degli automi reali, realizzati a partire dal XVII secolo, era meccanico. Questi ultimi si potevano incontrare anche ai banchetti e alle feste delle corti barocche e settecentesche, esposti a fare bella mostra di sé: basta dare uno sguardo all’iperbolico banchetto di una corte tedesca ricostruito dalla fantasia di Federico Fellini in Il Casanova di Federico Fellini (1976), al quale partecipa uno stupefatto Giacomo Casanova. Qui, il celebre intellettuale e seduttore veneziano incontra una bambola meccanica che provoca in lui contemporaneamente attrazione e perturbamento e della quale finirà per innamorarsi.

Ma l’automa è anche e soprattutto portatore di orrore: non è un caso che il vampiro di Murnau, in Nosferatu. Una sinfonia dell’orrore (1922), emerga dal sepolcro e si muova quasi come una marionetta o un burattino, in modo meccanico, come un sonnambulo. Esseri sonnambulici, definiti “automi spirituali” e “mummie del pensiero” da Gilles Deleuze3 sono presenti d’altronde anche nel cinema di Dreyer, non a caso proprio in Vampyr – Il vampiro (1932). La figura dell’automa, nell’immaginario della fantascienza, si è evoluta poi nelle sembianze dell’androide, un essere meccanico dotato di una superiore intelligenza artificiale: è quest’ultima a sostituire, oggi, gli elementi magici, meravigliosi e demonici. Un cortocircuito di tematiche che, nella contemporaneità, esce dall’immaginario cinematografico e letterario per lambire la realtà: è da essa, in cui l’intelligenza artificiale si è ormai diffusa, che emergono gli spunti più inquietanti per un nuovo “orrore tecnologico”. È proprio di questo che si occupa il nuovo, interessante saggio di Fabio Malagnini dal titolo significativo di Horror ex machina, dedicato, come leggiamo nel sottotitolo, al “cinema dell’orrore tecnologico”. Se nel nesso Ex machina si può intravedere un riferimento al film del 2014 di Alex Garland (Ex machina appunto) è anche vero che Horror ex machina è una frase latina che significa “orrore dalla macchina”. Non solo il “sonno della ragione”, ma anche la tecnologia genera mostri, e li può generare anche nel mondo reale oggi più che mai, con l’elezione al soglio presidenziale degli Stati Uniti di Donald Trump e lo strapotere che ha assunto (se possibile, ancora più di prima) il suo accolito Elon Musk. Come scrive Malagnini, “parlare di AI e di mostri” non significa parlare soltanto del presente o del passato ma anche “guardare attraverso le ombre e i fantasmi che il futuro proietta verso di noi” (p. 31).

E comunque, Malagnini nel suo denso saggio dedica ampio spazio anche al passato. Un capitolo, ad esempio, è dedicato proprio agli automi, i quali “simboleggiano l’infanzia dell’automazione” (p. 34). Si arriva quindi anche all’automazione per l’infanzia, cioè i giocattoli meccanici ed elettronici che, nell’immaginario horror preso in esame, si configurano come “giocattoli killer”. Si può pensare, allora, fra i tanti film analizzati, alla bambola Chucky, posseduta dallo spirito di un serial killer, nella saga di Child’s Play, che “inizia nel 1988 e conta 7 film più una serie tv fino al reboot del 2019”. C’è poi una “bambola assassina per la generazione di ChatGPT” (p. 45), vale a dire quella di M3gan (2022), diretto da Gerard Johnstone, in cui una ricercatrice di robotica crea una bambola superintelligente per tenere compagnia a sua nipote Cady. La bambola, pur di proteggere Cady, sarà disposta anche ad uccidere senza pietà. Sempre nel passato è situato il “mostro elettrico” (titolo del capitolo 2) per eccellenza, Frankenstein, nato dalla fantasia di Mary Shelley. Antenato degli androidi, Frankenstein ha conosciuto una enorme fortuna cinematografica, dovuta indubbiamente soprattutto a James Whale e Terence Fisher per riversarsi negli anni Settanta nel geniale Frankenstein Junior (1974) diretto da Mel Brooks e ricomparire, recentemente, sotto le vesti femminili di Bella Baxter nell’altrettanto geniale pastiche di Yorgos Lanthimos, Povere creature! (Poor Things, 2023) tratto dal romanzo di Alasdair Gray. Come scrive Franco Moretti, il mostro “ci fa anche capire che in una società diseguale gli uomini non sono uguali”4, perché “la diseguaglianza scava la pelle, gli occhi, il corpo”5, una diseguaglianza bene evidente nella società industriale, in cui gli operai, costretti a lavorare nelle fabbriche a ritmi disumani, non sono davvero uguali ai ricchi borghesi. Per certi aspetti, gli androidi di Blade Runner (1982) di Ridley Scott, diversi dagli esseri umani perché costretti in vite a scadenza molto brevi, sono i pronipoti di Frankenstein anche perché sono coloro che devono lavorare a ritmi disumani in luoghi disumani, nelle lande più remote e inaccessibili dello Spazio. E gli esseri umani, dopo averli creati, non trovano di meglio che cacciarli ed eliminarli in serie nelle strade di una fatiscente Los Angeles del 2019. Da Frankenstein alla clonazione, poi, il passo è più breve di quanto sembri: se nella realtà il primo mammifero clonato in laboratorio era stata la “pecora Dolly”, nell’immaginario tecno-horror le clonazioni abbondano, da quelle di Alien – La clonazione (Alien: Ressurection, 1997) di Jean-Pierre Jeunet, in cui sono stati clonati ibridi umani e xenomorfi fino alla saga di Resident Evil (2002-2017), dove “il clone è creato con intenti chiaramente dinastici per diventare l’elemento problematico e dinamico della saga” (p. 104).

E se la “macchina” dotata di intelligenza artificiale non ha un aspetto antropomorfo, androide o ginoide, ma appare sotto le vesti di un cervellone elettronico, uno scatolone parlante? È sicuramente meno affascinante, anche meno inquietante, ma non certo meno terribile. In un capitolo dedicato ai “cervelli elettronici”, Malagnini ci informa che HAL 9000, il computer di 2001 Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, 1968) di Stanley Kubrick, ha superato anche Alien, lo squalo di Spielberg e Terminator nella classifica dei ‘cattivi’ di tutti i tempi. Si tratta di una AI ‘addestrata’ a ‘pensare’ come un essere umano, un processo che sta avvenendo oggi anche nella realtà e per cui è stato coniato il termine “Psicologia delle macchine” perché la liaison tra cervello e computer si fa sempre più stretta. Ma, come osserva l’autore, “l’inconscio della macchina incorpora volenti o nolenti i nostri pregiudizi culturali” (pp. 11-12). Stereotipi culturali e di pensiero legati a un passato e a un presente ‘discriminanti’ provocano inquietanti bias cognitivi: ad esempio, un archivio utilizzato per addestrare le AI, erroneamente ritenuto “universale”, possiede un’idea di “città” incentrata su metropoli come Londra, Tokyo, Parigi, New York e non su Città del Messico, Pechino o Nairobi; allo stesso modo, la conoscenza degli esseri umani è basata su un’alta percentuale di individui bianchi, maschi e occidentali con una bassissima presenza di bambini e donne africane. Un altro cervellone spaziale si incontra sulla Nostromo, la nave cargo di Alien (1979) di Ridley Scott, chiamato confidenzialmente “Mother”. Una ‘madre’ accudente ma che in realtà è programmata per fare gli interessi della corporation che possiede l’astronave a scapito degli esseri umani. Un’altra AI dalle connotazioni materne è presente anche nel più recente I Am Mother (2019) di Grant Sputore ma anche qui si tratta di una madre crudele, che mira a sterminare gli esseri umani per creare una razza superiore e più intelligente. In questo film la AI possiede l’aspetto di un robot molto ‘rozzo’, una specie di scatola con braccia e gambe, e ci ricorda, allora, tutta una serie di personaggi robotici più o meno ‘buoni’ o ‘cattivi’, pronti, a partire da Metropolis (Fritz Lang, 1927), a ribellarsi ai creatori umani.

Ma, come spiega Malagnini, esiste anche “la variabile umanoide” (titolo del capitolo 6), cioè esseri robotici che, a prima vista, non sono distinguibili dagli uomini in carne ed ossa, gli androidi. Come nota l’autore, “se il robot nasce dall’idea di automatizzare l’umano, l’androide rappresenta il tentativo di umanizzare la macchina. Il primo riflette storicamente la società delle masse, il secondo quello dell’individuo neoliberale” (p. 184). Fra gli innumerevoli film in cui sono presenti gli androidi risulta sicuramente interessante Westworld (1973) di Michael Crichton: in un parco a tema in cui “tutto è permesso”, i ricchi occidentali possono uccidere o violentare androidi a loro piacimento. Anche qui scatta il meccanismo della ribellione perché un ignaro turista, a un certo punto, sarà perseguitato da un robot-pistolero impazzito (Yul Brinner) in un’area tematica dedicata al selvaggio West. Alla categoria degli androidi appartengono anche alcuni personaggi di due film di Ridley Scott già ricordati, Alien e Blade Runner. In quest’ultimo avevamo incontrato anche Pris e Zhora, due androidi femminili o, per meglio dire, ginoidi (dal greco γυνή, “donna”) che, negli anni Ottanta e Novanta, offriranno lo spunto a molti “cliché action femminili” (pp. 193-194) “tra somatofobia e tecnofobia” (p. 195).

Nel “cinema dell’orrore tecnologico” sono poi ampiamente presenti i cyborg (contrazione di cybernetic organism, termine coniato da due scienziati della NASA nel lontano 1960), cioè gli esseri dotati di appendici meccaniche. Come scrive Malagnini,

la realtà ci sottopone ogni giorno casi concreti di cyborg a cominciare da chi si è sottoposto a un intervento per un bypass toracico o una protesi robotica per mani, gambe, avambracci, ecc. L’immaginario cinematografico ha invece continuato a creare mostri utilizzando la vecchia antinomia uomo-macchina, ereditata dalla fantascienza del secolo scorso. La figurazione e l’ontologia del cyborg, d’altro canto, sfumano oggi nella bolla del capitalismo tecnoscientifico, in un assemblaggio di corpi, tecnologie e politiche riproduttive che Donna Haraway ha ribattezzato ironicamente New World Order Inc. (p. 204).

Non si può non ricordare allora la teorizzazione del cyborg attuata da Donna Haraway nel suo celebre saggio uscito nel 1985 (Manifesto cyborg), in cui, all’interno di un approccio anti-tecnofobico, esso “rende problematica la condizione di uomo, donna, umano, razza, corpo. Il corpo femminile non è più il corpo materno; esclude ogni dualismo e ogni comunicazione universalmente comprensibile”6. Come nota l’autore, non sono numerosi i filmmaker che hanno descritto la nostra società come una cyborg society dal punto di vista degli oppressi: si può ricordare Alex Rivera con Sleep Dealer (2008) che mostra un futuro distopico in cui il capitalismo cyborg ha sigillato le frontiere tra il Messico e gli Stati Uniti (non troppo lontano dall’altrettanto distopica realtà che viviamo), e ha connesso i migranti a una realtà virtuale per sfruttarli direttamente a casa loro. Anche al di fuori delle proiezioni distopiche, si può pensare al nostro presente e osservare che, comunque, il corpo cyborg si presenta come “il corpo glorioso e sventrato dell’Antropocene” (p. 212).

L’orrore tecnologico può provenire anche dai media ed esiste tutto un filone di film dedicato a questo tema: il più significativo è senza dubbio Videodrome (1983) di David Cronenberg, in cui il terrore viaggia attraverso una comunicazione televisiva solcata da inenarrabili oscuri poteri e capace, addirittura, di forgiare una “nuova carne”. E se alla comunicazione televisiva, tipica del momento transizionale degli anni Ottanta, sostituiamo quella digitale ci troviamo proiettati nell’attuale immaginario tecno-horror e in buona parte della nostra realtà. Adesso non si parla solo di social e di comunicazione digitale ma anche di intelligenza artificiale che si mescola in modo pervasivo alle nostre vite e al mondo che ci circonda. Ad esempio – nota Malagnini – “una richiesta a ChatGPT richiede oggi 10 volte l’elettricità necessaria a una search Google ‘vecchio stile’” (p. 269). I consumi e le emissioni provocate da questi complessi sistemi elettronici provocano esorbitanti emissioni nell’atmosfera e “stiamo cominciando a realizzare che tra le AI e la catastrofe esiste dopotutto un nesso molto stretto e che non è la minaccia delle ‘AI cattive’ conosciuta al cinema, e accreditata anche da una parte dell’establishment politico. Il loro impatto materiale sulla crisi climatica è assai più concreto, per non parlare dei problemi di controllo democratico che la concentrazione economica prospetta” (ivi). Altro che androidi che viaggiano nello spazio e si ribellano ai propri creatori, altro che cervelloni elettronici sulle astronavi, altro che robottoni dominatori di lontani mondi distopici: le macchine della paura sono già arrivate nel nostro quotidiano e sono qui, oggi più che mai, in mezzo a noi.

Note

1) Cfr. S. Freud, Il perturbante, in Id., Un bambino viene battuto e scritti 1919/1920, Newton Compton, Roma, 1976, p. 80.

2) Ivi, p. 92.

3) Cfr. G. Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989, p. 190.

4) F. Moretti, Dialettica della paura in “Calibano”, 2, Il nuovo e il sempreuguale. Sulle forme letterarie di massa, Savelli, Roma, 1978, p. 81.

5) Ibid.

6) F. Fiorentin, Il cyberfemminismo di Donna Haraway, in “Codice Rosso”, 14 giugno 2022. Qui il link

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E mo’ sò dazi...

Fine delle chiacchiere, ora si fa sul serio. Nella prima riunione del suo governo, presente anche Elon Musk – che dunque dovrebbe essere considerato un “ministro” – Donald Trump ha confermato di aver preso la decisione di imporre dazi “del 25%” sui prodotti europei. Quanti avevano sperato che si trattasse solo di sparate minacciose per contrattare qualcosa su altri piani (la guerra in Ucraina, ecc.), o che ci fosse spazio per un trattamento individuale diverso (Meloni, insomma), devono ora fare i conti con la realtà.

Anche perché il tycoon ha dichiarato ufficialmente guerra all’Unione Europea in quanto tale: “non accetta le nostre auto o i nostri prodotti agricoli, si approfitta di noi. Io amo i Paesi della Ue, ma siamo onesti: l’Unione Europea è nata per fregare gli Stati Uniti e sta facendo un buon lavoro, ma ora sono io presidente”. Non preoccupa insomma soltanto quel che “l’Europa” fa, ma il fatto stesso che esista e si concepisca come un competitor sul mercato mondiale, con ambizioni “strategiche” certo velleitarie ma coltivate a lungo.

Al di là delle dichiarazioni di circostanza, come quelle europee che promettono immediata risposta sullo stesso piano, è bene tener d’occhio il dato economico e politico più rilevante, che non a caso è stato inquadrato seriamente soprattutto dagli industriali italiani, che sanno benissimo quanto i loro profitti derivino dall’essere contoterzisti della Germania e dunque secondo paese europeo nella classifica delle esportazioni verso gli Usa.

“È un cambio di paradigma, inaspettato e incredibile quello che arriva dagli Stati Uniti – commenta il presidente di Confindustria Orsini –. La minaccia non è quella di un impatto solo sulle dinamiche commerciali. La verità è ben più drammatica: qui si rischia la tenuta economica e sociale di molti stati dell’Unione e dell’Unione stessa. Quello che arriva dalla leadership americana è un attacco alle imprese e al lavoro europei. Il vero obiettivo è la deindustrializzazione del nostro continente, e quindi dei suoi livelli occupazionali”.

Una dichiarazione di guerra, abbiamo detto. Peraltro già implicita nella volontà di dare via libera all’uso delle stablecoin per favorire il deflusso del risparmio privato dai mercati europei verso Wall Street.

Una guerra dei dazi e monetaria che non solo mette fine a 80 anni di “amicizia” tra le due sponde dell’Atlantico (in realtà come sappiamo bene, un rapporto di sudditanza e di “sovranità limitata” da parte europea), ma mina tutti i pilastri di una relazione stabile. I rapporti economici, infatti, veicolano e facilitano tutti gli altri. Impostarli in termini di concorrenza feroce – mors tua, vita mea – è il modo migliore di spaccare tutto anche su altri piani.

Inevitabilmente, oltre alla presa d’atto della guerra aperta, Confindustria si preoccupa subito di passare all’incasso, chiamando il governo (e i governi di tutta Europa) ad agire subito secondo direttive che Orsini sintetizza velocemente: “Voglio citare tre linee di azione nette: sburocratizzazione, meno norme: il Clean Industrial Deal deve essere un patto per la crescita, non per la decrescita. Stop a multe e a dazi autoimposti sulla manifattura europea. E serve un piano industriale per la crescita economica e sociale europea”.

Poca roba, vien da dire, ma “vasto programma”... Chiamare in causa la burocrazia, infatti, nel linguaggio confindustriale significa sempre “meno controlli”, sia contabili che sull’attività produttiva (emissioni e sversamenti inquinanti, componenti dannosi, sicurezza sul lavoro, ecc.). Sono cose che angosciano già ben poco le imprese e non sarò difficile ottenere ancora più “briglie sciolte”.

Ma un “piano industriale per la crescita economica e sociale europea” è un sogno impossibile, visti i criteri costitutivi della comunità economica continentale, orientati alla più cinica concorrenza anche interna.

Ma anche questo appello contraddittorio – “più libertà alle aziende, ma con una programmazione continentale” – rende bene la confusione che regna da queste parti con l’avvento del “ciclone Trump” e la rottura ormai plateale dell’“asse euro-atlantico”.

Anche perché è ormai evidente che le vecchie ricette su cui era sopravvissuta tutta l’industria europea – salari bassi o congelati ai livelli di venti anni fa, aiuti pubblici alle imprese e alle esportazioni, riduzione dei diritti del lavoro, ecc. – ormai non bastano per mantenere la “competitività” con le produzioni degli ex paesi del “Terzo Mondo”.

È di questi giorni, per esempio, l’allarma che arriva dalla Francia, dove Michelin – uno dei principali produttori di pneumatici e “orgoglio nazionale” – va chiudendo uno stabilimento dopo l’altro, mettendo in strada qualche migliaio di lavoratori, nonostante i 3,6 miliardi di profitti registrati nel 2023. Lo stesso sta accadendo a Valeo, ArcelorMittal, Auchan.

I miliardi concessi sotto forma di agevolazioni fiscali (per la ricerca e sviluppo o per altre motivazioni “creative”) possono, come nel caso di Michelin, gonfiare i profitti aziendali, ma non risolvono il problema e non invertono dunque il declino industriale. Una prova empirica viene dal panorama delle industrie dominanti ancora oggi in Europa: sono le stesse di 25 anni fa. È rimasto tutto fermo, senza innovazione né ricerca di nuovi settori (informatica e intelligenza artificiale, qui, sono parole esotiche, dopo la chiusura della francese Bull o dell’italiana Olivetti).

L’inevitabile riduzione delle esportazioni verso gli Usa, in conseguenza dei dazi, si abbatte come una tempesta su una nave già rabberciata e mal progettata.

La UE prepara “piani”, cerca soldi e promette investimenti. Ma avviare nuovi settori produttivi richiede anni (mancano le competenze, tanto per cominciare), e certamente non impiegheranno i lavoratori che oggi o nei prossimi anni perderanno il lavoro (difficile che un operaio della Michelin o della Renault possa diventare ingegnere informatico...).

È la fine di un modello di sviluppo fondato sulla “furbizia”. Che somiglia molto da lontano all’intelligenza, finché non viene scoperta...

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Paragon: se nessuno sa nulla, bisogna (ri)partire dalle vittime

L’aspetto più sconcertante della vicenda Paragon (se non sapete nulla, leggete la mia precedente newsletter), più che il suo eventuale utilizzo da parte dell’Italia, è l’apparente incapacità di tutti – in primo luogo politica e istituzioni – a dare, se non spiegazioni, almeno delle minime informazioni di base.

Così, a distanza di settimane dalla notizia dell’attacco effettuato attraverso questo spyware ad uso governativo ai telefoni del giornalista Francesco Cancellato, e di vari attivisti connessi alle attività di salvataggio migranti nel Mediterraneo, la vicenda e lo spyware in questione sono già diventati una entità inconsistente, inafferrabile e direi ineffabile (letteralmente, se perfino le istituzioni minacciano querele, come riporta Fanpage, di cui Cancellato è il direttore).

Ancora poco e nulla sappiamo del suo funzionamento tecnico (in attesa che Whatsapp e Citizen Lab escano con informazioni più dettagliate). Sappiamo che Aise e Aisi (rispettivamente i nostri servizi esteri e interni) hanno infine ammesso di essere clienti di Paragon, di averlo usato, ma di non averlo impiegato contro giornalisti e attivisti.

Più precisamente il direttore dell’Aise Caravelli avrebbe confermato l’uso di Graphite, lo spyware di Paragon, ma non per spiare media o attivisti, riferisce Domani. E qualcosa di simile (sono informazioni filtrate attraverso il Copasir e riportate dalla stampa) avrebbe detto anche il direttore dell’Aisi, Valensise.

Non è nemmeno chiaro se i contratti di Paragon con l’Italia siano stati o meno rescissi, dato che la stampa estera aveva riportato questa notizia, e il governo italiano l’ha poi di fatto smentita. Come sintetizza Pagella Politica: “dopo che lo spionaggio è stato reso noto, il governo ha detto di non c’entrare nulla. Secondo il Guardian e Haaretz, Paragon Solutions avrebbe rescisso il contratto con l’Italia perché il governo avrebbe «violato i termini e il quadro etico», ma il ministro Ciriani ha smentito questa ricostruzione dei fatti, dicendo che il contratto con Paragon Solutions è ancora in vigore”.

Non solo. Il sottosegretario Mantovano aveva detto che la vicenda era “classificata”, e invece il ministro Nordio ne ha parlato alla Camera – racconta Il Post“negando che le strutture che dipendono dal suo ministero avessero contratti con società come Paragon, e dicendo inoltre che nel 2024 nessuno è stato intercettato dalla Polizia penitenziaria”.

(Se vi chiedete il perché di questa smentita, è che in questa grottesca caccia a chi avrebbe usato Paragon in Italia, in questo giallo in stile Dieci piccoli indiani, la Polizia Penitenziaria a un certo punto era rimasta col cerino in mano).

Dunque che si fa ora? Ripartiamo dai target dello spyware. Uno di questi è Luca Casarini, fondatore e capomissione di Mediterranea SavingHumans, che come gli altri è stato avvisato solo il 31 gennaio da un messaggio di Meta/Whatsapp. Un messaggio che in sostanza gli diceva di essere stato oggetto di un attacco di hacking governativo e di contattare Citizen Lab, il gruppo di ricercatori che studiano spyware governativi, per avere un’analisi del telefono e un supporto.

“Già il messaggio di Meta diceva di liberarsi del telefono. E anche Citizen Lab (che si sta occupando di una prima analisi del dispositivo) mi ha poi suggerito lo stesso, dato che neanche il ripristino delle modalità di fabbrica sarebbe stato sufficiente”, commenta a Guerre di Rete Casarini.

Su questa indicazione, che ritengo un punto importante, ho chiesto un parere a un veterano del settore. Uno che questi strumenti li ha sviluppati per anni, ovvero Valerio ‘valerino’ Lupi, CTO di Mentat, ex Hacking Team e Verint. Il quale mi conferma che, almeno per i dispositivi Android (perché di quelli si occupava), è una ipotesi del tutto plausibile. Ovvero il ripristino alle condizioni di fabbrica potrebbe non bastare.

Stesso parere anche da parte di Stefano Zanero, professore ordinario di “Computer Security” e “Digital Forensics and Cybercrime” al Politecnico di Milano, nonché tra le più autorevoli voci del mondo della sicurezza informatica in Italia e fuori. “Può avere senso”, mi dice. “Il ripristino viene comunque controllato dal software, non è impensabile che un bootkit fatto bene sopravviva”.

Ma Casarini racconta a Guerre di Rete come lo stesso Citizen Lab, contattato entro poche ore, gli abbia anche detto di mettere subito il telefono in modalità aerea, di avvolgerlo in carta stagnola e lasciarlo in un cassetto. Probabilmente per evitare interferenze nell’immediatezza della notizia.

“Se il telefono è infettato la cosa migliore è togliere la batteria, se possibile”, commenta ancora Lupi. “O metterlo in un posto dove non prende finché si scarica la batteria”.

Sempre la stessa Citizen Lab avrebbe detto a Casarini che Paragon sarebbe uno spyware molto sofisticato, e capace di molteplici funzioni. Una sorta di evoluzione del più celebre Pegasus, prodotto dalla concorrente NSO.

Nei resoconti giornalistici sulla scoperta dell’invio di questo spyware contro circa 90 utenti si è poi parlato dell’uso di un pdf e di chat di gruppo per veicolare l’attacco. Casarini non ricorda un’occasione, una chat o un pdf specifico (“ne ricevo in continuazione in diverse chat”, dice), ma ricorda invece un precedente (di cui ha anche scritto Mediterranea in un comunicato).

Ovvero di quando a febbraio 2024 aveva ricevuto un avviso da Facebook in relazione al suo account sul social network. L’avviso gli diceva di essere stato oggetto di un attacco informatico di tipo governativo, e di rivolgersi al centro assistenza. All’epoca Casarini non aveva preso troppo sul serio l’avviso e si era limitato a cambiare la password dell’account.

Ma gli è tornato in mente quando Citizen Lab gli ha chiesto informazioni al riguardo. “Hanno visto un’attività sospetta, un tentativo di infezione che però è stato bloccato. Forse una prima attività propedeutica per infezioni successive”, commenta Casarini.

Un genere di attività, anche con profili finti su Facebook, che Meta aveva raccontato in un report proprio del febbraio 2024, in cui erano citate anche aziende italiane, e che Citizen Lab ha inviato allo stesso Casarini.

Per l’attivista tutta la vicenda è grave dal punto di vista politico e culturale. Ma ha anche i contorni di una matrixiana, la chiama così, una Matrix all’italiana. E in fondo l’immagine si presta abbastanza: mentre si provano ad aprire delle porte, il palazzo si trasforma e le uscite si chiudono davanti ai nostri occhi. Inconsistente, inafferrabile e ineffabile.

Sempre che non arrivi, prima o poi, il Mastro di Chiavi.

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Europa senza bussola e ‘pace giusta’ dove conviene

di Alberto Negri

Paolo Gentiloni, già primo ministro italiano e per 5 anni di Commissario europeo, alla Johns Hopkins University: «l’Europa ha vissuto una sorta di seconda belle époque basata su tre pilastri: la protezione degli Stati Uniti, il libero commercio con la Cina e il gas a basso prezzo dalla Russia. Ma era una situazione che non poteva durare».

Gli europei non si accorgono neppure più dove stanno andando, o forse fanno finta di non saperlo: sono un po’ sonnambuli e un po’ sottomessi al loro destino. Siamo all’agonia della politica estera comune europea, che per altro non è mai esistita, cullando nel settore difesa l’idea di una Banca per il Riarmo destinata a divorare altre risorse. Hanno sempre seguito l’agenda americano-israeliana, dall’Est Europa al Medio Oriente, e ora ne pagano le conseguenze.

La loro disonestà è tale da pensare che la guerra in Ucraina sia cominciata il 24 febbraio 2022 e non quando, nel gennaio 2014, il sottosegretario di Stato Usa Victoria Nuland, in una conversazione con il suo ambasciatore a Kiev, pronunciò la ormai famosa frase «Fuck the Eu», letteralmente «l’Unione europea si fotta».

Si discuteva ancora di un accordo tra il governo ucraino del filo-russo Viktor Janukovich e l’opposizione. Allora non c’era Trump alla Casa bianca ma Barack Obama e il suo vice era Joe Biden, che accorse a Piazza Maidan a celebrare il primo anniversario delle proteste mentre suo figlio Hunter guadagnava milioni di dollari in Ucraina nel settore energetico.

E ora vorremmo stupirci se Trump trascina Zelensky a firmare l’accordo multi-miliardario sulle terre rare mentre Putin, diventato ormai a Washington un «volenteroso dittatore», si offre di portargli quelle in possesso dei russi? Chi più ne ha più ne metta mentre ognuno si fa i propri conti in tasca e Macron, nella sua visita da Trump, reclama che l’Europa ha versato all’Ucraina il 60 per cento degli aiuti, più degli Stati uniti. Ma il presidente americano si tappa le orecchie.

Questa guerra, nonostante le copiose commesse all’industria bellica americana, è un «cattivo affare» e bisogna chiuderla. C’è da pensare alla Cina. A raccontare la favoletta della «pace giusta» ormai insistono solo i giornali del mainstream, spiazzati dagli eventi. Ma quale pace giusta? Gaza e la Palestina sono la prova che in Europa non ci crede nessuno.

La sottomissione europea al complesso militar-industriale israelo-americano è totale.

Pochi giorni dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre, Biden spostava le portaerei nel Mediterraneo orientale e stanziava miliardi di dollari di aiuti militari per Israele: gli Stati Uniti si sono immediatamente schierati non per la pace ma per una escalation del conflitto. E noi europei con loro, mascherando i nostri aiuti a Israele dietro la ormai sfiorita formula «due popoli e due stati». Il complesso militar-industriale israelo-americano si è schierato all’Onu con Putin e le dittature perché tra un po’ gli Usa riconosceranno l’annessione israeliana della Cisgiordania.

Chiediamo giustamente a Putin di ritirarsi dai territori occupati in Ucraina ma Israele occupa il Libano, ha esteso la sua presenza nel Golan siriano e si sta divorando la West Bank. Giustifichiamo tutto questo con la necessità di Israele di preservare la sua “sicurezza”, le stesse argomentazioni che usa Putin quando chiede alla Nato di tenersi lontana dall’Ucraina. Non è un caso che contro la risoluzione all’Onu che difendeva l’integrità territoriale dell’Ucraina abbiano votato Usa e Israele insieme a Russia, Bielorussia, Mali, Nicaragua, Corea del Nord e Ungheria (Iran e Cina si sono astenuti, si presume per la vergogna).

Il Consiglio di Sicurezza ha poi approvato una brevissima risoluzione degli Stati Uniti che chiede la «rapida fine della guerra», senza però citare la Russia come aggressore e senza far riferimento alla sovranità territoriale di Kiev. Francia e Gran Bretagna, che avrebbero potuto porre il veto, hanno preferito astenersi, spianando la strada alla versione di Trump che piace tanto a Israele. Da notare il doppio binario dell’Italia.

Stiamo con l’Unione europea ma Meloni, con la scusa del Forum con gli Emirati, si è sfilata dalla cerimonia di Kiev per il terzo anniversario della guerra: prendiamo 40 miliardi di dollari di mancia dagli sceicchi membri del Patto di Abramo con Israele e la premier incassa le lodi sperticate di Trump.

Cosa volete di più? È il manuale delle giovani marmotte di Trump. La Ue paga anni di sottomissione a Usa e Israele: Trump è l’anello mancante di decenni in cui abbiamo giustificato, partecipato o avallato guerre di occupazione e aggressione, dall’Iraq alla Libia, dall’Afghanistan alla Palestina, provocando la disgregazione di interi paesi e popoli, centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. Basti pensare all’Iraq nel 2003, dove tra i soldati si contava pure un nutrito contingente di ucraini. Fu un conflitto per «esportare la democrazia» che ha precipitato la regione nell’anarchia e nel terrorismo integralista più feroce.

In un momento in cui ci si indigna per le bugie e i travisamenti della realtà di Trump, bisogna ricordare che la guerra del 2003 fu la più grande fake news della storia recente, quando gli Usa giustificarono l’attacco con una campagna di stampa e propaganda mondiale che sbandierava il possesso da parte di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa che non furono mai trovate. Venne persino esibita all’Onu dal segretario di stato Powell una falsa provetta con armi chimiche. Una tragica commedia.

Nessuno dei responsabili ha mai pagato – né Bush né Blair – e abbiamo partecipato a quella guerra e alle altre senza fiatare. Ora ci tocca accettare le bugie di Trump e gli insulti del suo vice Vance a Monaco: sanno con chi hanno a che fare. I sottomessi europei.

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Siria - Continuano l’espansione sionista e la farsa di HTS


Proponiamo la traduzione di due articoli del giornale libanese laico e antimperialista Al-Akhbar circa gli ultimi eventi in Siria, che sono di una certa rilevanza.

Il regime sionista, infatti, sta tentando di approfittare dei dissidi fra le autorità centrali di HTS e le regioni del sud siriano per continuare ad espandersi, col pretesto di difendere queste ultime dai salafiti al potere a Damasco.

Inoltre, HTS, per promuovere ulteriormente la propria immagine, sta aprendo una fantomatica “conferenza di dialogo nazionale”, alla quale, però, le altre componenti politiche ammesse, possono per lo più partecipare con loro esponenti solo a titolo personale e non organizzato. Tale conferenza, ovviamente, ha solo facoltà di “emettere raccomandazioni” nei confronti dell’autoproclamato presidente Al Golani. Nulla di vincolante.

Intanto aumentano, fra la popolazione, le manifestazioni di dissenso in reazione ai danni provocati dalla terapia economica shock, a base di privatizzazioni e libero mercato messa in atto dal nuovo regime.

Per quanto riguarda il fronte curdo, sembrano procedere bene le trattative fra l’Amministrazione Autonoma del Nord-Est e HTS, mediati dagli USA, per evitare un’azione militare turca: è stato, infatti, stretto un accordo inerente le forniture di petrolio.

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L’occupazione israeliana intensifica l’aggressione nella Siria meridionale. Timori di una spartizione

Le tensioni stanno aumentando nella Siria meridionale in quanto l’occupazione israeliana intensifica la sua aggressione, prendendo di mira gli altopiani strategici e le fonti vitali di acqua dolce. Le forze di occupazione hanno ampliato la loro presenza nelle aree sequestrate dopo il crollo del precedente regime siriano, consolidando il controllo su posizioni chiave tra incessanti attacchi aerei che hanno decimato le capacità dell’esercito siriano. L’amministrazione siriana di transizione ha emesso condanne verbali di queste violazioni, ma non ha ancora adottato misure concrete in risposta.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato ieri: “Non consentiremo alle forze del nuovo regime siriano di schierarsi a sud di Damasco”. Senza specificare posizioni precise, ha aggiunto: “Non tollereremo minacce contro la comunità drusa”. Queste osservazioni segnalano che l’occupazione è pronta ad effettuare incursioni più profonde nel territorio siriano con il pretesto di “proteggere la popolazione drusa”.

Le dichiarazioni di Netanyahu hanno riacceso le preoccupazioni di una spartizione, anche perché si è recentemente costituito a Sweida un “consiglio militare” su cui vi è una diffusa incertezza sui suoi obiettivi, anche se rivendica il proprio “impegno per l’unità della Siria”.

Ciò ha alimentato l’indignazione pubblica nelle città della Siria meridionale, tra cui Daraa, Suwayda e Quneitra, tre aree che, dalla caduta del precedente governo siriano, hanno affrontato pesanti incursioni e l’occupazione israeliana. Oggi si sono svolte piccole manifestazioni nelle tre città, con striscioni che recitavano: “Il sud della Siria rimarrà siriano con il resto della Siria”, invitando la leadership locale e l’amministrazione a rispondere alle dichiarazioni di Netanyahu.

Parallelamente, sono state annunciate richieste di diverse manifestazioni per domani a mezzogiorno, tra cui una protesta a Damasco, che chiede “pressione per costringere l’occupazione a rispettare la risoluzione di disimpegno del 1974”, “fermare le violazioni israeliane sul territorio siriano” e “il ritiro completo delle forze israeliane dai territori occupati dalla Siria senza condizioni”.

In aggiunta alle provocazioni, un giornalista israeliano di Channel 12 ha annunciato la produzione di un documentario sulla Siria dopo la caduta di Assad. Il giornalista, che è entrato ripetutamente nel territorio siriano, comprese le aree meridionali precedentemente detenute da gruppi di opposizione e ora controllate dall’amministrazione di transizione, ha pubblicato una foto da un bar di Damasco.

La rivelazione ha scatenato l’indignazione tra i siriani, spingendo gli attivisti a lanciare una campagna per chiedere la sua “espulsione immediata” e un “divieto totale di ingresso dei cittadini israeliani” in Siria. Nonostante l’indignazione pubblica, le autorità siriane sono rimaste in silenzio sulla questione.

Contemporaneamente, le forze della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti in Siria hanno intensificato le loro operazioni militari con un attacco con droni vicino a Killi nella provincia di Idlib, prendendo di mira il militante di alto rango Jaafar Al-Turki. Questo segna il secondo attacco di questo tipo nel giro di pochi giorni, dopo un precedente attacco che ha ucciso Wasim Birkdar, un leader della fazione Horras Al-Din, fratello di Samir Birkdar, che attualmente dirige le dotazioni religiose del governo di transizione a Damasco.

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Conferenza sul dialogo nazionale in Siria: riforma o teatro politico?

L’amministrazione transitoria della Siria ospiterà la Conferenza sul dialogo nazionale domani, dopo un incontro introduttivo tenutosi oggi. Circa 600 partecipanti sono stati invitati a discutere di sei questioni chiave: la costituzione, le istituzioni statali, le libertà personali, la giustizia di transizione, il ruolo delle organizzazioni e i principi economici che guidano il futuro della Siria. La conferenza emetterà raccomandazioni indirizzate al presidente di transizione, Ahmad Al-Sharaa, ma “non avrà autorità legale”.

Ci sono preoccupazioni per gli sforzi dell’amministrazione di rafforzare il controllo sulle istituzioni statali e spingere in direzione di un’economia di mercato aperta senza misure per proteggere la produzione locale, che è già in declino. Sono emerse richieste di evitare di “smantellare le istituzioni statali” e di garantire che le “riforme” economiche non danneggino ulteriormente le industrie nazionali.

Le preoccupazioni economiche sono aumentate dopo che il governo provvisorio siriano ha firmato un accordo su petrolio e gas con l’amministrazione autonoma curda. L’accordo prevede la fornitura di carburante alle aree controllate dal governo in cambio di una somma non rivelata. I funzionari di Damasco hanno descritto l’accordo come una “continuazione delle politiche precedenti”.

L’accordo s’inserisce nel solco delle negoziazioni in corso tra le fazioni curde e l’amministrazione di transizione siriana, in seguito alla mediazione franco-americana che ha contribuito a unificare le posizioni curde. I colloqui si concentrano sulla stabilizzazione della Siria nord-orientale, con discussioni che riguardano questioni amministrative e gestione delle risorse.

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Nel 2024, la UE ha speso più in combustibili fossili russi che in aiuti all’Ucraina

Continuano i confronti sulle prospettive di pace in Ucraina, mentre Trump e Macron si sono incontrati a Washington, con i media nostrani che hanno preso l’occasione in cui il presidente francese ha corretto quello statunitense sugli aiuti dati all’Ucraina per rinfocolare una sorta di orgoglio europeista.

Rimane solo questo a una realtà, quella UE, che continua ad agitare la guerra a tutti i costi contro la Russia, ma che nel frattempo sta facendo i conti con un inverno freddo e una profonda crisi industriale peggiorata dagli alti costi dell’energia. La contraddizione è presto servita, perché i fatti – e le necessità economiche – hanno la testa dura.

Infatti, l’istituto finlandese Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA) ha da poco pubblicato uno studio nel quale si evidenzia come, a ridosso del terzo anniversario dell’inizio dell’intervento russo in Ucraina, i paesi UE abbiano speso di più nell’acquisto di combustibili fossili russi che nell’erogazione di aiuti a Kiev.

Sono 21,9 i miliardi di euro spesi in idrocarburi russi, con una riduzione in valore rispetto all’anno precedente del 6% ma solo dell’1% in termini di volume. Per quanto le due grandezze non siano immediatamente comparabili, gli aiuti inviati all’Ucraina ammontano a 18,7 miliardi di euro.

È di certo interessante notare come, stando a un grafico redatto dello stesso CREA, le esportazioni di fonti fossili sono più o meno ancora simili in valore a quelle precedenti il febbraio del 2022. Si sono infatti consolidati i rapporti con paesi non appartenenti alla filiera euroatlantica, ma sostanzialmente anche la UE non ha potuto fare a meno dei combustibili russi.

I ricercatori del CREA puntano il dito contro la ‘flotta fantasma’ di Mosca, attraverso la quale continua ad arrivare petrolio russo sul mercato comunitario, e sottolineano come i ricavi russi del settore potrebbero crollare del 20% se le sanzioni venissero rafforzate e ne venisse aggiustato il tiro.

Ma bisogna intendersi sul fatto che, se si volesse davvero fare a meno di tutti i prodotti petroliferi che sono in un qualche modo legati al Cremlino, significherebbe tagliare rapporti da miliardi di euro con mezzo mondo. Una ‘guerra mondiale’ che è evidente Bruxelles non si può permettere, viste le condizioni attuali in cui versa, già tragiche.

La realtà è che sono gli stessi paesi UE che non possono fare a meno della Russia. Per fare un esempio, l’acquisto di gas liquefatto russo è aumentato del 7% tra il 2023 e il 2024. E il ministro dell’Ambiente italiano Pichetto Fratin ha già detto che “fatta la pace, si può tornare a comprare il gas russo”.

Nello stress test della frammentazione del mercato mondiale, la UE si è definitivamente rivelata il vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro, mostrandosi completamente inadeguata alla nuova fase della competizione globale aperta dalla seconda presidenza Trump, in cui l’Europa non è più l’alleato ad ogni costo degli States.

La guerra a oltranza contro la Russia, che viene ancora agitata sperando di trovare nell’economia bellica un volano di crescita e anche un catalizzatore politico nella centralizzazione delle decisioni, fa ormai a pugni anche con la realtà dei rapporti economici con Mosca, al di là di quel che ne dicano gli oltranzisti delle inutili sanzioni.

Il blocco del gas russo attraverso l’Ucraina ha avuto l’unico effetto di aumentare i prezzi dell’energia, che in questo freddo inverno e nel mezzo di una profonda crisi industriale si stanno ripercuotendo sempre di più sui lavoratori e sulla produzione stessa. Sarebbe il caso che le classi dirigenti europee facciano i conti con la propria piccolezza.

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L’Arabia Saudita emette obbligazioni in euro. Un segno dei tempi

L’Arabia Saudita ha avviato la vendita del suo primo green bond – obbligazione verde – denominato in euro e dalla durata di sette anni, con lo scopo di sostenere la strategia Saudi Vision 2030 che mira a diversificare l’economia nazionale dalla dipendenza dal petrolio entro la fine del decennio.

Lo ha reso noto l’agenzia Bloomberg, citando una fonte vicina alla transazione, secondo cui l’offerta del green bond viene commercializzata insieme a un’obbligazione convenzionale saudita dalla durata di 12 anni.

Con questa scelta l’Arabia Saudita è il primo Paese del Medio Oriente a vendere un green bond denominato in euro, in base a quanto riferito da Bloomberg. Secondo la nota agenzia di news economiche, il ministero delle Finanze saudita ha incaricato la banca britannico Hsbc, la multinazionale statunitense JPMorgan e la banca francese Societe Generale coordinatori globali per la vendita del green bond in euro.

Il debito pubblico dell’Arabia Saudita è in aumento. A dicembre scorso ha raggiunto 319,7 miliardi di dollari, rispetto ai 280 miliardi dello stesso mese del 2023. L’emissione di un’obbligazione in una valuta estera può aiutare un Paese a diversificare la propria base di investitori e potenzialmente a ridurre i costi di finanziamento.

L’emissione di green bond in euro da parte dell’Arabia Saudita consentirà agli investitori dei mercati dei capitali europei di acquistare queste obbligazioni verdi per finanziare progetti di transizione energetica che rientrano nella più ampia strategia climatica del Regno.

Il fondo sovrano dell’Arabia Saudita Pif (Public Investment Fund) emette green bond dal 2022 e si è impegnato a sviluppare il 70 per cento degli obiettivi della Saudi Vision 2030 in materia di energia da fonti rinnovabili.

Con questa strategia, Riad punta a far sì che metà dell’elettricità a livello nazionale sia alimentata da fonti rinnovabili entro la fine del decennio e mira a raggiungere zero emissioni nette entro il 2060.

L’Arabia Saudita è il primo esportatore di petrolio al mondo ed è ancora molto dipendente da questa risorsa energetica. Anche se il suo peso nel Prodotto interno lordo nazionale è via via diminuito, nel 2024 ne rappresentava ancora circa il 40 per cento. Secondo le stime del bilancio saudita per il 2024, le entrate dello scorso anno sono state pari a 202 miliardi di dollari provenienti dal petrolio, contro i 126 miliardi di dollari provenienti da fonti non petrolifere.

L’agenzia Nova riporta che il 24 gennaio scorso, parlando con il sito web di approfondimento sul Medio Oriente Al Monitor a margine del Forum economico mondiale di Davos, il ministro delle Finanze saudita, Mohammed al Jadaan, ha affermato che il Regno potrebbe raggiungere prima del previsto il suo obiettivo per il 2030 nel settore dell’energia da fonti rinnovabili. Sempre il mese scorso, Riad ha aggiunto alla sua rete elettrica il più grande sistema di accumulo di energia a batteria, con una capacità di 500 megawatt e la possibilità di immagazzinare 2 mila megawattora di elettricità.

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26/02/2025

Le colline hanno gli occhi (2006) di Alexandre Aja - Minirece

Il conflitto capitale lavoro si è acuito durante la ultima rivoluzione industriale

di Luciano Vasapollo

I primi conflitti della storia iniziavano già all’interno delle società tradizionali in cui era presente l’opposizione tra il proprietario fondiario ed il contadino. Nel corso del tempo, dalle disuguaglianze sociali sempre più forti scaturirono delle rivolte, dovute principalmente ad uno sviluppo più intensivo dei processi produttivi che portava allo sfruttamento eccessivo dei lavoratori e allo stesso tempo al loro impoverimento.

Il conflitto capitale lavoro si è così accentuato durante la rivoluzione industriale, tanto da portare ad episodi caratterizzati da violenza ed aggressioni. Tutto ciò si verificò proprio perché i lavoratori non riuscivano ad accettare l’appropriazione di una parte consistente della ricchezza da parte dei detentori del capitale, senza che quest’ultimi avessero mai lavorato per produrre quelle determinate ricchezze.

È proprio da questi processi interni alle società e alle popolazioni che i conflitti sociali nel corso dei decenni si sono acutizzati e focalizzati proprio su alcune questioni che riguardano la ripartizione del prodotto e la sua distribuzione pro-capite, a livello nazionale e globale.

La questione salariale ha iniziato a creare scalpore già nel XIX secolo anche se la questione della ripartizione tra salari e profitti ha sempre occupato il primo posto nel conflitto distributivo.

Piketty[1] nella sua opera intuì una caratteristica fondamentale del sistema economico dominante a livello mondiale ossia la legge ferrea del capitalismo che determina che il capitale cresca più dell’economia creando disuguaglianze. Prima di procedere ad un’analisi di quest’ultimo è quindi necessario capire quali sono gli elementi di base che costituiscono la ricchezza a livello mondiale.

Procedendo con ordine, innanzitutto bisogna definire cos’è il Reddito Nazionale. Thomas Piketty fornisce una spiegazione di questo aggregato contabile spiegandoci che «misura l’insieme dei redditi di cui dispongono i residenti di un dato paese nel corso di un anno, quale che sia la forma giuridica assunta da tali redditi»[2].

Il reddito nazionale è quindi strettamente legato al PIL in quanto per calcolarlo bisogna sottrarre dal PIL stesso il deprezzamento del capitale che è stato utilizzato per realizzare un determinato prodotto. Successivamente, bisogna sommare i redditi netti dell’estero alla produzione interna nazionale.

Considerando che i flussi annuali dei redditi coincidono con i flussi annuali di produzione, e che tutta la produzione dev’essere spartita tra la popolazione in forma di redditi da lavoro e redditi da capitale, la porzione di reddito da distribuire non può essere maggiore della produzione se non avviene la creazione di nuove ricchezze.

Il secondo fattore da prendere in considerazione è il capitale che invece viene definito come «l’insieme degli attivi non umani che possono essere posseduti o scambiati sul mercato. Il capitale comprende in particolare l’insieme del capitale immobiliare (…) impiegato per l’alloggio privato e del capitale finanziario e professionale (…) impiegato dalle imprese e dalle amministrazioni»[3].

È importante specificare che il capitale può essere posseduto da privati, dallo Stato o dalle amministrazioni pubbliche e comprende ciò che può essere posseduto e successivamente scambiato sul mercato.

Dall’unione di questi elementi possiamo finalmente esplicitare come si calcola il rapporto capitale / reddito ossia dividendo lo stock di capitale[4] per il flusso annuo di reddito[5]. Questa particolare formula α = r x β rappresenta la prima legge fondamentale del capitalismo che consente di poter mettere in relazione i tre concetti fondamentali per l’analisi del sistema capitalista, di seguito elencati:

α = rapporto capitale/reddito;

r = tasso di rendimento medio del capitale[6];

β = quota dei redditi da capitale nel reddito nazionale.

Il rapporto capitale/reddito indica il valore totale del capitale di un’economia diviso per il reddito nazionale annuale. Piketty sostiene nella sua opera che l’evoluzione di questo rapporto nel tempo è fondamentale per comprendere la dinamica della disuguaglianza economica. In sostanza, un aumento del rapporto capitale/reddito significa che una quota sempre maggiore della ricchezza nazionale è concentrata nelle mani di pochi, mentre la parte rimanente della popolazione vive principalmente del proprio reddito da lavoro.

La suddetta formula ed uguaglianza contabile permette infatti di poter verificare ed analizzare quanto sia rilevante il capitale all’interno di un paese nel suo complesso o a livello mondiale.

Piketty[7], nei suoi testi, è stato in grado di rappresentare graficamente delle stime dell’evoluzione dell’andamento globale del capitale/reddito, a partire dal 1879 fino ad arrivare al 2100. Innanzitutto, si può constatare che l’andamento abbia seguito una curva ad U con le relative fasi di crescita-decrescita-crescita. Secondo le stime fino al 2090, il rapporto capitale/reddito tenderà a crescere esponenzialmente fino a raggiungere quasi il 700% del reddito nazionale.

Il rapporto capitale / reddito si collega al tasso di risparmio S del paese e al tasso di crescita g del suo reddito nazionale.

La seconda legge fondamentale del capitalismo[9] β = s / g invece permette di far capire che delle piccole variazioni dei tassi di crescita possono comportare dei notevoli cambiamenti al rapporto capitale/reddito sul lungo termine.

La formula è così composta:

β = rapporto capitale/reddito;
s = tasso di risparmio;
g = tasso di crescita.

Questa legge dimostra che un paese che risparmia molto e cresce lentamente accumula sul lungo periodo un enorme stock di capitale. La differenza con la prima legge del capitalismo è che quest’ultima rappresenta una pura uguaglianza contabile valida in ogni tempo e luogo, mentre la seconda legge è il risultato di un processo dinamico.

Inoltre, permette di poter spiegare una realtà molto significativa: più bassa è la crescita, più grande è il risparmio e più c’è la possibilità di accumulare capitale. Permette anche di determinare le quote di ricchezza possedute dalle persone calcolate ed espresse in annualità di reddito. Questo calcolo è fondamentale per comprendere come sia distribuita la ricchezza a livello globale e per determinare le disuguaglianze presenti.

La legge più importante elaborata da Piketty[10] è però quella che esprime la vera contraddizione del capitalismo r > g: il capitale essendo in grado di riprodursi da solo, può crescere più in fretta rispetto al prodotto. Si tratta di una vera e propria disuguaglianza in cui r (tasso annuo di rendimento privato del capitale) risulterà quasi sempre superiore a g (tasso di crescita del reddito e della produzione).

Questo meccanismo, verificatosi frequentemente nel corso dei secoli e in più continenti, ha comportato un aumento del valore dei patrimoni privati ereditati dal passato, rispetto all’aumento del valore della crescita economica generale e del risparmio individuale.

Quando r è maggiore di g significa che i patrimoni del passato si ricapitalizzano più in fretta rispetto all’andamento del processo di produzione dei redditi. In tali condizioni è pressoché inevitabile che i patrimoni ricevuti in eredità prevalgano sui patrimoni accumulati nel corso del lavoro, raggiungendo livelli assai elevati incompatibili con i valori e con i principi della giustizia.

Il processo di accumulazione e distribuzione dei patrimoni contiene in sé fattori talmente potenti da spingere la divergenza verso un livello di disuguaglianza elevato e a lungo termine, le dinamiche della distribuzione delle ricchezze potranno portare a delle conseguenze preoccupanti a livello mondiale.

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Nessuna democrazia nell’azienda scuola

Dalla discesa in campo del cavaliere Silvio Berlusconi ad oggi, la spettacolarizzazione e la mercificazione, che vanno a braccetto con lo sfruttamento, sono diventate più insidiose, fagocitando tutti gli ambiti dell’esistente, compresa l’educazione.

In seguito cercheremo di fare il punto su cosa ne è della scuola degli anni in cui non si parla d’altro che di intelligenza artificiale, telemedicina, viaggi spaziali per colonizzare nuovi pianeti e guerra. Il tutto condito da paillettes, psicofarmaci e sedativi di varia natura, per poter reggere e tirare avanti.

Condizione del docente e falsi miti

I docenti della scuola pubblica sono quasi per l’80% donne, che raggiungono il ruolo intorno ai 40 anni, dopo master, abilitazioni, tirocini, concorsi ed anni di supplenze, più o meno lontani dal loro paese d’origine. Il lavoro sottopagato e usurante, per via della sottostimata componente emotiva e relazionale, al di là di quella didattica, il non riconoscimento a livello comunitario, le vessazioni e le derisioni da parte di superiori, genitori, studenti e tutti gli pseudo-intellettuali, che a turno prendono parola, per descrivere situazioni di cui non hanno contezza e per snocciolare consigli e disposizioni, mette a dura prova il loro sistema nervoso, oltre che le loro finanze.

Uno studio dell’Osservatorio Nazionale Salute e Benessere dell’Insegnante del 2024 ha confermato che addirittura il 67% dei docenti intervistati (su un primo campione di 2.500 docenti distribuiti in tutta Italia) soffre di burnout; più della metà avverte un basso senso di efficacia professionale; oltre il 30% degli insegnanti ha dichiarato che nell’ultimo anno, a causa dello stress accumulato ha manifestato difficoltà a portare a termine il lavoro, ridotto il numero delle ore di sonno, assunto sostanze (sigarette, alcol, caffè...).1

Le risposte di stato e ministero a questo malessere sono nell’ordine:

- mantenere quasi gli stessi stipendi, nonostante l’inflazione (a parte i bonus), che per questo risultano tra i più bassi in Europa2;

- aumentare la burocrazia e cambiare di continuo le regole di gestione, così che si sia costretti ad un aggiornamento continuo su questioni che niente hanno a che vedere con la didattica;

- lasciare molte zone d’ombra a livello legislativo, in cui l’interpretazione si fa fumosa; 

- sovraccaricare il docente di ulteriori responsabilità e lasciarlo in balia di fuggevoli mode pedagogiche e degli umori dei genitori, che nuovi clienti dell’azienda, hanno sempre ragione.

Se mettete piede in una scuola e non siete ciechi, ecco probabilmente cosa vi si parerà davanti: edifici vecchi, freddi e cadenti3; aule per lo più sporche, perché il numero esiguo dei collaboratori scolastici non permette una reale pulizia degli spazi4; alunni con gravi problemi psichici, che vengono gestiti con le scarse risorse e figure disponibili, in nome della sbandierata “inclusione”, che senza lungimiranti investimenti, non po’ tradursi in una reale integrazione. In queste poco salubri condizioni lavorative, i docenti spesso non hanno neanche il tempo per andare in bagno, perché devono sempre vigilare sui propri alunni, senza pause previste dal contratto. La cistite si va a sommare ai malesseri summenzionati. E come poveri cristi si trascinano nei corridoi, stanchi appena pochi mesi dopo l’inizio delle lezioni.

Ore di lezione e disinformazione

Si è soliti pensare che il lavoro del docente consista in 18 ore frontali e tre mesi di vacanze. E sono queste le cause di una stupida guerra tra poveri, la vecchia classe media, il cui campo di battaglia sono i social e le cui armi sono insulti infantili.

Da un lato però dovrebbe essere facilmente compreso che un’ora in classe non è paragonabile per stress ad un’ora in un ufficio, così come nessuno si sognerebbe di paragonare un’ora di lavoro di uno psicoterapeuta ad un’ora di lavoro di un salumiere, tenendo presente lo studio, le competenze, le difficoltà e la complessità, che caratterizzano i diversi lavori. Dall’altro bisogna tener conto di tutte le ore di lavoro sommerso, che secondo statistiche e rilevazioni, arriverebbero a 1500 in un anno5.

Non retribuite, né riconosciute ovviamente.

Riforme e conseguenze

Bisogna tener presente che negli ultimi 30 anni si è innalzato sempre di più l’obbligo scolastico e sottolineata l’importanza di piani di studio individualizzati nei casi di disturbi dell’apprendimento (DSA) o più in generale di bisogni educativi speciali (BES), categoria in cui si ritrovano situazioni di svantaggio di diversa natura.

Inoltre è stata regolamentata la formazione dei docenti di sostegno, così da migliorarne l’intervento coi piani educativi individualizzati (PEI).

Allo stesso tempo però i tagli progressivi, l’autonomia scolastica e l’aziendalizzazione hanno avuto due conseguenze sostanziali: la ricerca spasmodica di una spendibilità applicativa immediata del sapere, ravvisabile nella didattica e nei progetti (tra i primi l’alternanza scuola lavoro); e le riorganizzazioni e gli accorpamenti, cominciati nel 1994 con la creazione degli istituti comprensivi.

L’istituto comprensivo – Il nuovo Moloch

Di solito un Istituto comprensivo comprende una scuola secondaria di primo grado, una o più scuole primarie ed una o più scuole dell’infanzia. Tutte facenti capo ad un’unica segreteria e dirigenza. Le suddette scuole, di grado diverso o uguale che sia, sono spesso collocate in plessi diversi.

Le conseguenze immediate sono lo smembramento del personale e l’impossibilità di incontro e condivisione di spazi, attività, idee, problemi e opinioni. Base necessaria per poter fare gruppo, esercitare il potere che si ha e rivendicare dei diritti.

L’unico momento in cui tutti questi diversi docenti si riuniscono è durante il Collegio docenti unitario (CDU). Ed è proprio quest’organo collegiale così importante che diventa la cartina tornasole di un intero paese: la nostra bella Italia.

Al cospetto del dirigente della nuova azienda scuola, docenti operai addetti a diverse mansioni, a seconda dei gradi di assegnazione, ascoltano l’elenco delle nuove disposizioni da votare, in totale incoscienza politica e di classe, senza un confronto pregresso, né uno studio. Quasi sempre un vero confronto è impossibile anche durante la seduta, che va avanti per votazioni ad alzata di mano, con un’irrisoria percentuale di astenuti e/o contrari.

Votazioni che costruiranno la realtà della scuola e il futuro del nostro paese.

Anche nell’azienda scuola si chiedono sacrifici ai docenti, operai del sapere, affinché l’offerta formativa sia appetibile e possa richiamare più iscritti possibili, attraverso progetti, gare, gite, tutte da reclamizzare durante gli open day aziendali.

La paura ben integrata dal docente medio è quella di perdere ore della propria cattedra. Tutto il resto va in secondo piano. Ma tutto il resto è esattamente ciò che ne alimenta il malessere. Solo che non avendo consapevolezza dei propri mezzi, capacità di riflessione e di riorganizzazione, cerca di salvare il salvabile, che diventa sempre meno.

Alla luce di queste dinamiche, i consigli, i collegi, fino alle assemblee e alle concertazioni sindacali sono completamente svuotate del loro potere di conflittualità riformista, senza neanche scomodare quella rivoluzionaria.

Identica situazione può essere riscontrata nelle scuole secondarie di secondo grado, in cui sono accorpati diversi indirizzi. 

PNRR e false speranze

In questi giorni, così come lo scorso anno, in tutte le scuole italiane si assiste alla rincorsa per trovare esperti e tutor per poter vincere i bandi ed accaparrarsi i fondi del PNRR, ingolfando ulteriormente il lavoro burocratico di segreterie ridotte all’osso dai tagli pregressi.

Non sempre la selezione avviene su competenze specifiche, per cui chi vuole arrotondare il misero stipendio da docente e regalare alla scuola un nome di un altro progetto da mettere in elenco per farsi pubblicità, svolgerà alla meno peggio i nuovi compiti previsti.

La riqualificazione, con i soldi a debito del PNRR, dovrebbe trasformare la scuola italiana, con un upgrade a 4.0, creando aule digitalizzate, introducendo progetti di robotica e di IA fin dalla primaria ecc., ma senza avvalersi della tecnologia già presente, per esempio con riunioni da remoto. Dovrebbe ridurre la dispersione scolastica con progetti di recupero in piccoli gruppi per alcune materie e con incontri individuali di 10 ore (mentoring). Dovrebbe garantire un rinnovamento nell’edilizia scolastica.

Ma, nonostante i fondi già stanziati, al di là di interventi sporadici, la realizzazione di nuove scuole resta un miraggio, essendo dello 0,6% la percentuale degli ultimi 5 anni. Basta dare uno sguardo al XXIII report “Ecosistema scuola” di Legambiente6, per avere un quadro dell’arretratezza e della lentezza burocratica, per cui più del 40% degli interventi di riqualificazione sono bloccati nella fase iniziale del progetto.

Come fanno a non tornare alla mente tutte le speculazioni edilizie di cui si è macchiata la nostra classe politica, insieme agli imprenditori conniventi, dal secondo dopoguerra ad oggi? Le emergenze sono sempre state il momento migliore per i saccheggi, che restano impuniti, nascosti e gravano su quella parte di cittadini che pagherà poi le tasse e i debiti di Stato. 

Cosa succede in realtà

Alla luce di quanto descritto finora, dovreste dire: Beh ma lo capirebbe anche un bambino di 5 anni... E con Groucho Marx, per alcuni proseguirei: andatemi a chiamare un bambino di 5 anni, perché non ci ho capito niente.

Ciò che sta avvenendo lo abbiamo già vissuto almeno due volte, in maniera intensa, nella nostra storia recente: con la prima introduzione delle macchine nella produzione, con la rivoluzione delle comunicazioni ed ora con quella della IA. Bene, potremmo tutti vivere in modo migliore ed approfittarne per lavorare meno ed in condizioni migliori e invece siamo più sfruttati e stressati che mai. Alienati e disgregati.

Quindi il bambino di 5 anni, accorso in nostro aiuto, si chiede: ma invece di fare progetti per poche ore in piccoli gruppi, perché non si creano classi di 10 alunni, così ogni docente può lavorare meglio e il recupero lo fa ogni volta che lo ritiene opportuno, gestendo meglio le relazioni con discenti, colleghi e genitori?

Perché non ci teniamo le Lim che già abbiamo e invece della digitalizzazione lavoriamo sulle conoscenze di sé e del mondo, sul senso critico, sulla lettura e sulla scrittura, visto che non sappiamo più scrivere in corsivo, con ricadute negative sull’apprendimento7-8-9, e che in Italia oltre un terzo degli adulti è un analfabeta funzionale10?

Perché invece di costringere i nostri docenti a raccattare qualche briciola, non gli aumentiamo lo stipendio?

Perché non li lasciamo liberi di formarsi e di informarsi, di darsi all’ozio letterario, in cui poter naturalmente evolvere, e travasare il tutto semplicemente al contatto profondo e sincero con l’altro, sia esso discente, collega o genitore?

Perché prima di pensare al digitale non ricostruiamo immediatamente ambienti più sani, in cui trascorrere 6 ore al giorno, e perché non riorganizziamo la didattica in modo da evitare di mortificarci, bloccati in un banco per le stesse ore?

Perché non impieghiamo più collaboratori, così le nostre scuole siano pulite e anche i nostri docenti possano andare in bagno o fare una pausa?

Perché invece di fare un progetto (mentoring) di 10 ore su uno studente problematico, non miglioriamo i servizi già presenti sul territorio (asl, associazioni, cooperative, centri sportivi, SSN, psicologi, educatori...), così che ci sia un reale intervento di rete, nel lungo periodo?

Perché?

La verità bambino mio è che stiamo indebitando te e i tuoi compagni di classe presenti e futuri, e non sappiamo neanche bene noi perché. Come vedrai crescendo, le difficoltà nella vita aumenteranno e le paure con loro. La paura di rischiare e di perdere quel poco che si è guadagnato, a volte anche cedendo.

Ed oggi, come non mai dagli anni ’70, tutti si illudono di poter diventare qualsiasi cosa, ma la maggior parte finisce per essere niente. Niente perché le radici sono state sostituite da reti senza linfa. Niente perché non c’è un ideale, né una visione politica, che diano un senso al sacrificio e possano sostenere nelle cadute, attraverso il gruppo ed una più ampia comunità, in cui il riconoscimento è la forza.

Niente perché la disgregazione incattivisce e la superficialità è l’illusione spettacolarizzata di memizzare le proprie miserie.

Eppure se io e te siamo presenti a noi stessi, e se ciascuno, coi propri bisogni e le proprie possibilità, cerca di evolversi, di trasformarsi e trasformare per il bene comune, niente sarà del tutto vano. Andremo controcorrente, facendoci scudo con la nostra integrità ritrovata. Così potremo gettare le fondamenta per il nuovo umanesimo che verrà, in cui sarà il pensiero non asservito a dominare la tecnologia, ora in balia degli istinti e dell’anarchia del potere.

Note

1 https://www.latteseditori.it/images/SCAR.3_Recenti_ricerche_sul_livello_di_burnout_nei_docenti_italiani.pdf

2 https://anief.org/normativa/giurisprudenza/51951-scuola-–-stipendi-netti-docenti-italiani,-confronto-con-paesi-ue-impietoso-a-fine-carriera-2-000-euro-contro-3-000-in-francia-e-più-di-5-000-in-germania-anief-ai-precari-ancora-meno,-subito-interventi-straordinari#:~:text=Il%20giorno%20dopo%20la%20Giornata,Italia%20a%20poco%20più%20di

3 https://www.legambiente.it/comunicati-stampa/ecosistema-scuola-2024-xxiv-rapporto/

4 https://anief.org/normativa/legislazione/52796-istruzione-personale-ata,-la-mannaia-dei-tagli-spazzerà-via-due-unità-lavorative-a-scuola-13-000-posti-in-meno-tra-stop-organico-aggiuntivo,-riduzioni-in-legge-di-bilancio-e-mancata-copertura-dei-distaccati-le-proteste-anief

5 https://www.orizzontescuola.it/il-lavoro-sommerso-dei-docenti-altro-che-solo-18-ore-a-settinana-oltre-1500-ore-allanno-in-piu-di-servizio-non-retribuito/

6 https://www.legambiente.it/rapporti-e-osservatori/ecosistema-scuola/

7 https://disturbispecificidiapprendimento.it/la-scrittura-in-corsivo-utile-per-favorire-lapprendimento/

8 https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/15823243/

9 https://pmc.ncbi.nlm.nih.gov/articles/PMC4274624/

10 https://www.oecd.org/en/publications/survey-of-adults-skills-2023-country-notes_ab4f6b8c-en/italy_b03d6066-en.html

Fonte