di
Fabio Ciabatti
“La fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalle stesse promesse razionali”. Questa affermazione contenuta nell’ultimo rapporto del Censis sembra catapultarci direttamente nella dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno. E non è tutto.
“L’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale”, denuncia l’istituto di ricerca, utilizzando un’argomentazione dal vago profumo di materialismo storico per spiegare questo sinistro fenomeno: il rifiuto di scienza, medicina, innovazioni tecnologiche, che in passato hanno costruito il nostro benessere,
“dipende dal fatto che siamo entrati nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali. Questo determina un circolo vizioso: bassa crescita economica, quindi ridotti ritorni in termini di gettito fiscale, conseguentemente l’innesco della spirale del debito pubblico, una diffusa insoddisfazione sociale e la ricusazione del paradigma razionale”.[1]
Gli estimatori della scuola di Francoforte non devono però eccitarsi troppo. Se quella del Censis è dialettica si tratta senz’altro di una
dialectica interrupta perché, semplificando al massimo,
l’antitesi tra razionale e irrazionale non prospetta alcun tipo di sintesi, di superamento dei due termini della contraddizione.
L’irrazionalismo viene evocato solo come momento fallace per confermare la bontà del suo opposto, la razionalità dominante. Che le cose stiano effettivamente così lo possiamo intuire quando leggiamo che a fare da contraltare all’onda di irrazionalità c’è
“una maggioranza ragionevole e saggia”. Un’ulteriore conferma viene dal fatto che l’irrazionalismo si esprimerebbe nell’opposizione alle politiche governative:
“Le proposte razionali che indicano la strada per migliorare la situazione vengono delegittimate a priori per i loro supposti intendimenti, con l’accusa di favorire interessi segreti e inconfessabili. Il 29,7% degli italiani non crede che il razionalissimo PNRR cambierà il Paese, perché è condizionato da lobby che volgeranno tutto a proprio beneficio o perché la Pubblica Amministrazione non starà al passo, malgrado gli annunci, secondo il 44,3%”. Ma da quando constatare l’ovvio è diventato sintomo di irrazionalità? Forse da quando bisogna offrire in pasto all’opinione pubblica il mostro no vax quale capro espiatorio di tutti i nostri problemi? Queste cose ed altre contenute nel rapporto (p. es. mettere nello stesso calderone dell’irrazionalismo credere nel terrapiattismo e nello strapotere delle multinazionali) meriterebbero solo una sonora pernacchia se non fosse per il fatto che il Censis finisce per mettere in evidenza un tema molto importante: il significato dell’irrazionalismo nella nostra società.
Varrà allora la pena rivolgerci al già citato Adorno che questo tema lo ha trattato con la dovuta serietà, avvalendoci di un testo da poco pubblicato per la prima volta in italiano,
Introduzione alla dialettica. [2] Tratto dalle sue lezioni del 1958, questo libro (come gli altri che raccolgono i suoi corsi universitari) ha il dono di una maggiore chiarezza rispetto ai testi concepiti dallo stesso filosofo per la pubblicazione. Partiamo dall’assunto adorniano per cui l’irrazionalismo ha
“il suo momento di verità”. Esso, infatti, è il tentativo continuo di far risaltare nel pensiero ciò che nel processo progressivo dell’illuminismo va perduto rispetto all’esperienza del reale; ciò che è condannato dalla ragione dominatrice come debole, impotente, indegno di essere conservato nelle forme del pensiero. Le filosofie irrazionalistiche, in breve, cercano di parlare
“a nome di ciò che è stato sacrificato dalla storia” [3] delle vittime del razionalismo. Il processo di razionalizzazione ha comportato, infatti, un progressivo irrigidimento del mondo in una oggettività estraniata rispetto agli uomini.
Adorno non è certo un nostalgico. Egli pensa che le filosofie irrazionalistiche siano in genere restauratrici o reazionarie. Ritiene però necessario comprendere il non contemporaneo e l’arretrato non come perturbazione del progresso ma come frutto del progresso stesso. Quest’ultimo, infatti, porta con sé lo spossessamento di gruppi che, per origine e per ideologia, appartengono alla società borghese e che, improvvisamente, perdono la base materiale della loro riproduzione e per questo cercano la salvezza nel passato. È questa una delle espressioni caratteristiche dell’irrazionalità della nostra società che indebolisce le motivazioni stesse dell’agire economico trascurando il soddisfacimento dei bisogni umani in nome della legge del profitto. Se il capitale dispiegasse completamente la sua razionalità, dunque, la società borghese stessa cesserebbe di essere tale. Da ciò nasce la necessità di
“tenere in vita istituzioni irrazionali della più diversa specie” [4] sebbene esse rappresentino degli anacronismi rispetto a quella stessa razionalità.
Se il cammino dell’illuminismo è disseminato di vittime e di ingiustizie, questo non ci giustifica nel ricadere al di sotto di questo illuminismo creando delle
“riserve naturali di irrazionalità” [5]. Le cicatrici che esso lascia dietro di sé
“sono sempre anche quei momenti in cui l’illuminismo stesso si rivela un illuminismo ancora parziale, non abbastanza illuminato; e solo perseguendo coerentemente il suo principio sarà forse possibile guarire queste ferite” [6]. Secondo Adorno, dunque, ci si trova di fronte a
“un’antinomia che deve essere presa molto sul serio: da un lato il pensiero si esaurisce nella ripetizione cieca di ciò che è ed è noto in ogni caso, cioè nel conformismo, e dall’altro lato il pensiero, sottraendosi al controllo, rischia di diventare effettivamente incontrollabile e di sfociare in un sistema delirante” [7].
Torniamo per un attimo al rapporto del Censis per notare che l’antinomia che esso sottolinea non è presa veramente sul serio. L’irrazionalismo viene colto nel suo aspetto delirante mentre il suo opposto, la ripetizione cieca di ciò che è noto, non è minimamente messo in discussione: cos’è infatti il “razionalissimo” PNRR se non la reiterazione amplificata della solita ricetta neoliberista per il tramite di una momentanea sospensione di alcuni vincoli previsti dalla stessa ricetta? Si permette un maggiore indebitamento degli stati europei affinché questi possano proseguire nella direzione di sempre maggiori liberalizzazioni e privatizzazioni. L’ideologia dominante non sembra cogliere il paradosso: per lasciare più spazio al mercato c’è bisogno di maggiore intervento dello stato. Il tutto viene interpretato come una parentesi che una volta chiusa riporterà lo sviluppo economico sulla sua traiettoria naturale. In realtà non si può affatto escludere che ci si troverà alla fine su una traiettoria diversa dalla precedente che potrebbe prevedere una qualche forma di mutualizzazione europea dei debiti dei singoli stati, un allentamento non solo episodico dei vincoli dei bilanci pubblici, un interventismo statale più significativo di quello auspicato da lor signori ecc. Ma il pensiero dominante deve negare questa possibilità perché altrimenti dovrebbe ammettere che la razionalità del cosiddetto mercato è in sé stessa contraddittoria.
Di fronte agli esiti anestetizzanti della dialectica interrupta del Censis, bisogna ripartire dalla tragica serietà della dialettica adorniana. Occorre innanzitutto ripartire dall’
“esperienza della lacerazione” che secondo Adorno sta alla base del pensiero dialettico. Lacerazione è un’espressione carica di pathos che riverbera sul piano della sofferenza individuale l’antagonismo e la contraddittorietà che contraddistinguono il reale. Una sofferenza che può sfociare nel delirio quando l’individuo si trova ad affrontare un mondo ostile e misterioso e
“pretende di decifrare il senso occulto della realtà” (come denuncia il Censis) andando a caccia di cospirazioni e inganni sistematici e diffusi. Per quanto delirante, la forma mentis complottista ha un elemento in comune con il pensiero dialettico: la diffidenza nei confronti della realtà così come ci appare immediatamente. Con la differenza che la dialettica non fa ricorso sistematico a trame cospirative come principio esplicativo, ma ci porta a comprendere che è la realtà stessa a produrre il suo velo generando continuamente fenomeni che occultano e contraddicono ciò che essa è effettivamente.
Se il delirio denuncia una mancanza di presa sulla realtà, questo deficit non ha solo un carattere teorico. Non si tratta soltanto di una mancata comprensione del mondo, ma anche dell’incapacità di affrontarlo, di opporsi all’oppressione e all’ingiustizia di cui è intriso attraverso un’adeguata prassi individuale e collettiva. Non a caso il concetto di dialettica proposto dal filosofo francofortese
“non è un puro concetto teorico, ma in esso il momento della prassi è determinante” [8]. Non sarebbe infatti in alcun modo possibile pensare la natura dialettica dei rapporti materiali
“senza il concetto della trasformazione del mondo con l’azione” [9]. La verità, secondo la dialettica adorniana, ha
“sempre la sua drastica relazione ad una prassi possibile” in considerazione del fatto che essa si manifesta sempre attraverso una
“figura temporale” [10] legata a una realtà storicamente determinata.
Insomma, se vogliamo affrontare fino in fondo il tema della montante ondata di irrazionalismo abbiamo bisogno di
“evidenziare la discontinuità” [11]. Mostrare una frattura nel reale per poi cercare immediatamente di recuperare la coerenza e la compattezza del nostro oggetto di conoscenza significa porci il compito di pensare il reale come armonioso e positivo. Se prendiamo sul serio la critica del presente, invece, abbiamo bisogno di un pensiero che
“si modella su una condizione negativa del mondo e la chiama per nome” [12]. Un pensiero che, non potendo trovare consolazione attraverso un’illusoria conciliazione, non può che essere alla costante ricerca di una connessione con una prassi possibile per trasformare il reale.
La domanda da porsi a questo punto è se per trovare questa connessione e venire a capo della questione dell’irrazionalismo sia sufficiente perseguire coerentemente il progetto dell’illuminismo assecondando senza riserve il disincanto di cui esso è portatore. Cercheremo di dare una risposta prendendo spunto da un testo di Stefania Consigliere,
Favole del reincanto [13] già recensito su Carmilla (
qui). È senz’altro vero, sostiene l’autrice, che il disincanto illuministico ha spazzato via precedenti sistemi di dominio
“che facevano presa, in modo malevolo, sull’immaginario, sui sogni e sulle paure degli umani” [14]. Ma è altrettanto vero che il disincanto
“è pharmakon: guarisce nella giusta dose, in dose eccessiva avvelena” [15]. Un’overdose di disincanto comporta
“la rescissione degli attaccamenti che collegano gli umani al mondo, il collasso dell’individuo su se stesso” [16]. Una esito che, portato all’estremo, può bloccare ogni forma di prassi. La presenza di una qualche forma di legame che unisca gli esseri umani tra di loro e con il loro mondo, infatti, è la condizione minima affinché si possa realizzare un qualsiasi tipo di azione collettiva.
In realtà, prosegue l’autrice richiamando Marx, la modernità si presenta disincantata solo per lasciare il campo libero all’incanto proprio del mondo borghese: il fantasmagorico divenire mondo della merce. Con ciò il capitalismo diventa l’orizzonte unico della desiderabilità e ogni possibile mutamento viene catturato nel circuito del plusvalore. Se vogliamo cercare di evadere da questa prigione a cielo aperto, probabilmente non possiamo esimerci dall’andare oltre l’illuminismo avventurandoci nei territori pericolosi dell’immaginario. Ma di cosa parliamo quando ci riferiamo all’immaginario?
Se descriviamo ciascun mondo umano come un fascio di luce che illumina e tinge del proprio colore una regione particolare del reale, allora tra la zona in luce e quella buia non c’è una barriera, né una linea precisa di confine. Al di fuori del cono illuminato non c’è subito la tenebra più profonda, ma una fascia di penombra che progressivamente s’infittisce. Questa penombra è l’immaginario … È la zona dove si sviluppano i futuri, all’interfaccia fra ciò che già è e ciò che vorremmo far essere. Ed è la zona della discontinuità, dei resti, delle possibilità scartate, dei fantasmi e di tutto ciò che … è stato escluso o eliminato … È il luogo dove la storia lascia zavorre, dove s’incrociano e si scontrano le narrazioni collettive, i modi di dire, gli affetti … è il “mito-sogno” fatto di discontinuità e sopravvivenze che collega e informa di sé coloro che fanno parte di un collettivo, che ne permea i sogni, che si trasforma al mutare di quegli stessi soggetti e del loro mondo.[17]
Ma come, si dirà, i rivoluzionari si devono occupare dei bisogni materiali. Riti, sogni e viaggi nei territori dell’immaginario vanno lasciati ai fascisti. Di certo i fascisti ci sguazzano in questo mare spesso poco limpido, come testimonia anche la facilità con cui si sono appropriati dell’irrazionalismo no vax. Ciò nonostante abbandonare questo ambito è un grave errore perché comporta
“la smobilitazione di intelligenza e sensibilità dal terreno più cruciale per qualsiasi forma di cambiamento” [18
].
Da parte nostra aggiungiamo che rivolgendoci all’immaginario ci muoviamo lungo una traiettoria differente, ma non necessariamente contraddittoria, rispetto a quella indicata da Adorno. Attraverso il concetto di negazione determinata il filosofo francofortese può conservare all’interno del suo pensiero le tracce di una spinta utopica senza rinunciare a una critica immanente, cioè senza fare riferimento a criteri etici esterni e metastorici. Anche il portato utopico dell’immaginario è sempre frutto di un rapporto, per quanto problematico, con i parametri storicamente determinati che definiscono la conoscibilità e la praticabilità di uno specifico mondo. Non esiste un immaginario universale popolato di archetipi ancestrali custoditi nell’inconscio di ogni essere umano, perché ciascun mondo ha le sue particolari modalità per entrare in contatto con questa zona smarginata e incerta del reale. Potremmo dunque suggerire l’ipotesi che l’immaginario rappresenti una sorta di negazione debolmente determinata dell’esistente laddove la debolezza consiste nel fatto che esso non ci conduce verso un unico mondo possibile che scaturisce dalla spinta al superamento delle negatività del presente, ma ci prospetta una incerta molteplicità di mondi possibili potenzialmente in grado di superare le contraddizioni della nostra realtà attingendo a un multiforme repertorio di risorse mentali marginalizzate dalla razionalità dominante.
Chiamando in causa l’immaginario, dunque, scopriamo che frammenti di questi possibili mondi alternativi sono già presenti. Certamente esistono in una forma magmatica e, di conseguenza, possono essere utilizzati anche in senso regressivo. Il disincanto illuministico rimane dunque necessario per distinguere
“ciarlatani e mestatori da chi cerca nell’immaginario una possibilità di fare mondo in circostanze incerte” [19], tenendo conto delle conquiste materiali e ideali della modernità. Rimane il fatto che senza avventurarci sul terreno scivoloso dell’immaginario corriamo il rischio di rimanere vittime del cupo pessimismo adorniano che non riesce a trovare agganci positivi per immaginare processi di autoapprendimento collettivi in grado di superare le macerie del presente. D’altra parte, inoltrandoci in questo territorio dai contorni sfuggenti è facile incrociare sul nostro cammino una schiera di funesti imbonitori. Un rischio che non può essere evitato.
“Salvezza e dannazione si manifestano insieme quando il mondo vacilla” [20].
Note:
1) Censis, 55º rapporto sulla situazione sociale del Paese 2021, Franco Angeli, 2021. La presentazione e i capitoli del Rapporto sono disponibili sul
sito internet del Cenis.
2) Theodor W. Adorno, Introduzione alla dialettica, ETS, Pisa 2020.
3) Ivi, p. 47.
4) Ivi, p. 144.
5) Ivi, p. 183.
6) Ivi, pp. 183-184.
7) Ivi, p. 158.
8) Ivi, p. 90.
9) Ivi, p. 91.
10) Ivi, P. 41.
11) Ivi, p. 146.
12) Ivi, p. 77.
13) Stefania Consigliere,
Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2020.
14) Ivi, p. 37.
15) Ivi, p. 140.
16) Ivi, p. 43.
17) Ivi, p. 131-132.
18) Ivi, p. 78.
19) Ivi, p. 143.
20) Ivi, p. 150.
Fonte