30/11/2020
Giannuli - Anticipazioni sulle misure anticovid del governo
Genova - L'istantanea dell'infinito declino italiano
Sicuramente non è semplice fare paragoni con la realtà nazionale, ma non è peregrina l'ipotesi che questa condizione di declino inesorabile sia quella che caratterizza tutto il Paese.
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Genova. Come si vive a Genova? Né benissimo né malissimo, ma comunque con tanti soldi in tasca nonostante una situazione ambientale e demografica estremamente preoccupante.
È quello che emerge dalla classifica sulla qualità della vita elaborata ogni anno dal quotidiano Italia Oggi insieme all’università La Sapienza di Roma. Sul totale dei 107 capoluoghi di provincia passati al setaccio, la Superba si colloca al 52esimo posto, circa metà classifica, comunque meglio dell’anno scorso quando era 66esima. In Liguria è comunque la provincia migliore: al 55esimo posto (invariato) c’è Savona, al 66esimo La Spezia (peggio di prima, era 47esima), al 77esimo Imperia (che ha scalato una posizione).
La classifica, giunta alla sua ventiduesima edizione, è stata stilata in base a un totale di 85 indicatori che prendono in considerazione il lavoro, l’ambiente, i reati, la sicurezza sociale, l’istruzione, l’andamento demografico, la sanità, il tempo libero e la ricchezza. Quest’anno, per la prima volta, è stato inserito un indicatore sulla pandemia di Covid-19. Genova si colloca nel gruppo di città in cui la qualità della vita è considerata “accettabile” in una scala a quattro gradazioni che va da “buona” a “insufficiente”.
Tenendo presente che la classifica ordina le città dalla migliore alla maggiore, l’aspetto più preoccupante a Genova è senz’altro l’ambiente: 92esimo posto in classifica, piazzamento quasi identico all’anno scorso (93esimi). Insieme a Firenze siamo quelli col maggior numero di superamenti del limite giornaliero di biossido di azoto, 60 in tutto il 2020. Molto alto anche il numero di veicoli circolanti (5.706 per chilometro quadrato), dato che ci colloca al 98esimo posto, eppure siamo noni in classifica per offerta di trasporto pubblico. Peggiora il piazzamento sulla raccolta differenziata (dall’84esimo al 94esimo posto), pessimo il rapporto tra verde urbano e abitanti (101esimi in Italia).
Ciò che fa guadagnare posizioni in classifica è il balzo in avanti nel settore “sicurezza sociale”, dall’82esimo al 26esimo posto. Si scoprono dati sorprendenti: Genova è la città col minor numero di suicidi in Italia (2,36 ogni 100mila abitanti) e quella col minor numero di morti e feriti (122) ogni 100 incidenti stradali, dato probabilmente influenzato dall’elevata quantità di sinistri. Nei reati a sfondo sessuale contro i minori passiamo dal 100esimo al 44esimo posto, quindi si assiste a una netta diminuzione.
Nel gruppo “sicurezza sociale”, tuttavia, è inserito anche il dato sul Covid-19. E Genova – al momento della rilevazione – si conferma settima città d’Italia per incidenza con 26,09 casi ogni mille abitanti. Peggio di noi solo Lodi, Cremona, Piacenza, Milano, Monza e Aosta. I dati sono quelli della protezione civile aggiornati all’8 novembre 2020. Fattore negativo che non ha impedito al capoluogo ligure di ottenere un buon piazzamento in questa serie di indicatori.
Ci sono due macro-indicatori che sembrano in contraddizione tra loro: da una parte scendiamo dal 29esimo al 41esimo posto nella categoria “affari e lavoro“, dall’altra ci confermiamo ai primi posti (dal 15esimo al 19esimo) per “reddito e ricchezza“. La differenza si può spiegare in buona parte col fatto che Genova è notoriamente la città più anziana d’Italia.
La classifica ci vede sesti per reddito medio pro capite (23.684 euro) ma soprattutto quinti per pensione media annua (21.181 euro) e ottavi per ricchezza patrimoniale. In compenso siamo 63esimi per tasso di disoccupazione e passiamo dal 49esimo al 69esimo posto per imprese cessate (ricordiamo che in fondo alla classifica c’è chi sta peggio), pur essendo 20esimi per start-up innovative.
La categoria “popolazione” purtroppo non lascia spazio a interpretazioni e ci vede al quartultimo posto in Italia (nel 2019 terzultimo). Genova è al 106esimo posto per numero medio di componenti delle famiglie (1,99, l’ultima è Trieste), prima città del nord per numero di emigrati, quarta città d’Italia per mortalità (14,01 decessi ogni 100 residenti) e 94esima per numero di nati.
Nonostante questo la sanità funziona bene (ottavo posto, l’anno scorso 15esimo) e siamo ben forniti di tecnologie (quinti per apparecchiature diagnostiche, quarti per posti letto in terapia intensiva). Anche l’istruzione è buona (14esimo posto partendo dal 22esimo), come dimostra la quarta posizione per abitanti che hanno almeno un diploma.
Genova è una città piuttosto insicura (dal 92esimo all’87esimo posto), ma in questo non si discosta molto dai grandi centri urbani, compresi quelli del nord. Molto pesante il quadro dei reati legati al traffico di stupefacenti (106esimo posto), alle violenze sessuali (dall’88esimo al 98esimo) e agli scippi e borseggi (100esimo) in compagnia di Roma, Torino, Bologna, Firenze e Milano. Frequenti anche le truffe informatiche (95esimo posto).
Discreta, infine, l’offerta di tempo libero e turismo che ci vede 41esimi in Italia. A Genova ci sono tanti cinema (11esimi per numero di sale in rapporto agli abitanti) e associazioni ricreative, artistiche e culturali (16esimi) mentre sono scarsi – anche se non sembra – i bar e le caffetterie (92esimi) e gli agriturismi (97esimi).
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Accordo Invitalia-Mittal - Un piano ricco di contraddizioni e difficilmente realizzabile che viene calato sulla testa di una comunità tenuta all’oscuro
L’accordo tra Stato e ArcelorMittal verrà siglato il prossimo 10 dicembre. Lo Stato entrerà nello stabilimento inizialmente al 50% per poi divenire socio maggioritario entro giugno 2022, data entro la quale il gruppo franco-indiano dovrà decidere se rimanere o andare via. Fino ad allora si avrà una governance condivisa.
Un metodo che non condividiamo quello utilizzato per la trattativa da un Governo che non ha tenuto minimamente in considerazione né le organizzazioni sindacali, né gli enti locali, generando decisioni che verranno calate sulla testa di una comunità lasciata fuori dal confronto.
Non ci convince la produzione che, partendo da 5 milioni di tonnellate subito con 5000 lavoratori impiegati, aumenterebbe di 1 milione di tonnellate e 1000 lavoratori all’anno per arrivare a 8 milioni di tonnellate di acciaio entro il 2025, con il totale assorbimento della forza lavoro. Arcuri ha descritto un piano che garantirebbe questa produzione con un forno elettrico e impianti dry esterni alla fabbrica, che verranno costruiti e poi gestiti da Invitalia. Il tutto con una riduzione delle emissioni inquinanti: del 93% di ossido di zolfo, 90% di diossine, 78% di polveri e CO2. La produzione green comporterebbe, secondo il piano a noi sconosciuto, lo spegnimento dei due altoforni più datati ed il rilancio dei due più recenti: Afo 4 e Afo5.
Si tratta dello schema che Mittal ha proposto in passato: un rapporto tra milioni di tonnellate di acciaio e numero di lavoratori che non abbiamo accettato a suo tempo e che il Governo ora asseconda.
Si tratta di un piano ricco di contraddizioni e difficilmente realizzabile, del quale non abbiamo ancora il documento. Finora abbiamo parlato di cose descritte oralmente, sulle quali comunque manifestiamo molte riserve, ribadendo le nostre priorità: la tutela dell’ambiente e della salute, all’indomani dell’ennesima tragedia che vede vittima un bambino di Taranto, la sicurezza sui luoghi di lavoro, dal momento che gli impianti sono ormai a pezzi, e la piena occupazione dei dipendenti diretti, dell’appalto e Ilva in AS. Arcuri non esclude che questi ultimi possano essere assorbiti per la costruzione degli impianti dry.
Cosa accade quindi oggi? Semplicemente che Arcelor Mittal viene messa nelle condizioni di gestire la fabbrica grazie all’intervento dello Stato.
Riscontro positivo quello derivate dalla garanzia di una prossima convocazione sulle questioni avanzate da USB: riconoscimento amianto e lavoro usurante, incentivi all’esodo e LPU. Il Governo ha inoltre risposto positivamente alla richiesta di USB di finanziare anche per il 2021 l'integrazione salariale per i lavoratori di Ilva in AS.
Auspichiamo che nei prossimi passaggi della vicenda venga finalmente messo al centro l’interesse della comunità, piuttosto che quello della multinazionale, e che per la definizione della questione sia coinvolto seriamente il territorio e le sue istanze. Il ministro Patuanelli ha giustificato l’esclusione dei sindacati e degli enti locali fino ad ora a causa dell’incertezza circa la possibilità per lo Stato di entrare in partnership.
Dall’incontro di oggi abbiamo inoltre appreso che nella prossima settimana si terrà un confronto con la nuova governance Mittal-Invitalia.
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Iran - Israele tace, Theran fa la voce grossa, Trump attende il passo falso
Il governo Netanyahu non commenta l’assassinio di due giorni fa in Iran di Mohsen Fakhrizadeh, lo scienziato a capo del programma di energia nucleare, e non reagisce alle accuse di Tehran. È la linea abituale, seguita sempre o quasi in circostanze simili in passato. Comunque obbligata.
Ammettere la responsabilità dell’agguato compiuto da agenti del Mossad con l’aiuto di informatori locali, scatenerebbe la reazione militare di Tehran e la guerra tra i due paesi. Il premier israeliano perciò tace e si compiace degli applausi dell’alleato Donald Trump dopo l’omicidio di Fakhrizadeh, descritto sbrigativamente dai media occidentali e delle monarchie arabe del Golfo come il padre della bomba atomica iraniana, anche se Tehran sino ad oggi non ha assemblato un ordigno nucleare e ripete che le sue centrali producono solo energia elettrica e fanno ricerca.
Tace anche il team del presidente Usa eletto Joe Biden che pure, secondo le previsioni, dovrebbe provare a riallacciare il dialogo tra Casa Bianca e Iran spezzato dalla decisione di Donald Trump di portare gli Stati Uniti fuori dall’accordo internazionale del 2015 sul programma nucleare iraniano e dal ritorno delle sanzioni economiche e politiche contro Tehran.
Alla presunta linea conciliante verso l’Iran della futura Amministrazione Biden è dedicata l’analisi di David E. Sanger sul New York Times, il giornale che due giorni fa ha subito attribuito al Mossad israeliano l’assassinio di Fakhrizadeh.
«Un attacco realizzato prima ancora che possa iniziare la sua diplomazia (di Biden) con Teheran. Questo potrebbe essere stato il motivo principale dell’operazione», sottolinea Sanger. Netanyahu, aggiunge, ha anche un secondo fine: «Non ci deve essere il ritorno al precedente accordo nucleare».
Concorda Mark Fitzpatrick. «La ragione per assassinare Fakhrizadeh – spiega su Twitter l’ex responsabile per la non proliferazione nucleare del Dipartimento di Stato – non era quella di bloccare il potenziale bellico dell’Iran bensì di impedire la diplomazia». «Straight to the point», dritto al punto, è andato subito, già venerdì, l’ex capo della Cia John Brennan parlando di un «atto criminale e altamente avventato», che porta al «rischio di una rappresaglia letale e ad un nuovo conflitto regionale».
Brennan suggerisce ai leader iraniani «di attendere il ritorno sul palcoscenico globale di una leadership americana responsabile e di resistere all’urgenza di rispondere contro chi viene percepito come colpevole».
L’analista irachena Lahib Higel Tehran ne è consapevole, Trump non attende altro che una reazione iraniana, come un attacco contro militari americani in Iraq, nel Golfo, o un’operazione armata contro Israele lanciata dal Libano o dalla Siria, per scatenare un’offensiva militare statunitense che riceverebbe l’approvazione e il sostegno di Israele e di non pochi paesi arabi, a cominciare dall’Arabia Saudita.
Nonostante ciò l’analista irachena Lahib Higel ritiene probabile la risposta di Tehran. «È possibile che assisteremo a ritorsioni in Iraq da parte di gruppi legati all’Iran», anche se, sottolinea Higel su Al Jazeera, la vittoria elettorale di Biden ha reso più complessa una decisione dei leader iraniani. «Da un lato – spiega l’analista – l’Iran e i suoi affiliati in Iraq vogliono mantenere una posizione di basso profilo fino a quando la squadra di Trump non lascerà l’incarico a gennaio, dall’altro è improbabile che non rispondano (all’assassinio di due giorni fa, ndr) prima di quel momento».
Se gli iraniani seguiranno il suggerimento di Brennan o si comporteranno come afferma Lahib Higel, è davvero arduo prevederlo. Il presidente Hassan Rohani propende per la linea prudente. «Israele pensa di creare il caos e di trascinare la regione nell’insicurezza, ma sa che non riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi malvagi», ha detto.
Al contrario i vertici delle Forze armate e dei Guardiani della Rivoluzione usano toni forti e sembrano spingere per il pugno di ferro. E ricordano l’uccisione a Baghdad all’inizio dell’anno del generale iraniano Qassem Soleimani ordinato da Donald Trump. La Guida suprema Ali Khamenei si posiziona a metà strada: chiede di «punire autori e responsabili» di «questo crimine» e al contempo di «continuare gli sforzi in campo tecnico e scientifico di questo martire in tutti i settori in cui stava lavorando». Andiamo avanti, in poche parole.
Ed è ciò che farà l’Iran nelle previsioni degli israeliani. «Nonostante il colpo al morale – scrive il quotidiano Haaretz – l’Iran comunque troverà uno scienziato nucleare altrettanto talentuoso dell’assassinato Fakhrizadeh».
Il cittadino criminale e il “grande internamento” del lockdown: adesso più che mai è necessario rileggere Foucault
Per descrivere i più svariati fenomeni di tipo sociale e politico che
avvengono nella società è utile, in alcuni casi, rivolgersi al pensiero
di studiosi e filosofi, che funziona come una vera e propria lente di
ingrandimento, come un filtro attraverso il quale possiamo leggere la
realtà che ci circonda. Michel Foucault è sicuramente uno di questi: egli stesso considerava le sue opere come una vera e propria “cassetta degli attrezzi”
che metteva a disposizione per chi volesse avviarsi sulle piste di
ricerca da lui iniziate. I suoi studi sulle dinamiche attraverso le
quali il potere si insinua negli interstizi della società moderna e
contemporanea rappresentano un importante strumento che non dovremmo mai
dimenticare. Adesso più che mai è necessario riprenderlo in
mano per tentare di analizzare, in modo lucido e disincantato, i
fenomeni sociali e politici scaturiti dall’emergenza della pandemia da
Covid-19.
Da più parti, durante il lockdown di marzo-aprile, è stato richiamato il concetto di “criminalizzazione del cittadino”.
Adesso, che vengono nuovamente messe in atto pratiche più o meno
restrittive della libertà individuale sull’intero territorio nazionale, è
interessante recuperare questo concetto. Perché criminalizzazione o,
detto altrimenti, colpevolizzazione? Perché – si diceva – gli
organi di governo, invece di mettere il dito sulla piaga di un sistema
sanitario inefficiente e ridotto al collasso da una cattiva gestione nel
corso di lunghi anni[1], colpevolizzavano diffusamente i cittadini
indisciplinati che ‘si assembravano’ e assumevano dei comportamenti
sbagliati. Il principale responsabile della pandemia era il comportamento irresponsabile delle persone. Sembra che, adesso, nulla sia cambiato sotto il sole.
Provvedimenti restrittivi sono nuovamente scattati e, per alcune
regioni, un vero e proprio nuovo lockdown. È interessante analizzare un
fenomeno di questo tipo per mezzo della “cassetta degli attrezzi”
offerta da Foucault. Se non abbiamo del tutto disimparato a pensare
siamo anche in grado di astrarre il nostro pensiero, per un po’, dalla
causa scatenante di tale fenomeno e, cioè, la diffusione del virus. E,
nel caso non ne fossimo capaci, possiamo sempre chiederci se, prima di
arrivare a un provvedimento di questo tipo, sarebbe stato possibile
intervenire in altro modo. Comunque, il fenomeno c’è e non possiamo
negarlo: un’intera popolazione costretta agli arresti domiciliari,
esposta al controllo poliziesco e alla punizione (niente di diverso, in
sostanza, dalla dinamica del “sorvegliare e punire” messa in luce dallo
stesso Foucault) se esce per strada ‘senza alcun motivo valido o
necessario’. Se ci astraiamo per un attimo dalla causa
scatenante – la pandemia – possiamo arrivare tutti a ritenere che si
tratta di una cosa gravissima. E, anche se non ci astraiamo, possiamo
comunque arrivare a pensare che, a causa del virus, qualsiasi principio
democratico e costituzionale, qualsiasi diritto del cittadino, sia
d’improvviso venuto meno. Cosa gravissima è, e cosa gravissima rimane.
Sia il lockdown di marzo-aprile che quello attuale assumono delle caratteristiche simili al “grande internamento” dei folli descritto da Foucault nella sua Storia della follia nell’età classica.
I cittadini, considerati ‘folli’, “insensati”, irresponsabili, vengono
sottoposti a un processo di internamento, di reclusione manicomiale.
L’internamento, dalla metà del XVII secolo, investe non solo i folli ma
tutta una popolazione ‘diversa’ e marginale: “Strana base ed estensione
delle misure d’internamento. Sifilitici, dissoluti, dissipatori,
omosessuali, bestemmiatori, alchimisti, libertini: tutta una popolazione
variopinta si trova d’un tratto, nella seconda metà del XVII secolo,
rigettata al di là di una linea di separazione, e rinchiusa in asili che
erano destinati a diventare, dopo un secolo o due, i campi chiusi della
follia” (SFEC, p. 144). Del resto – ricorda lo studioso – già la stultifera navis,
la “nave dei folli” rinascimentale, nell’iconografia del XV secolo, ha a
bordo personaggi astratti, tipi morali: “il ghiotto, il sensuale,
l’empio, l’orgoglioso” (SFEC, p. 146), coloro che, per motivi morali,
devono essere allontanati. Foucault ricorda che il folle era colui che
era “escluso per quattro volte: dal lavoro, dalla famiglia, dal discorso
e dal gioco”, “l’errante per eccellenza” (AF 3, pp. 70-71). Il malato
di mente sarà poi una evoluzione del folle all’interno della società
capitalistica: egli assume “lo statuto di malato, di individuo che deve
essere guarito per essere nuovamente immesso nel circuito del lavoro
ordinario, del lavoro normale, cioè del lavoro obbligatorio” (AF 3, p.
83).
I cittadini irresponsabili diventano dei criminali che devono
essere internati e allontanati. La delinquenza, la presenza di piccoli
criminali è un fenomeno accettabile e auspicabile da parte degli stati,
perché essa serve a rendere accettabile a sua volta il sistema di
controllo: “L’esistenza di un piccolo pericolo interno
permanente è una delle condizioni che rende accettabile il sistema di
controllo: con questo si spiega perché, in tutti i paesi del mondo,
senza nessuna eccezione, i giornali, la radio e la televisione diano
tanto spazio alla criminalità, come se ogni giorno si trattasse di un
fatto nuovo” (AF 3, p. 166). Attenzione: nel nostro caso, il
pericolo interno non è rappresentato dal virus in sé (che non è certo un
fenomeno creato dal sistema di controllo) ma dal cittadino che
‘sgarra’, che non rispetta le regole. Ecco che la presenza di
questo personaggio irresponsabile, che mette a rischio la propria salute
e quella degli altri, giustifica e rende accettabile il sistema di
controllo (il lockdown) e di punizione (le varie sanzioni penali).
E tale personaggio fa parte di un nucleo più ampio, chiamato
“popolazione”. “Con la scoperta dell’individuo e la scoperta del corpo
addestrabile, la scoperta della popolazione è l’altro grande nucleo
tecnologico intorno a cui si sono trasformati i procedimenti politici
dell’Occidente. È stata inventata quella che chiamerei, in opposizione
all’anatomo-politica di cui parlavo prima, la bio-politica”
(AF 3, p. 164). E, continua Foucault, “adesso ci sono dei corpi e delle
popolazioni. Il potere è diventato materialista. Ha smesso di essere
giuridico. Deve trattare cose reali, come il corpo e la vita” (AF 3, p.
165). La popolazione, di fronte al pericolo, non esita ad accettare in
silenzio qualsiasi provvedimento limitante della propria libertà e non
esita a denunciare chi potrebbe rappresentare, a sua volta, un possibile
pericolo.
Leggiamo cosa prevede il Dpcm per le zone “rosse”: “è vietato ogni
spostamento, anche all’interno del proprio Comune, salvo che per motivi
di lavoro, necessità e salute”. Ecco che lo sguardo del potere
riporta alla razionalità il cittadino irrazionale e irresponsabile: ci
si può spostare solo per motivi seri e necessari. Il folle
cittadino errante, che si sposta senza motivo, per una passeggiata o per
piacere, deve essere ricondotto alla ragione con una tirata d’orecchie.
All’interno del sistema capitalistico è ammesso solo lo spostamento per lavoro.
Come nota Foucault, nel corso del XVII secolo il folle diventa
intollerabile perché la società sta iniziando ad organizzarsi secondo le
dinamiche politiche e statuali capitalistiche: “in una simile società, l’esistenza di una massa di oziosi diventa letteralmente impossibile e intollerabile”
(AF 3, p. 79). Il lavoro, la salute e la necessità non rientrano
all’interno del piacere: chi se ne va a fare una passeggiata è il nuovo
folle, il nuovo insensato, un vero e proprio criminale irrazionale e
irresponsabile (“il folle è la verità irresponsabile”, dice Foucault),
un ozioso per il quale non c’è spazio nella società capitalistica basata
sul lavoro[2].
Insieme agli individui vengono colpevolizzati e sottoposti all’internamento anche determinati spazi, non ritenuti ‘seri’ e necessari: i cinema, i teatri, i musei, i bar, i ristoranti, le scuole.
Ebbene sì, anche le scuole. Cinema, teatri, musei, bar, ristoranti
sono, seppure in modo diverso, luoghi deputati allo svago e al piacere. E
comunque, se diamo uno sguardo più approfondito, si scopre che, in
definitiva, anche la scuola appartiene alla sfera del piacere. La parola “scuola” deriva infatti dal latino schola, il quale deriva a sua volta dal greco scholé, che significa “ozio”, “riposo”. La scholé
era il tempo in cui ci si riposava dalle fatiche della vita quotidiana
per dedicarsi allo studio, al ragionamento. Presso i latini, la scholé diventa poi il tempo dell’otium, contrapposto al negotium:
il momento di un riposo costruttivo, dedicato a se stessi e allo
studio, alla scrittura, alla lettura, lontano dagli impegni lavorativi
della vita pubblica. Anche il tempo viene colpevolizzato e internato: il
cosiddetto “coprifuoco”, infatti, colpisce il momento della giornata maggiormente dedicato all’ozio, al riposo, al piacere, cioè la sera dopo le 22. Il momento della giornata maggiormente improduttivo, estraneo alle dinamiche del lavoro e della riproduzione del capitale. Infine, ad essere colpevolizzata è anche una particolare fascia sociale, quella dei ragazzi e dei giovani,
rappresentati come improduttivi e irresponsabili sfaccendati che si
aggirano per le strade a qualsiasi ora incuranti della propria salute e
di quella dei propri cari. Non a caso, è stata chiusa la scuola, il
luogo (non particolarmente legato ad un immediato ritorno economico)
dove si riversa il maggior numero di giovani in una fascia oraria non
sospetta: quella produttiva del mattino.
L’internamento e il controllo, come quello che agisce sui folli, colpisce anche la sfera sessuale
(Foucault ricorda che, insieme ai folli, venivano internati anche gli
ammalati di malattie veneree): i giovani, sottoposti a internamento, non
possono incontrarsi col fidanzato o la fidanzata poiché il Dpcm
prescrive che non ci si debba incontrare con persone non congiunte o non
conviventi. I meccanismi di potere, grazie ai vari lockdown,
sorvegliano, controllano e puniscono anche la sessualità degli individui
e dei giovani in particolare. Sembra che stia agendo un meccanismo per cui lo spazio reale diventa colpevole mentre lo spazio virtuale diventa virtuoso,
e non è solo un gioco di parole. La realtà viene allontanata nella
rappresentazione della realtà, nel suo spettacolo, nella sua icona
digitale e spettrale, verso il più totale annientamento dei corpi e dei
loro bisogni (la DAD al posto della scuola ne è un triste esempio).
I colpevoli, i folli e irresponsabili trasgressori delle regole e del
lockdown, saranno sottoposti a controlli di polizia e a rigide sanzioni.
La polizia, secondo Foucault, è infatti strettamente connessa al
meccanismo dell’internamento: “La comparsa di queste grandi case
d’internamento è stata contemporanea ed è connessa all’insediamento di
un’istituzione che in seguito, sfortunatamente, ha fatto parlare di sé e
della quale ci capita di essere le vittime: la polizia” (AF 3, p. 81).
Come abbiamo visto, tutte queste dinamiche sottese alla logica del lockdown – la colpevolizzazione, l’internamento, il controllo, la punizione – non sono state magicamente generate dall’emergenza pandemica. Esse, al contrario, erano già esistenti
nella società occidentale e capitalistica, fin dai tempi in cui nasce
il “grande internamento” della follia, messo in luce dalla lucidità
delle ricerche foucaultiane. Tali dinamiche, poi, nel mondo
digitalizzato, agivano e funzionavano nei più sottili interstizi della
società, nelle maglie delle relazioni fra svariati poteri. Il
virus è stato solo il meccanismo che le ha fatte emergere allo scoperto,
che le ha rese visibili. Per cui, se critichiamo una situazione di
questo tipo, non facciamo altro che criticare l’acutizzarsi di sottili
dinamiche di controllo preesistenti; non neghiamo certo l’esistenza del
virus, ci mancherebbe altro. Mettiamo bensì in discussione un intero
sistema di controllo e di coercizione preesistente al virus, nascosto e
invisibile nelle sue parvenze spettrali, e che quest’ultimo ha reso
visibile, come una cartina di tornasole. Perciò, è quanto mai
doveroso, perlomeno, mettere in discussione tale sistema e porsi delle
domande su quanto sta accadendo intorno a noi. Altrimenti, oltre ad aver
buttato definitivamente nel cesso il nostro cervello, avremmo rifiutato
e dimenticato per sempre la preziosa “cassetta degli attrezzi” che ci
ha offerto e continua ad offrirci Michel Foucault.
Guy van Stratten
Riferimenti bibliografici:
AF 3: Michel Foucault, Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, Feltrinelli, Milano, 2020.
SFEC: Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 1978.
Fonte
Note di redazione
[1] Cattiva gestione? la sanità è collassata per 37 miliardi di tagli... che sono qualcosa di più della semplice cattiva gestione.
[2] Basata sullo sfruttamento del lavoro...
“Non credo di dovermi scusare per aver postato una foto di Maradona”
Ho esaurito quel femministometro che cerca di cancellare chi non si adatta al suo specchio incontaminato. Mi dispiace deluderli. Non ho mai promesso loro che non l’avrei fatto. Quella femminista curiosa che non può accettare la celebrazione di un idolo popolare, che rivendicava la sua origine villero, che si opponeva ai potenti, che si schierava con i deboli, che dava gioia in campo, che giocava il miglior calcio, quel femministometro non mi rappresenta.
Chi ha nascosto i comportamenti macho di Maradona? Non celebro quel lato più oscuro, come se fosse stato fatto negli stadi con Héctor “Bambino” Veira (denunciato nel 1987 e successivamente condannato per abusi sessuali e tentato stupro di un ragazzo di 13 anni) o con Carlos Monzón (condannato nel 1989 in un controverso processo per omicidio semplice a 11 anni di carcere per l’omicidio della sua compagna Alicia Muñiz, quando non si parlava di femminicidio o la violenza di genere era considerata un fattore aggravante).
Maradona ha avuto comportamenti sessisti ma non è stato condannato per crimini molto gravi come in quei casi. Non ero l’unica femminista che ha ricevuto commenti interrogativi sulle reti per aver salutato Diego. Thelma Fardín è stata una delle più seguite. Alcuni haters hanno paragonato Maradona all’attore Juan Darthés, che ha denunciato per stupro, nel suo post su Instagram, e l’hanno rimproverata che se lo avesse licenziato, stava calpestando il suo femminismo. Accorciandosi, perché Thelma – come me – era già stata interrogata su Instagram per una pubblicazione in occasione del compleanno di Diego, il 30 ottobre, l’attrice ha scritto: “Adesso arrivano le critiche perché se sono femminista non posso postare questo (in riferimento a una foto del 10).
Gente, il femminismo è liberazione, non rendere conto a voi. Il calcio di Diego mi ha stupito per tutta la vita (…) Che fatica che ci mettessero la lente d’ingrandimento, tranquillamente e senza dare un parere a loro piace di più ”.
Questo giovedì, tra la lunga fila di persone che hanno voluto salutare Diego a Casa Rosada, si sono viste ragazze con la sciarpa verde. “Il femminismo sarà Maradona o non lo sarà”, ha scritto una di loro nel suo, simbolo della Campagna nazionale per il diritto all’aborto legale, sicuro e libero. “Non è che non abbia contraddizioni con Maradona, ma come ho avuto con tanti altri problemi nella vita. Ma questo non mi impedisce di provare amore.
La conferma che essere venuti è stata una buona idea è stare in questa fila, dove la fraternità è assoluta e l’intersezionalità è totale: amare Diego, sentirlo così vicino alla gente, che quell’amore si esprime anche tra ieri e oggi da Madri e Nonne di Plaza de Mayo, per i grandi leader della Grande Patria e per tante persone che rispetto e con cui mi sento identificato, mi fa sentire che siamo dalla stessa parte.
“Non ho dubbi che un ragazzo di Fiorito sia e fosse dalla mia stessa parte e non ho nemmeno dubbi che un maschio eterosessuale, con tutto quel potere, essendo nato su un pianeta macho e misogino come questo ha commesso degli errori e non li minimizzo né li nego, poiché vivo con gli errori e gli atteggiamenti maschilisti dei miei amici maschi e amiche, anche femministe”, mi ha detto la regista di documentari femminista Cynthia Castoriano, conosciuta come “Suzy Qiú” questo giovedì pomeriggio, mentre camminavo vicino a Plaza de Mayo.
In sottofondo si sentivano canti che invocavano Diego. “È assurdo che un movimento di emancipazione come il movimento femminista sia pieno di giudici del sentimento popolare. Abbiamo il diritto e la necessità di essere emotivi senza colpa”, ha scritto ieri su Facebook, a proposito della polemica intorno alla figura di Maradona e al femminismo, la comunicatrice Claudia Korol, membro di Feministas de Abya Yala, articolazione di collettivi femministi popolari, autoctono, nero, contadino.
Posso liquidarlo con le sue sfumature, con la sua opacità. Non lo difendo. Non applaudo che tu sia stato lento a riconoscere i tuoi figli. Non onoro il comportamento violento nei confronti delle partner. Indubbiamente, era un’espressione e – anche una vittima – del patriarcato.
Sono entusiasta di vederlo con la palla, con la passione con cui ha sempre giocato con la maglia argentina, il suo artiglio. Ho delle contraddizioni. E non credo di dover scusarmi per aver postato una foto di Maradona in questi giorni.
Fonte
Tagliare la sanità e bastonare i dipendenti pubblici: la ricetta liberista per il disastro
Nessuno si sorprenderà se nella trincea delle posizioni più oltranziste a danno dei lavoratori pubblici vediamo accorrere i vari Boeri, Perotti, Ichino. A sentire quest’ultimo, che pretende di assorbire milioni di disoccupati con poche decine di migliaia di posti vacanti e qualche corso di formazione, “la logica vorrebbe che il loro trattamento [dei lavoratori pubblici] fosse lo stesso dei lavoratori privati collocati in cassa integrazione”. Non pago, il nostro aggiunge che con “quello che si risparmierebbe si potrebbero premiare i medici, gli infermieri, le forze dell’ordine che restano coraggiosamente in prima linea, gli insegnanti che fanno davvero la didattica a distanza”.
Boeri e Perotti, su una falsariga non troppo diversa, si battono per mostrare come, a fronte della malaugurata sorte dei lavoratori del settore privato, finiti a milioni nel limbo della cassa integrazione, i dipendenti pubblici si siano visti tutelati, con stipendio pieno, e spesso a casa a godersi la vita. A differenza di Ichino, i due economisti sostengono che le ragioni per l’applicazione della cassa integrazione ai dipendenti pubblici non siano da ricercare nella “logica”, quanto piuttosto nella “coesione sociale”. Infatti, se vogliono recuperare il rapporto con la base sociale del Paese, i sindacati dovrebbero “chiedere di devolvere le risorse stanziate per il rinnovo dei contratti alle assunzioni necessarie per sostituire chi ha lasciato per Quota 100”. Diverse ispirazioni, stesse ricette tossiche.
Il piano di discussione più evidente è quello, ormai facilmente riconoscibile, della leva che tali soggetti fanno delle condizioni miserabili di molta parte dei lavoratori italiani per far sì che la loro rabbia si rivolga verso altri lavoratori, i quali dovrebbero così scontare una pena per le loro tutele e la continuità reddituale. Se l’operazione volta a rinfocolare la guerra tra poveri è evidente, vi è un’altra questione cruciale dietro agli attacchi contro i lavoratori del pubblico impiego, sulla quale occorre far luce.
Oltre all’odio sociale scatenato su categorie di lavoratori relativamente più tutelate al fine di far arretrare anche loro nella morsa della precarietà, la trappola di Boeri-Perotti-Ichino è quella di far sì che tale odio copra il disegno di austerità che sta sotto il piano generale dell’opera. Non è infatti un caso che il malcontento dei lavoratori del privato venga convogliato verso una proposta che viaggia precisamente nel segno delle politiche fatte negli ultimi trent’anni: limitare quanto più possibile l’intervento pubblico e la spesa in deficit a sostegno dell’occupazione. Quale sarebbe infatti la misura capace, secondo loro, di riportare giustizia nel Paese? Tagliare lo stipendio ad alcuni dipendenti pubblici per poter così premiarne altri, con un’immissione di risorse pari a zero. Se il pubblico dà un centesimo in più a qualcuno, secondo questo modo di pensare, quello stesso centesimo deve essere sottratto a qualcun altro, con in aggiunta un bello sputo per ricompensarlo del suo inutile contributo alla causa del Paese durante la pandemia.
Una “strategia” doppiamente infame. Da un lato, infatti, si intende utilizzare questo ingegnoso sistema per punire una parte dei dipendenti pubblici e dare in pasto all’opinione pubblica un facile colpevole, cavalcando i più stantii luoghi comuni sull’inefficienza degli uffici pubblici. Dall’altro, nessuno degli intervenuti suggerisce, neanche lontanamente, di spendere più risorse per il servizio pubblico. Il massimo che suggerisce è una redistribuzione di briciole tra poveri, quando quello di cui avremmo bisogno, non solo in questo momento, è un aumento della spesa pubblica per garantire un miglioramento dei servizi essenziali, utili a tutti i cittadini.
Fuori dai racconti livorosi dell’ideologia dominante, infatti, bisogna essere consapevoli del fatto che il settore pubblico, negli ultimi decenni, si è visto sottrarre sempre più risorse, soprattutto nella sanità. Per citare uno tra i tanti indicatori che esprimono al meglio tale sfacelo, a partire dal 2011 vi è stata una contrazione costante della spesa sanitaria, dovuta alle politiche di austerità di matrice europea. L’entità di tale riduzione di spesa è nell’ordine dei 26 miliardi, pari al 12%, dal livello di spesa del 2009 a quello del 2018, che si traduce in termini pro-capite in un taglio di quasi 400 euro pro-capite. Quando si vedono i pronto soccorso e le corsie degli ospedali andare in tilt perché non ci sono abbastanza letti, non ci sono abbastanza medici e anestesisti, non ci sono abbastanza terapie intensive, la causa è da ricercare proprio in questi tagli, amministrati in nome dell’austerità, della disciplina di bilancio.
Ma la sanità è soltanto una parte della storia. In generale, è l’intero settore della pubblica amministrazione a essere sottofinanziato e sottodimensionato. Come si legge in un recente rapporto sul mercato del lavoro (pag. 16 e seguenti), l’Italia, per colmare il gap occupazionale rispetto ad altri Paesi dell’Unione Europea, dovrebbe assumere quasi un milione e mezzo di lavoratori nel settore della sanità e dell’assistenza sociale, 500 mila nel settore dell’istruzione e 600 mila in altri ambiti della pubblica amministrazione. Una ricetta in totale contrapposizione rispetto a quelle suggerite da Ichino, Boeri e Perotti.
Soluzioni come quelle offerte dai nostri non spostano di una virgola la situazione di nessuno: né dei lavoratori, né, più in generale, dei cittadini. L’unico loro effetto è quello di deviare la rabbia di alcuni lavoratori, interessati dalle “salutari” riforme del mercato del lavoro, che non hanno fatto altro che diffondere la precarietà e ridurre i salari, verso altri lavoratori, la cui unica colpa è quella di essere stati toccati un po’ meno dalle riforme strutturali e dai tagli alla spesa. Tutto ciò senza aggiungere alcuna risorsa a quello che è un settore pubblico gravemente devastato da anni di austerità. Austerità che ha visto i vari Boeri, Perotti e Ichino sempre in prima linea con l’intento di promuoverla, implementarla, diffonderla, giustificarla.
Quando si cercano i colpevoli delle miserevoli condizioni dei lavoratori privati e dei servizi pubblici, quindi, occorre rivolgere lo sguardo verso quelli che sono i veri nemici della stragrande maggioranza dei cittadini: coloro che hanno suggerito e implementato i tagli di bilancio e le riforme neoliberiste del mercato del lavoro. Gli stessi che oggi, davanti alla povertà che hanno creato e allo sfacelo della sanità, non trovano altra soluzione che additare come carnefici una parte delle loro vittime. Occorre affermare con forza che lavoratori privati e pubblici sono dalla stessa parte della barricata, perché più investimenti nel settore pubblico vogliono dire più servizi per l’intera società. Significano scuole, ospedali, tribunali, uffici pubblici più efficienti. E significano anche più risorse per l’economia, più reddito, più domanda e, quindi, più occupazione. Significano, quindi, tutte quelle cose che i padroni vedono come fumo negli occhi.
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MES - A volte ritornano...
Il tema della riforma del trattato del Mes, che aveva animato il dibattito politico nei mesi immediatamente precedenti la pandemia e che era stato congelato a seguito dell’esplosione della stessa, torna ad essere di attualità.
Mentre sono palpabili le tensioni all’interno della maggioranza sull’utilizzo del Mes per la sanità e su possibili rimescolamenti della compagine governativa, è previsto per oggi il vertice dei Ministri dell’Economia dell’UE (Ecofin) che dovrebbe dare il via libera alla firma definitiva del trattato in programma per il 27 gennaio. E il Ministro Gualtieri si appresta a dare l’assenso al progetto di riforma avendo ottenuto il via libera anche da parte del Movimento cinque stelle.
Nei mesi precedenti, dalle pagine di questo giornale abbiamo dettagliatamente evidenziato il vero disegno politico che sottende il progetto di riforma del Mes definendolo, non a caso, un fondo che ammazza i paesi del Sud Europa e, al contempo, salva le banche tedesche.
Giusto per rinfrescare la memoria: quali sono le principali direttrici lungo le quali si muove la riforma del trattato del Mes?
Senza addentrarci troppo in tecnicismi, diciamo subito che tale progetto riproduce in pieno quella contrapposizione di interessi, oltre che di struttura economica, che caratterizza il progetto europeista sin dalla sua nascita e del quale abbiamo avuto chiara dimostrazione in occasione del negoziato che ha condotto all’intesa sul Recovery fund.
Di qui la previsione, contenuta nel “nuovo” Mes, di un meccanismo che seleziona accuratamente i paesi a cui corrispondere il prestito. Una linea di credito precauzionale per i paesi “affidabili” in quanto in linea con i vincoli previsti dai trattati europei (di fatto Germania e Olanda) che, quindi, otterrebbero agevolmente e praticamente senza condizionalità la linea di credito magari per giungere in soccorso alle loro banche attraverso le risorse versate al fondo dai singoli Stati; diversamente, una linea di credito rafforzata per quei paesi (in primis quelli del Sud Europa) che, non avendo i fondamentali economici in linea con gli assurdi vincoli europei, dovrebbero, per accedere agli aiuti, preventivamente subire una ristrutturazione del debito resa più agevole e praticabile dall’introduzione delle c.d. Cac single-limb.
Di cosa si tratta in sostanza? Oggi per cambiare le condizioni contrattuali in modo che la ristrutturazione del debito comprenda tutti i titoli occorrono delle maggioranze qualificate, per cui potrebbero formarsi delle minoranze di blocco che ne impediscano l’entrata in vigore. Con la riforma e l’introduzione delle Cac single-limb viene superato il quorum richiesto per ogni singolo titolo, semplificando la procedura di contrattazione finalizzata alla ristrutturazione del debito e coinvolgendo nel processo tutti i possessori di titoli pubblici italiani.
Naturalmente dopo la ristrutturazione del debito il calvario proseguirebbe con la sottoscrizione di un Memorandum, ovvero un piano di riforme sotto la stretta osservazione delle istituzioni europee.
Ma non finisce qui.
La riforma del MES contempla l’allargamento della sua mission attraverso la previsione di un dispositivo di sostegno diretto alle banche, detto back stop, che dovrebbe essere anticipato al 2012-2022.
In sostanza, qualora terminassero i soldi del Fondo di risoluzione delle crisi bancarie, entrerebbe in campo il MES (con un prestito paracadute di circa 70 miliardi) nella qualità di prestatore di ultima istanza nei confronti delle banche.
E le banche tedesche non costituiscono certo il fiore all’occhiello della finanza Ue, con la Deutsche Bank ritenuta da più parti il maggior fattore di instabilità sistemica, avendo in pancia titoli illiquidi ovvero prodotti finanziari derivati in quantità mostruose.
Insomma, i paesi del blocco tedesco si apprestano a portare a casa una riforma del MES che consentirà di gestire le critiche condizioni in cui versano le proprie banche e sul quale potranno esercitare un controllo diretto (non a caso alla guida del Fondo Salva Stati è collocato il tedesco Klaus Regling) sfruttando regole costruite a loro misura.
Non desta particolare meraviglia che il perfezionamento di un meccanismo che, da un lato irrigidisce la sorveglianza economica nei confronti dei paesi del Sud Europa e, dall’altro, punti a condividere le perdite delle banche (quelle tedesche), avvenga nel bel mezzo di una tempesta sanitaria, economica e sociale senza precedenti e della quale non si intravede la fine.
Chi, nonostante l’evidenza dei fatti, ha voluto scorgere nel Recovery fund (se mai vedrà la luce) l’avvio di “un nuovo corso europeo” dovrà tornare sulla terra.
Un progetto politico che sin dalla sua nascita ha fatto della diseguaglianza e della asimmetria il suo tratto distintivo, non può cambiare direzione. Pena il suo disfacimento.
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29/11/2020
Brancaccio - Siamo diventati tutti post-keynesiani?
Alla pagina facebook dell’IPKN (Italian Post-Keynesian Network), è possibile seguire l’intero workshop con interventi, tra gli altri, di Marco Veronese Passarella, Andrea Terzi e Annamaria Simonazzi.
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Legge di bilancio: pronti 84 milioni aggiuntivi per le università private
In particolare la maggioranza prevede un aumento di 30 milioni (art. 89, co. 3) sul fondo di finanziamento integrativo che nel 2020 ammontava a circa 68 milioni di euro. Si tratta di un aumento di uno stratosferico: +44%. Se lo stesso aumento fosse applicato alle università statali, il FFO dovrebbe aumentare di 3,4 miliardi euro per il prossimo anno!
Ma non bastano questi 30 milioni. La maggioranza ha intenzione anche di contribuire a pagare i trattamenti di previdenza dei professori delle università private con un trasferimento all’INPS di 54 milioni di €.
Ecco gli art 89 co. 3 e l’art. 93.
art. 89.3. Per l’anno 2021, i contributi di cui all’articolo 2 della legge 29 luglio 1991, n. 243, sono incrementati di 30 milioni di euro. ART. 93. (Trattamento di previdenza dei docenti di Università private) 1. Ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui al comma 1 dell’articolo 4 della legge 29 luglio 1991, n. 243, per i professori e ricercatori delle Università non statali legalmente riconosciute, a decorrere dal 1° gennaio 2021, l’aliquota contributiva di finanziamento del trattamento di quiescenza è pari a quella in vigore, e con i medesimi criteri di ripartizione, per le stesse categorie di personale in servizio presso le Università statali. Restano acquisite alla gestione di riferimento e conservano la loro efficacia le contribuzioni versate per i periodi anteriori alla data di entrata in vigore della presente legge. Ai maggiori oneri derivanti dal differenziale tra l’aliquota contributiva e l’aliquota di computo relativa ai trattamenti di quiescenza con riferimento al periodo 2016-2020 pari a euro 53.926.054 per l’anno 2021, si provvede mediante apposito trasferimento dal bilancio dello Stato all’ente previdenziale.Fonte
Logistica nel Lazio. Centinaia di lavoratori passano dalla Cgil all’USB
L’accordo è un evidente peggioramento che si aggiunge all’aumento delle ore di lavoro da 39 a 44 previsto dal nuovo CCNL, proprio in un settore in cui si stanno facendo profitti a palate a causa del clamoroso incremento delle vendite online dovuto alla pandemia.
I delegati protestano e chiedono un confronto con la segreteria regionale, anche perché hanno capito che se un accordo passa in Amazon, poi finirà per essere preso a modello nel rinnovo del CCNL della logistica, le cui trattative sono già cominciate. Amazon nel settore funziona infatti un po’ come un tempo era la Fiat nella metalmeccanica: prima o poi le altre aziende finiscono per adeguarsi alle sue regole.
Ma la Cgil non ne vuole sapere, anche perché si vocifera che nella segreteria ci siano dei soggetti pronti a trasferirsi armi e bagagli alla direzione del personale di una delle grandi aziende del settore. Un classico, oramai, nella carriera dei “sindacalari” nostrani. L’accordo Amazon va firmato, dicono a piazza Vittorio, anzi la discussione viene trasferita a livello nazionale per diventare accordo valido per tutto il paese.
Ed è qui che comincia il terremoto. Non solo dalle aziende collegate ad Amazon, ma anche dalla SDA, dalla GLS, da TNT e da altre aziende è cominciata la burrascosa fuoriuscita di centinaia di lavoratori dalla Filt-Cgil. Il leitmotiv è per tutti lo stesso: basta con i sindacati di comodo.
Le direzioni aziendali vanno in soccorso dell’alleato in difficoltà e intervengono con minacce di vario tipo, dal licenziamento al trasferimento fino alla classica formula “non trattiamo con USB, che non è firmataria di contratto”. Non sapendo come impedire lo svuotamento del sindacato amico, usano tutto l’armamentario a disposizione dei padroni pur di impedire che si verifichi un travaso di iscritti all’USB.
Questa volta però i mezzi tradizionali non funzionano. La misura è colma. I dirigenti della Cgil sono furiosi ma anche smarriti. Sentono che la terra comincia a mancargli sotto i piedi. Improvvisamente si materializzano nei magazzini, arrivano dove nessuno li conosce né vuole sentirne parlare. Si uniscono ai dirigenti delle aziende, ai padroni insomma, per spiegare che l’USB non potrà sedere ai tavoli di trattativa. Ma più si agitano e più spingono all’esodo, perché ormai sembra aver fatto breccia un ragionamento tanto semplice quanto logico: se USB è il loro problema, allora USB è il nostro sindacato. Il sindacato che serve per impedire gli aumenti di orario e della flessibilità giornaliera e settimanale.
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Tredicesime più basse. Il calo di retribuzioni e consumi alimenta la deflazione
Le tredicesime, introdotte per dare impulso ai consumi natalizi, riguardano 16 milioni di pensionati e 18 milioni di lavoratori dipendenti.
“Il Covid, purtroppo, ha alleggerito le tredicesime di tanti dipendenti del settore privato. Dall’inizio dell’emergenza, infatti, almeno 6,6milioni di lavoratori sono finiti in cassa integrazione e molti di questi a zero ore. Questa situazione non ha consentito a tante persone di maturare il rateo mensile che definisce economicamente la gratifica, alleggerendone quindi l’importo finale di circa 100 euro per ogni mese di indennità ricevuta” – sostiene la Cgia – “Con meno soldi a disposizione e tanta sfiducia che assilla le famiglie italiane, gli acquisti di Natale rischiano di subire una contrazione fino al 15 per cento. Se l’anno scorso la spesa complessiva ha sfiorato i 10 miliardi di euro, quest’anno potrebbe scendere a 8,5-9 miliardi, una riduzione che rischia di penalizzare soprattutto le botteghe artigiane e i negozi di vicinato che faticano a reggere la concorrenza sempre più spietata del commercio on line”.
Dei 30 i miliardi di euro di tredicesime, il fisco incasserà però 10,4 miliardi di euro di ritenute Irpef. Su pensionati e lavoratori dipendenti infatti le tasse funzionano come con un bancomat, basta digitare e il prelievo è assicurato.
“Con l’aumento dei risparmi privati e la caduta verticale dei consumi delle famiglie – segnala il Segretario della Cgia Renato Mason – il Paese sta scivolando pericolosamente verso la deflazione. Dallo scorso mese di maggio, infatti, l’indice dei prezzi al consumo è negativo. La deflazione, ricordiamo, si manifesta attraverso una progressiva contrazione dei prezzi dei beni e dei servizi. Apparentemente la cosa può sembrare positiva: se i prezzi scendono, i consumatori ci guadagnano. Nella realtà le cose assumono una dimensione completamente diversa: nonostante i prezzi siano in calo, le famiglie non acquistano, a causa delle minori disponibilità economiche e delle aspettative negative, quel poco che viene venduto comporta, per i negozianti, margini di guadagno sempre più contenuti. La merce invenduta innesca una situazione di difficoltà per i commercianti, ma anche per le imprese manifatturiere che, a fronte delle mancate vendite, sono costrette a ridurre la produzione e in prospettiva anche l’occupazione”.
Dopo anni di depressione sistematica della domanda interna (salari, investimenti, consumi) in molti adesso si accorgono che il meccanismo liberista che punta tutto sull’export e la contrazione salariale è un giocattolo rotto, da troppo tempo.
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Impresa, industria e innovazione in Cina
La prima parte del testo illustra l’evoluzione di diverse categorie di imprese produttive rurali e urbane, con particolare attenzione per i rilevanti cambiamenti verificatisi nei rispettivi assetti proprietari e istituzionali.
La seconda parte analizza l’impetuosa crescita e trasformazione delle università e dei centri di ricerca e lo spostamento progressivo di gran parte delle attività di ricerca e sviluppo verso le imprese industriali, e quindi in una posizione più vicina alla produzione e al mercato.
L’autore propone due chiavi interpretative fondamentali. La prima è costituita dal ruolo persistente e cruciale della proprietà pubblica dei principali mezzi di produzione, pur nel quadro di un rapido sviluppo del mercato dove coesistono diversi tipi di proprietà e quindi diversi modi di produzione, in un contesto di piano e di regolazione in cui il governo ha gradualmente abbandonato i vecchi strumenti di comando amministrativo e fa sempre più affidamento su strumenti indiretti di controllo.
La seconda è rappresentata dalla crescente priorità strategica accordata al progresso tecnologico e al superamento della dipendenza dai paesi capitalistici avanzati, che ha condotto la Cina a dedicare risorse sempre maggiori allo sviluppo della capacità nazionale di innovazione.
Nell’ambito di questo immane sforzo della società cinese nel suo complesso, la massa critica quantitativa è apportata soprattutto dalle grandi imprese private e a partecipazione statale, ma la ricerca di base – che, nel lungo periodo, costituisce il fondamento qualitativo dello sviluppo tecnologico autonomo – è condotta essenzialmente nelle università e nei centri di ricerca pubblici.
L'autore introduce il concetto di “impresa non capitalistica orientata al mercato”, che si applica a tutte le aziende produttive che non possono essere considerate pienamente capitalistiche in base alla struttura dei diritti di proprietà.
In Cina, queste imprese comprendono le imprese statali e le cooperative, ma anche molte altre aziende, tra cui le imprese indirettamente controllate dallo Stato e le stesse unità produttive agricole a base familiare.
Contrariamente a quanto ritengono molti osservatori occidentali, che vedono la Cina come ormai dominata dal capitalismo (sia pure definito, utilizzando erroneamente una categoria fumosa e comunque adatta tutt’al più a descrivere fenomeni completamente diversi, come “capitalismo di stato”), le imprese non capitalistiche orientate al mercato producono una parte maggioritaria del prodotto nazionale cinese.
Il ruolo preponderante di questa gamma variegata di unità produttive deve essere valutato insieme a quello della ampia gamma di strumenti di pianificazione e di regolazione, che includono elementi tra loro assai diversi, tra cui i piani quinquennali, il piano di sviluppo tecnologico Made in China 2025, la Nuova via della seta, le banche statali e la State-owned Assets Supervision and Administration Commission of the State Council (SASAC, una sorta di gigantesca IRI adattata alla realtà cinese).
Il quadro complessivo che l’autore ricava dalla sua analisi mostra un sistema socioeconomico estremamente dinamico, innovativo e in continuo divenire, che può essere provvisoriamente e prudentemente classificato come una economia di mercato mista orientata al socialismo – o, più semplicemente, come una economia socialista di mercato di tipo nuovo, sia pure ancora insufficientemente consolidata e caratterizzata in senso socialista.
Al settore privato sono stati lasciati ampi spazi di sviluppo, soprattutto nelle attività più direttamente legate alla produzione per il mercato e alla circolazione commerciale.
Tuttavia, il nucleo strategicamente dominante della economia cinese rimane sotto il controllo strategico dello Stato, che lo esercita da una parte attraverso una rete complessa e articolata di rapporti di proprietà che mantengono una natura essenzialmente pubblica, e dall’altro per mezzo di leve istituzionali e regolatorie che sono in gran parte formalmente simili a quelle del mondo capitalistico, ma collettivamente assai più potenti, alle quali si aggiunge la presenza diretta del Partito nelle grandi aziende sia pubbliche sia private.
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Iran - Assordante silenzio sul terrorismo di stato israeliano. Qualcuno “avvelena i pozzi”
Nessuna reazione ufficiale negli Stati Uniti all’ennesimo omicidio di uno scienzato iraniano. Mentre sul New York Times tre diverse fonti dell’intelligence confermano il coinvolgimento israeliano, il presidente uscente Trump si è limitato a rilanciare la notizia su Twitter. Senza commenti.
Il solo che negli Usa ha avuto il coraggio di prendere la parola è stato, paradossalmente, l’ex capo della Cia John Brennan, (in carica dal 2013 al 2017) che ha condannato l’omicidio dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh.
“È stato un atto criminale e altamente incosciente. Rischia di provocare una rappresaglia mortale e una nuova ondata di conflitto nella regione. I leader iraniani farebbero bene ad attendere il ritorno di una leadership responsabile degli Usa a livello globale e resistere alla tentazione di rispondere ai presunti colpevoli”, ha scritto su Brennan su Twitter.
Scontati e malposti appelli alla moderazione sono giunti dal ministero degli Esteri della Germania e dall’Unione Europea. Quest’ultima, tramite un comunicato di un portavoce dell’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, Josep Borrell, ha qualificato l’omicidio dello scienziato come “un atto criminale”.
La replica iraniana non si è fatta attendere: “Vergognoso che alcuni si rifiutino di opporsi al terrorismo e si nascondano dietro appelli alla moderazione” ha scritto su Twitter il ministro degli Esteri dell’Iran, Mohammad Javad Zarif. Inutile cercare qualche reazione sul sito della Farnesina.
Il nuovo capitolo nel dossier del terrorismo di stato israeliano, con l’ennesimo omicidio di uno scienziato iraniano, meriterebbe reazioni assai più contundenti.
Nell’aprile del 2018, il premier israeliano Netanyahu aveva indicato pubblicamente Fakhrizadeh, in una conferenza dedicata alla minaccia iraniana e invitava i presenti “a ricordarsi questo nome”.
Prima di Fakhrizadeh sono stati assassinati altri 5 scienziati iraniani con esecuzioni sommarie attribuite al Mossad israeliano. Inoltre questa estate numerose installazioni nucleari sono state oggetto di attacchi e sabotaggi. Il più grave è avvenuto nel centro atomico di Natanz. Per le autorità si è trattato di un atto di sabotaggio.
L’omicidio di Fakhrizadeh è avvenuto pochi giorni dopo il vertice strategico tra l’uscente Segretario di Stato USA Mike Pompeo, Netanyahu e il principe saudita Mohammed Bin Salman dedicato proprio all’Iran. Un incontro trilaterale che è servito ad avvelenare i pozzi a Biden in Medio Oriente.
L’atto terroristico di ieri intende condizionare le future mosse del presidente Joe Biden, interessato a rivedere la posizione nei confronti dell’Iran. “È evidente che gli omicidi riducono gli spazi diplomatici. Forse ora si capisce meglio la decisione del Pentagono di spostare, qualche giorno fa, in Qatar alcuni bombardieri strategici B-52”, scrive il Corriere della Sera attraverso il suo sempre “ben informato” Guido Olimpio.
Appare chiaro il tentativo israeliano di condizionare la politica della nuova amministrazione Biden nei confronti dell’Iran. Un editoriale del Jerusalem Post, arrivando alla conclusione che “sarebbe un errore storico della futura amministrazione Biden gettare al vento la politica di Trump sull’Iran” scrive testualmente che “Purtroppo Biden ha già espresso il proprio impegno verso il defunto accordo sul nucleare iraniano, mosso probabilmente da un eccesso di reazione alle politiche di Trump, anche quelle positive. Invece di prendere una chiara posizione contro il sanguinario regime iraniano, il neo eletto presidente Biden vorrebbe revocare le sanzioni imposte all’Iran dal presidente Trump, consentendo così a Teheran di sovvenzionare ancora più efficacemente il terrorismo e la violenza in tutta la regione”.
Il fatto che le autorità israeliane intendano impedire con ogni mezzo il ripristino dell’Accordo con l’Iran sul programma nucleare, emerge anche dalle righe successive dell'articolo secondo cui “Il ritorno a quell’accordo con l’Iran sarebbe anche una decisione estremamente invisa agli stati del Golfo, tra cui alcuni alleati chiave degli Stati Uniti come l’Arabia Saudita, che ha ampliato la cooperazione e i legami con gli Stati Uniti durante la presidenza Trump. Fare appello all’Iran – o per dir meglio, accondiscendere quel regime – significa inviare un messaggio sbagliato a Teheran e un messaggio sbagliato agli alleati americani”.
È bene ricordare che secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), il programma nucleare militare iraniano è ormai abbandonato da un ventennio e non ci sono prove che oggi Teheran stia cercando di ottenere l’atomica. Da quando gli Usa hanno abbandonato l’accordo Jcpoa, le riserve di uranio iraniani a basso arricchimento sono aumentate di almeno 12 volte oltre i limiti ammessi dall’intesa.
La stessa Aiea però in questi decenni non ha mai potuto ispezionare gli impianti nucleari israeliani, senza mai forzare la mano e limitandosi ad accettare il fatto che Israele nega di possedere armi nucleari e non ha firmato il Trattato di Non Proliferazione nucleare, che invece è stato firmato dall’Iran.
Insomma un livello di impunità e complicità che appare del tutto inaccettabile. Se qualcuno in giro si mettesse ad uccidere gli scienziati nucleari israeliani quali sarebbero le reazioni?
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28/11/2020
Adiós, Diego
Il pallone è stata la prima grande fissazione della mia vita e avere avuto la possibilità di vedere giocare Maradona negli anni in cui ero un bambino e vivevo il calcio in una maniera cosi totale e naif è stata una delle più grandi fortune e privilegi che possa dire di avere avuto.
A questo calciatore extraterrestre sono legati alcuni ricordi chiave della mia vita. Vederlo in azione ai mondiali di Mexico ’86 rimane l’esperienza più simile alla rivelazione che possa dire di avere avuto. In seguito a quel mondiale mi feci una sorta di altarino nella mia cameretta; oggi, a 43 anni, nel mio appartamento ne ho un altro abbastanza simile.
La partita con l’Inghilterra l’ho vista in diretta. Avevo nove anni, ero da solo sul divano a casa di mia nonna, dopo il secondo gol mi misi a correre per casa in preda all’estasi mistica. Avevo avuto la percezione chiara di avere assistito ad una cosa irripetibile, non capita spesso di essere testimone della storia e rendersene conto. In quell’occasione per me fu così.
In maniera altrettanto brutale la notte del 3 luglio 1990, durante la semifinale mondiale Italia – Argentina, mi fece sorpassare la linea d’ombra tra due età ben distinte. Infilando il rigore che avrebbe condannato l’Italia Diego decretò la fine dell’infanzia e mi mise di fronte ad alcuni dei conflitti insanabili che avrei ritrovato solo in avanti nella mia vita futura. Io ero distrutto e Diego Armando Maradona festeggiava. Il mio più grande idolo di sempre era artefice del mio sconforto. Il trauma fu così grosso che finii per detestarlo, finché anni dopo completò la sua rivincita su di me e sul mondo piazzandola sotto al sette nella partita con la Grecia e urlando sotto la telecamera il fatto che era tornato. Era sempre il più grande e io lo avrei amato per sempre.
Venne cacciato per aver preso della roba che serviva a dimagrire, solo così fu possibile farlo fuori. Perché Diego Armando Maradona era più di un semplice calciatore e le sue vittorie avevano sempre un qualcosa di più epico rispetto alla semplice vittoria sportiva: lui faceva magie con il pallone e contemporaneamente vendicava il suo paese, sovvertiva le gerarchie, il sud del mondo tramite le sue giocate aveva la sua rivincita.
La genialità, la tecnica, la fantasia, i milioni di calci presi senza fare scenette particolari. Rotolava giù e si rialzava, mai una lamentela per un passaggio sbagliato del compagno. Ma quello che ancora oggi mi emoziona di più quando fanno rivedere sui vecchi filmati in televisione è che in quelle giocate io non vedo un professionista del calcio, vedo un ragazzino che gioca a pallone. Puro divertimento e amore per la palla. Il calcio giocato così è una di quelle cose per cui vale la pena vivere. Pochi giorni fa ti abbiamo fatto gli auguri per i tuoi 60 anni, oggi ci ritroviamo a salutarti per sempre.
Eri immenso e resterai il più grande di sempre. Grazie di tutto, senza di te la mia vita (e quella di tanti) sarebbe stata peggiore. (Stefano Greco)
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India - 250 milioni di lavoratori hanno bloccato lo Stato
Giovedì 26 novembre, l’India ha assistito al più grande sciopero organizzato della storia umana. Oltre 250 milioni di lavoratori e agricoltori, insieme ai loro alleati tra studenti, femministe e gruppi della società civile, hanno partecipato allo sciopero nazionale. Lo sciopero coincide con il Giorno della Costituzione dell’India, che commemora l’adozione della costituzione nel 1949, e arriva sullo sfondo di un attacco senza precedenti ai diritti dei lavoratori e alla protezione degli agricoltori da parte del governo di destra del primo ministro Narendra Modi.
La protesta dei contadini negli Stati intorno a Delhi è continuata fino a tarda notte giovedì e venerdì all’inizio. Migliaia di contadini hanno rotto blocco dopo blocco e stanno marciando verso la città. La polizia ha usato ripetutamente canoni ad acqua su di loro ma non è riuscita a spezzare il loro spirito. Si prevede che raggiungeranno i confini di Delhi venerdì.
Lo sciopero è stato organizzato da una coalizione di movimenti dei lavoratori e degli agricoltori, con 10 confederazioni commerciali nazionali e il gruppo ombrello, All India Kisan Sangharsh [Farmers ‘Struggle] Coordination Committee (AIKSCC), che consiste di oltre 200 gruppi di agricoltori in tutta l’India. Allo sciopero hanno partecipato anche gruppi per i diritti delle donne, sindacati studenteschi e varie organizzazioni della società civile. Lo sciopero ha ricevuto anche il sostegno dei partiti di sinistra e di diversi gruppi di opposizione.
Alcune delle richieste chiave contenute nella carta in 12 punti avanzata dagli organizzatori includono il ritiro di una serie di leggi recentemente approvate dal governo Modi che abrogano le principali protezioni dei prezzi del lavoro e dei prodotti agricoli, un rollback nelle recenti politiche di disinvestimento nelle principali società di proprietà del governo, l'implementazione dei programmi di welfare esistenti per i lavoratori rurali e ampliamento delle politiche di welfare per aiutare le masse colpite dalle ricadute economiche della pandemia di COVID-19.
Migliaia di agricoltori, insieme a membri di gruppi sindacali e altri movimenti, provenienti da tutta l’India, hanno anche guidato una manifestazione nella capitale nazionale di Delhi. La manifestazione è stata accolta con una feroce repressione da parte della polizia di Delhi che ha utilizzato un blocco, cariche di manganelli e cannoni ad acqua per fermare la marcia. Alla fine, il blocco è stato violato.
In un confronto simile con le autorità, i gruppi di lavoratori e agricoltori hanno bloccato le principali città metropolitane come Calcutta e Mumbai, con sit-in organizzati sulle principali rotte di trasporto. Anche la cintura industriale e mineraria dell’India centrale e orientale ha assistito a una chiusura virtuale.
Gli organizzatori hanno affermato che lo sciopero è un inizio per ulteriori lotte imminenti nel paese. “Gli operai e i contadini non si fermeranno finché le politiche disastrose e dirompenti del governo del BJP non saranno invertite. Lo sciopero di oggi è solo l’inizio. Seguiranno lotte molto più intense“, ha detto Tapan Sen, segretario generale del Centro dei sindacati indiani (CITU), una delle confederazioni sindacali partecipanti allo sciopero.
Lo sciopero arriva in un momento in cui le ricadute economiche della pandemia COVID-19 hanno spinto l’India in una vera e propria recessione, esacerbando le disuguaglianze e le privazioni esistenti. Il prodotto interno lordo (PIL) indiano è diminuito di un record del 23,9%, mentre la disoccupazione è salita a un 27% senza precedenti.
In mezzo a una tale crisi a tutto tondo, il governo di destra guidato dal Bharatiya Janata Party ha implementato nuovi emendamenti ai codici del lavoro e introdotto fatture agricole che hanno invertito i principali progressi storici compiuti nei diritti dei lavoratori e nella protezione delle aziende agricole.
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I ricchi hanno stravinto
Questa la tesi di fondo: negli ultimi cinquant’anni abbiamo assistito a una guerra dei ricchi contro i poveri che è partita e si è svolta principalmente all’interno degli Stati Uniti d’America centro del capitalismo occidentale. I ricchi hanno stravinto, mentre i poveri non si sono neanche difesi e i cosiddetti progressisti o liberal non se ne sono accorti o hanno fatto finta di non accorgersene, affascinati com’erano dal denaro dei ricchi.
La guerra è partita dalle famiglie ‘storiche’ di miliardari conservatori e benpensanti degli Stati Uniti i quali hanno dato vita, nel corso degli anni, a una grande campagna per l’egemonia culturale iniziata in sordina durante il periodo del Welfare State dominante nel secondo dopoguerra e divenuta poi main stream negli ultimi trent’anni. Questa campagna si proponeva di contrastare qualsiasi idea di giustizia sociale, di redistribuzione della ricchezza da parte dello Stato o soltanto di assistenza ai più deboli che non fosse quella voluta e organizzata attraverso le organizzazioni benefiche e le fondazioni private. D’Eramo non manca di fare i nomi dei principali animatori di questa campagna: si tratta delle famiglie Walton (quelli della Walmart), dei DeVos del Michigan, dei Koch, degli Olin, dei Mellon, dei Coors ma anche di Bill Gates, il gotha del capitalismo americano vecchio e nuovo che ha preso saldamente nelle proprie mani le redini delle principali politiche pubbliche e sociali degli Stati Uniti.
Ne hanno fatto le spese i servizi pubblici, la sanità pubblica, la scuola pubblica messa nell’angolo con il sistema dei vaucher e poi l’ambiente e la giustizia. In particolare il diritto, soprattutto quello giurisprudenziale che era stato l’artefice delle più importanti conquiste sociali negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, è divenuto l’infrastruttura principale della nuova ideologia conservatrice attraverso la progressiva affermazione della teoria denominata Law and Economics. L’analisi economica del diritto è riuscita a divenire teoria dominante e a schiacciare le ragioni della giustizia su quelle dell’efficienza economica.
Chi ci ha rimesso le penne in questa guerra ideologica, oltre naturalmente ai poveri costretti a lavorare di più con salari più bassi, è stato lo Stato – mi si perdoni il gioco di parole – cioè l’idea che vi fosse un’istituzione capace di rappresentare gli interessi di tutti e che, raccogliendo le tasse dai suoi associati, potesse poi redistribuire la ricchezza fornendo servizi pubblici essenziali come l’istruzione, la sanità, la ricerca, le infrastrutture. La guerra ideologica dei conservatori e delle loro fondazioni ha ridotto lo Stato, prima di tutto quello federale degli Stati Uniti, ad uno Stato minimo nei servizi sociali e forte per le sue velleità sovraniste che limita le sue funzioni a quelle di assicurare l’ordine pubblico interno e di rafforzare la potenza militare per supportare le ambizioni – e il tenore di vita – della più ricca democrazia del pianeta.
Come mai è potuto accadere tutto ciò? Marco d’Eramo lo spiega con le parole di Trasimaco tratte dalla Repubblica di Platone: «La giustizia non è altro che l’utile del più forte […] ciascun governo legifera per il proprio utile, la democrazia con le leggi democratiche, la tirannide con le leggi tiranniche, e gli altri governi allo stesso modo. E una volta che hanno fatto le leggi, eccoli proclamare che il giusto per i sudditi si identifica con ciò che è invece il loro proprio utile; e chi se ne allontana, lo puniscono come trasgressore sia della legge che della giustizia. In ciò dunque consiste […] quello che, identico in tutti gli stati, definisco giusto: l’utile del potere costituito. Ma, se non erro, questo potere detiene la forza: così […] in ogni caso il giusto è sempre l’utile del più forte» (p. 56). Insomma avrebbero vinto le idee del sofista Trasimaco, a nulla valendo la confutazione di quelle tesi che Platone fa pronunciare al suo maestro Socrate.
Se un appunto si può fare al libro di Marco d’Eramo è quello di suggerire un rimedio debole a tutto ciò: mettersi all’opera per ricostruire una nuova egemonia progressista che oggi è fatta di poche voci ma che in futuro potrà diventare main stream se saprà agire proprio come hanno fatto i conservatori con la loro rivoluzione al contrario. È vero che d’Eramo cita anche Machiavelli e la sua idea: a volte è necessario che i poveri si ribellino alle ingiustizie perché è l’unico modo per fare buone leggi. E ricorda anche le tesi di Mandeville per sostenere che l’economia pubblica ha una logica opposta a quella dell’economia privata. Ma sembra che d’Eramo dia per scontato che lo Stato sia perduto alla causa dei dominati perché rappresenta solamente lo strumento attraverso cui i capitalisti perseguono i propri interessi. Tesi fondata su una lettura ortodossa del pensiero di Marx.
Tuttavia se siamo arrivati a queste condizioni, se il welfare è stato smantellato, se i servizi essenziali sono stati lasciati al mercato, è proprio perché gliel’abbiamo lasciato fare; perché è andata sempre più accentuandosi una profonda ‘diffidenza’ verso lo Stato in ogni ambiente, anche progressista. Questa insofferenza era alimentata soprattutto dall’idea che lo Stato fosse troppo ingombrante, opprimesse la libertà dei cittadini, perché era come il carro del Dio indiano che stritolava gli individui al proprio passaggio. Salvo poi a rimpiangere i bei tempi in cui lo Stato offriva servizi e tassava i ricchi e i loro patrimoni. Insomma delle due l’una: o ripensiamo allo Stato, facciamo autocritica e decidiamo di riprendercelo oppure le pur condivisibili critiche alle perversioni del neocapitalismo resteranno prive di uno sbocco politico in attesa dell’avvento di un’amministrazione delle cose che non verrà mai.
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Lacreme napulitane
di Giovanni Iozzoli
E così se n’è andato anche Maradona. Portandosi dietro il mistero che un paio di generazioni di sociologi, antropologi, tuttologi, hanno cercato di svelare: qual è il dispositivo segreto che lega l’icona Maradona alle “masse popolari” di ogni ordine e grado? Sarebbe un buon modo di cominciare, con un certo distacco, la postura e lo sguardo critico dell’osservatore; ma starei solo fingendo, in un esercizio depistante di razionalizzazione.
Al problema, scandaloso, della sua morte ci sto girando intorno perché tra le “larghe masse popolari” commosse figura anche lo scrivente – e la maggior parte delle persone che conosce. E il carico emotivo di questo lutto è inspiegabilmente alto, rispetto all’oggettiva distanza dall’evento. Cosa e quanto avevamo investito nel mito Maradona – prima come genio calcistico, poi come iperbole umano-letteraria, infine come sublime simbolo populista – per indurci la pena e la tempesta emotiva che proveremmo verso un fratello lontano e mai dimenticato? Cosa avevamo buttato, negli anni, dentro il pozzo senza fondo di quel mito, per ritrovarci qui a piangerlo, in un delirio globale che non ha molti precedenti dai tempi di John Lennon?
Era Diego, che dietro il suo aspetto caricaturale, eccessivo, celava un qualche magnetismo segreto e inafferrabile, come i grandi clown o i grandi dittatori? O eravamo noi (masse popolari: almeno per stasera in culo agli snob!) che avevamo traslato su di lui, inconsapevole mentecatto, una carico di aspettative e narrativa devastante? E non è stata forse tutta questa “letteratura” (popolare) ad uccidere l’uomo? Gesù non sfuggì al suo destino, a Gerusalemme ci andò con le sue gambe; e pure Ernesto Che Guevara in Bolivia ed altri ce ne sarebbero, da aggiungere alla lista: tutti costoro si avviarono sul Golgota spontaneamente, perché su di loro si era addensato il peso insostenibile di un Eggregore gigantesco, mostruoso, il condensato di milioni di anime perse, stanche, miserabili e indomite che ti esigono morto e glorificato, per scaldare un po’ le loro vite esangui? Si è sacrificato, Diego (supplizio autoinflitto a coca, cibo e alcol – e poteva andargli peggio), perché non poteva sottrarsi al suo ruolo? Lo abbiamo spinto noi, sul crinale infuocato della leggenda?
Maradona è stato così amato perché ha caricato su di sé tutti i peccati del mondo, in un’espiazione godereccia e torbida, esplodendo dall’interno come una stella marcia e luminosissima. Anzi, si è caricato sulle spalle il vero peccato, il Peccato Originale: la mediocrità dei mediocri, delle vite irredimibili, prive di salvezza, incapaci di tirare avanti senza i deliri di un qualche eroe, o sedicente messia. Destino epico e buffo – com’era nel suo stile arruffato, disordinato, folle, con così poco tango nelle vene.
Molte cose saranno dette, scritte, raccontate, nelle prossime ore. A noi piace ricordarlo abbracciato a un’altra stella americana, Hugo Chavez, un altro figlio prediletto del popolo, morto pure lui per una specie di segreta combustione interiore, consumato da un amore folle e canceroso per la vita e la povera gente. Intanto, da sportivi, registriamo l’ultimo miracolo di Diego, che ha battuto il Covid e ci ha tolto ministri, governatori e virologi dai coglioni, almeno per qualche ora.
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Frau Merkel si era illusa. L’industria tedesca rimane legata alla Cina
È toccato a Liu He – principale consigliere economico di Xi Jinping nonché uno dei leader del Partito comunista cinese con maggiore consuetudine con l’establishment statunitense – lanciare al presidente eletto Joe Biden e all’Europa un segnale di apertura agli scambi e agli investimenti internazionali, dopo che i primi giudizi arrivati dall’estero sul prossimo Piano quinquennale (2021-2025) di Pechino lo avevano bollato come “autarchico”.
Il vicepremier Liu ha chiarito che puntare – come prevede il nuovo Piano – sulla cosiddetta “innovazione autoctona” (zìzhŭ chuàngxīn) non implica che la Cina si isolerà dal resto del mondo. «È impossibile fare tutto da soli e rinunciare alla divisione internazionale del lavoro – ha rilevato Liu in un articolo pubblicato l’altro ieri dal “Quotidiano del popolo” –. La Cina continuerà a perseguire una maggiore e più profonda apaertura economica nel quadro della sua nuova strategia economica».
Ovvero la cosiddetta “doppia circolazione” destinata a favorire nei prossimi anni produzione, circolazione e consumi interni, riducendo la dipendenza sia dall’export (una tendenza in corso da anni, se si considera che, nel 2019, l’interscambio commerciale con l’estero equivaleva al 32% del prodotto interno lordo cinese, esattamente la metà del picco del 64% raggiunto nel 2006) sia, soprattutto, dall’importazione di “componenti chiave” che i colossi hi-tech cinesi tuttora acquistano dalle multinazionali straniere.
La Cina – ha proseguito Liu – continuerà a fornire opportunità per le compagnie internazionali e a importare materie prime e risorse che utilizzerà per dar luogo a nuovi «vantaggi competitivi» a livello internazionale.
“Dopo la crisi finanziaria internazionale del 2008, il mercato globale si è contratto, e l’economia globale è caduta in un persistente declino – ha scritto Liu –. Nei maggiori paesi occidentali hanno prevalso il populismo e l’aumento del protezionismo. La Cina deve incrementare la circolazione interna per rafforzare l’autonomia e la sostenibilità dello sviluppo economico».
Nell’attesa di capire quanto protezionismo ci sarà nella politica economica di Biden e come (nella “Nuova era” di Xi Jinping) intenda davvero impostare il suo rapporto con Pechino l’Europa, che – mettendo a nudo le sue difficoltà nell’elaborazione di una strategia coerente – ha definito «partner, concorrente e rivale sistemico» la Cina, quest’ultima spera di poter presto contare sulla appena siglata Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) – il maggiore accordo di libero scambio del pianeta che coinvolge dieci paesi dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean) oltre a Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda – e sta considerando di entrare anche nel Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp).
Entrambi gli accordi configurano gigantesche aree di libero scambio nel Pacifico dalle quali, finora, gli Stati Uniti si sono tenuti fuori.
Aree di libero scambio che (assieme all’appello della cancelliera tedesca Angela Mekel a dar vita a catene del valore europee e alla necessità degli Usa di riportare investimenti e lavoro negli States) prefigurano nel medio periodo un accorciamento delle catene di distribuzione (che da globali diventerebbero regionali), con una quantità più ridotta di componenti importate, un minor numero di paesi coinvolti, più vicini ai mercati di destinazione finale del prodotto.
D’altro canto, il dinamismo e le potenzialità di ulteriore sviluppo della Cina, il suo mercato di 1,4 miliardi di consumatori e le prospettive aperte dalle nuove aree di libero scambio nel Pacifico spingono le compagnie occidentali a restare in Cina, dove continueranno a reclamare più spazi e parità di trattamento rispetto alle aziende locali.
Il sondaggio annuale della Camera di commercio americana a Shanghai condotto nel settembre scorso ha rilevato che il 92% delle aziende affiliate non aveva alcuna intenzione di lasciare il gigante asiatico, nonostante le politiche di Trump.
Mentre le grandi corporation teutoniche – incuranti dell’invito di Merkel a diversificare gli investimenti tedeschi in Asia (disinvestendo dunque dalla Cina) – continuano a scommettere proprio su quest’ultima.
Attualmente metà dell’export della Germania (un’economia totalmente dipendente dalle esportazioni) nel continente asiatico è diretto verso la Cina. Daimler ha annunciato “a sorpresa” che produrrà assieme alla cinese Geely i motori per i suoi nuovi veicoli ibridi. Mentre Volkswagen – che nel terzo trimestre è tornata a macinare utili grazie alla domanda nel gigante asiatico – ha in programma investimenti per 15 miliardi di euro tra il 2020 e il 2024 per fabbricare auto elettriche in Cina.
Il gigante della robotica industriale tedesca Han Automation è pronta a investire decine di miliardi di dollari per l’apertura di impianti in Cina nei prossimi tre anni, per aumentare le vendite in Cina dal 10% al 25%. Stessa strategia per il produttore teutonico di sensori per auto Olaf Kiesewetter.
Per stilare un elenco completo delle compagnie tedesche che negli ultimi mesi hanno annunciato grossi investimenti in Cina servirebbero pagine e pagine...
Inoltre, nei primi nove mesi del 2020 le esportazioni tedesche in Cina hanno superato quelle verso la Francia e, entro la fine dell’anno, potrebbero superare anche quelle negli Stati Uniti, rendendo la Cina il primo Paese destinatario dell’export di Berlino.
Stefan Mair – una delle menti che elaborò il documento della BDI (la Confindustria tedesca) che quasi due anni fa invitò la politica tedesca a disinvestire dalla Cina, si è rimangiato le sue stesse parole: «In termini economici, la Cina è diventata ancora più importante per la Germania rispetto all’inizio del 2020 – ha dichiarato alla Reuters –. È impossibile ignorare la Cina, perché il suo mercato e le sue opportunità di crescita sono semplicemente troppo grandi».
Insomma la crisi pandemica, dalla quale l’economia cinese sta uscendo rafforzata così come – una decina d’anni fa – uscì rafforzata da quella finanziaria globale, contrariamente ai proclami di frau Merkel, ha rimandato il momento in cui verrà reciso il cordone ombelicale che lega la grande industria tedesca a mamma Cina.
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Lombardia arancione, una scelta ad alto rischio
Si tratta di una azzardo molto pericoloso, visto che la situazione sanitaria in regione è ancora molto grave, solo in piccola parte alleggerita dal farlock-down delle ultime settimane, dove in realtà, si è chiuso già ben poco e dove soprattutto si è continuato a lavorare in fabbriche e uffici.
Ora si riapriranno negozi e grandi centri commerciali, forse sino alle 22 e anche nei giorni festivi, per “scaglionare l’affluenza”. Se in una città spaventata e impoverita ci sarà chi potrà dedicarsi al rituale degli acquisti natalizi non lo sappiamo, ma di certo il pericolo di un aumento dei contagi è alto.
Il passaggio da zona rossa ad arancione è stato sconsigliato, per la Lombardia, dall’Istituto Superiore di Sanità e da tutte le associazioni dei medici che mettono in evidenza come la situazione è ben lontana dall’essere significativamente migliorata.
Vero è che i nuovi casi rilevati sono, in assoluto, in calo, ma ciò è dovuto alla politica della Regione di fare meno tamponi, in modo da fingere che il contagio sia in regresso. Al contrario, il tasso di positività ai tamponi è ancora alto e in aumento, avendo raggiunto nella giornata del 27 novembre il 13,1%.
Nella stessa giornata, la Lombardia ha registrato 181 morti e la pressione sugli ospedali e sul personale sanitario è fortissima. La responsabilità che si assume Fontana, in questa situazione, con l’avallo del ministro Speranza, è dunque enorme, poiché l’afflusso nei centri commerciali potrebbe provocare centinaia di ricoveri che farebbero saltare completamente il sistema ospedaliero ancora sotto pressione.
L’esasperazione del personale sanitario, di fronte a questa situazione, è sempre più alta. Ai “Riuniti” di Brescia c’è stata ieri un’altra manifestazione spontanea di medici, infermieri e inservienti, molto più partecipata della prima, dopo che il direttore generale dell’ospedale aveva mandato una lettera ai giornali in cui diceva che in realtà “tutto andava bene”.
I lavoratori chiedono di essere coinvolti nelle scelte di gestione dell’ospedale, ma soprattutto vogliono nuove assunzioni dato che l’organico è insufficiente.
La risposta della Regione e dei direttori sembra essere una sola: la repressione di ogni voce di protesta che esca dagli ospedali.
Ne fa testo quanto accaduto negli ospedali San Carlo e San Paolo di Milano. Cinquanta medici di questi ospedali hanno scritto una lettera, tra l’altro interna, indirizzata al direttore, che per caso è uscita sulla stampa. I medici denunciavano la situazione inaccettabile di disagio professionale che li coinvolge e che, ovviamente, ricade sui pazienti.
La risposta è stata la rimozione dall’incarico della responsabile del dipartimento di pronto soccorso. Insomma, bisogna lavorare in condizioni inaccettabili, non poter curare chi sta male e tacere.
Questa è la legge di Fontana e Gallera.
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