Presentazione
Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni
30/11/2025
L’impossibile rinascita dell’industria statunitense /2
Nella prima parte di questo articolo abbiamo visto che il ripristino di una struttura industriale adeguata alle dimensioni e alla popolazione degli USA richiederebbe il ritorno in patria di quelle produzioni di massa che oggi i consumatori americani acquistano dalla Cina. Abbiamo visto anche, però, che diversi fattori impediscono all’amministrazione Trump di sanzionare pesantemente le merci cinesi e quindi di fare leva sui dazi per promuovere tale ritorno. Alla politica trumpiana, pertanto, arriderà un successo soltanto parziale, in quanto ad accettare le condizioni da essa imposte saranno, fra i tradizionali esportatori manifatturieri in terra americana, unicamente l’UE e alcuni paesi asiatici meno importanti della Cina. Abbiamo spiegato, inoltre, come l’imposizione dei dazi potrebbe spingere le imprese di tali aree a trasferirsi non negli USA, bensì in altri paesi, per beneficiare di costi di produzione più bassi; e come per il governo statunitense potrebbe risultare impossibile ottenere il pieno rispetto degli impegni riguardanti l’effettuazione di investimenti.
L’industria americana, in compenso, nel prossimo futuro potrebbe giovarsi dell’orientamento bellicista assunto dall’Unione Europea. Questo difatti le imporrà un riarmo che in tempi brevi non sarà conseguibile senza fare largamente ricorso alle produzioni di armamenti americane, in ragione di problemi di natura sia materiale (al momento l’apparato industriale militare europeo non è abbastanza sviluppato da poter supportare le ambizioni dei leader comunitari, e la riconversione di quello civile a fini bellici non può essere immediata) che finanziaria (gli attuali prezzi energetici si ripercuoteranno anche sui costi di produzione dei sistemi d’arma realizzati in Europa). Tuttavia, non è scontato che i popoli europei accettino senza reagire – nelle urne e nelle strade – i tagli alla spesa sociale necessari a finanziare l’espansione di quella militare. Inoltre, va rammentato che l’industria militare statunitense, pur avendo mantenuto un certo radicamento in patria, dipende comunque da forniture di componenti estere, ragion per cui, così come la fuga delle industrie dall’Europa si tradurrebbe solo in parte nella comparsa negli USA di nuovi stabilimenti, così la domanda europea di armi americane si tradurrebbe solo in parte in una maggiore attività di impianti produttivi ubicati negli Stati Uniti.
Insomma, neppure la politica europea di riarmo è suscettibile di offrire un contributo decisivo alla reindustrializzazione americana.
D’altronde, con tutta probabilità l’amministrazione Trump
è consapevole dell’impasse in cui si trova, ragion per cui non ambisce
davvero a “rendere l’America di nuovo grande” (come recita il noto
slogan), bensì, più modestamente, a rendere la situazione del paese un
po’ meno disastrata. I dazi riusciranno comunque ad avere un certo
impatto positivo sulla presenza di industrie nel paese. Essi, inoltre,
attenueranno la crisi finanziaria dello stato, consentendogli di
procurarsi nuove entrate senza commettere il reato di lesa maestà della
torchiatura fiscale dei ricchi; e consentiranno altresì un miglioramento
della bilancia dei pagamenti, e non soltanto perché alcuni beni
importati diverranno produzioni nazionali, ma anche perché quelli che
rimarranno tali diverranno più cari e quindi saranno meno richiesti
anche a prescindere dall’esistenza di un’alternativa made in USA. I
dazi, insomma, opereranno come delle imposte, che sottraendo risorse ai
cittadini determineranno una compressione dei loro consumi: un metodo
rozzo, ma efficace, per limitare le importazioni (noi l’abbiamo
sperimentato ai tempi del governo Monti, che con l’austerità riuscì a
riportare in attivo la bilancia commerciale dell’Italia; anche se tale
governo, invece dei dazi, per impoverirci usò direttamente la leva
fiscale).
I lettori noteranno che tutto ciò presenta un risvolto
paradossale: Trump si atteggia a difensore dei lavoratori americani, ma
le sue politiche da una parte non avranno un impatto forte come quello
promesso, e dall’altra comporteranno un prezzo da pagare, che in massima
parte ricadrà proprio sulle classi lavoratrici (al riguardo, i lettori
tengano presente che ormai la forza lavoro americana è largamente priva
di diritti e di rappresentanza sindacale; essa quindi non avrà molte
possibilità di fare pressione sulle imprese per ottenere aumenti di
stipendio compensatori del rincaro del costo della vita).
I lavoratori americani, quindi, si mettano l’animo in pace. Buona parte di essi è destinata, anche in futuro, a non avere altre possibilità d’impiego che un posto da magazziniere in un deposito Amazon o da cassiere in un centro commerciale Walmart: a non potere fare altro, insomma, che ammannire ai propri connazionali merci prodotte altrove. E subendo una perdita del potere d’acquisto dei loro già magri salari, per di più.
Peraltro, per loro il peggio deve ancora venire. Infatti, ci pare improbabile che questa soluzione di compromesso riesca a migliorare più di tanto lo stato dei conti pubblici statunitensi. Ormai il debito americano ha raggiunto un livello tale da autoalimentarsi, in quanto la sua entità gonfia la spesa per interessi su di esso, rendendo quest’ultima un potente fattore di ulteriore indebitamento. Se unitamente a tale problema consideriamo il pozzo senza fondo della spesa militare e l’evanescenza del gettito fiscale di tipo ortodosso, non possiamo non concludere che gli USA finiranno, presto o tardi, per trovarsi in una situazione di grave dissesto finanziario. E dunque, presto o tardi, si renderà necessario un intervento drastico, il quale naturalmente avrà un costo sociale che verrà scaricato, in larga misura, proprio sui lavoratori.
Intendiamoci: in linea di principio, il debito di uno stato può crescere all’infinito. All’atto pratico, però, a un certo punto può diventare troppo grande rispetto alle sue possibilità di trovare acquirenti (dal momento che la liquidità presente nei mercati finanziari non è illimitata e che comunque a essa si rivolgono anche tantissimi altri emettitori di titoli, sia privati che pubblici). La sua stessa crescita, inoltre, può dissuadere gli investitori dall’acquistarlo, rendendoli dubbiosi circa la capacità futura del governo di corrispondere loro gli interessi promessi.
Una strategia che potrebbe venire presa in considerazione? Bloccare la corsa del debito passando al finanziamento della spesa pubblica tramite creazione di valuta. Il governo, cioè, potrebbe procurarsi le risorse che gli occorrono emettendo titoli a bassissimo rendimento, i quali verrebbero acquistati dalla banca centrale (la cosiddetta Fed, abbreviazione di Federal Reserve), che li pagherebbe stampando nuova moneta (ma si può fare?, chiederete voi. Beh, è ciò che ha fatto l’Italia negli anni Settanta). Questa pratica da un lato ridurrebbe la necessità di collocare debito presso soggetti che pretenderebbero di guadagnare dal suo possesso e dall’altro – tramite l’inflazione e la svalutazione di cui sarebbe causa – abbatterebbe il valore reale degli interessi pagati, in patria e all’estero, sui titoli esistenti. La spesa per interessi sul debito andrebbe così riducendosi, e con essa la necessità di emettere nuovo debito per pagare tali interessi.
A onor del vero, sulla praticabilità di una simile operazione potrebbe incidere negativamente l’atteggiamento dei grandi operatori finanziari. Questi, difatti, non soltanto vedrebbero diventare meno redditizi i propri investimenti nel debito americano, in ragione della erosione dei rendimenti reali dei titoli, ma sconterebbero anche gli effetti dell’inflazione sul valore degli altri loro crediti, e quindi avrebbero ragioni per contrastare la messa in atto di tale politica. Tuttavia, nel momento in cui la crisi finanziaria degli USA diventasse un problema ineludibile, essi si troverebbero a dover scegliere fra una misura del genere e una ancora più drastica, quale potrebbe essere una ristrutturazione del debito (ovvero la decisione governativa di disconoscere parte di esso), ragion per cui potrebbero ritenere la prima una soluzione accettabile. Oltretutto, essi potrebbero provare a sfuggire alle ricadute negative dell’inflazione cercando per i propri capitali degli impieghi all’estero, che consentirebbero loro di conseguire profitti in valute meno soggette a perdere valore.
Le principali vittime di una strategia inflazionistica, dunque, sarebbero in realtà le classi lavoratrici, ovvero la parte della popolazione meno dotata d’influenza politica. Esse difatti subirebbero una perdita di reddito reale, corrispondente alla perdita di potere di acquisto delle loro retribuzioni ingenerata dall’inflazione. Certo, quest’ultima avrebbe anche la conseguenza positiva di far svalutare il dollaro rispetto alle altre monete, e quindi di causare – alla stregua di un’ulteriore barriera daziaria - un rincaro delle importazioni; ma il suo contributo alla reindustrializzazione degli USA sarebbe fortemente dilazionato nel tempo, in quanto la contrazione dei consumi interni limiterebbe la propensione degli imprenditori a investire.
Questo dunque è il presumibile futuro dell’economia statunitense: non un’America “di nuovo grande”, ma semmai più piccola, cioè segnata dall’ulteriore impoverimento di ampi strati della sua popolazione. A meno che... a meno che il GENIUS Act non faccia il suo dovere. Il Guiding and Establishing National Innovation for U.S. Stablecoins Act è un provvedimento appena varato dall’amministrazione Trump (il cui acronimo è per l’appunto GENIUS: bella cosa l’autostima), il quale dovrebbe servire proprio a scongiurare una crisi del debito. Il Genius Act si rivolge agli emittenti di stablecoin, le quali sono delle criptovalute teoricamente più stabili delle altre monete virtuali, in quanto create da società che posseggono delle riserve economiche di pari valore. Il provvedimento impone loro di sostenere le proprie valute tramite l’acquisizione di beni sicuri, quali i titoli del Tesoro americano. Per effetto di questa norma, l’espansione del settore delle stablecoin dovrebbe comportare un aumento della domanda di tali titoli, consentendo al governo di continuare a emetterne in grandi quantità senza correre il rischio che essa non tenga il passo della loro offerta. Addirittura, la crescita della richiesta di titoli dovrebbe consentire al governo di venderli a un prezzo più elevato e offrendo per essi degli interessi più bassi rispetto a quelli attuali. Bello, no?
Sì, peccato che già adesso sia osservabile come diverse stablecoin non siano riuscite a mantenere il proprio valore nel tempo, svalutandosi rispetto agli asset posseduti dai loro emittenti. Cosa succederà quando ne circoleranno centinaia? Il precedente cui possiamo rifarci non è incoraggiante. Negli Stati Uniti dell’Ottocento a battere moneta erano decine di banche diverse, e la situazione che ne derivava era piuttosto instabile, al punto che vari istituti fallirono. Vero è che all’epoca non esisteva una banca centrale federale che vigilasse sul sistema creditizio; ma siamo sicuri che le autorità riusciranno a vigilare con la dovuta attenzione sull’affidabilità di una moltitudine di stablecoin? A nostro avviso, è molto più probabile che prima o poi si abbia qualche grosso fallimento, che porterà alla reimmissione sul mercato di enormi quantitativi di titoli, con conseguente crollo del loro valore e impennata dei rendimenti che il governo dovrà garantire per poter collocare le nuove emissioni. Fenomeni che compenseranno largamente i risparmi ottenuti sino a quel momento.
L’aspetto paradossale di questa situazione è che, in linea di principio, un’alternativa a queste politiche ingiuste e fallimentari esiste: una strategia efficace e socialmente equa di reindustrializzazione e di rientro dal debito è infatti concepibile. Proviamo a delinearne le caratteristiche.
Dunque, cosa potrebbe fare un’amministrazione davvero intenzionata a far risorgere l’industria americana? Ebbene, per cominciare potrebbe dare vita a un efficiente sistema universitario pubblico, a un efficiente sistema sanitario pubblico e a un efficiente sistema previdenziale pubblico, in modo da liberare i cittadini dalla necessità di svenarsi e indebitarsi per pagare un college privato, un’assicurazione sanitaria privata e un piano pensionistico privato. Fatto ciò, sarebbe in grado di praticare una politica protezionista senza compromettere la capacità di consumo della popolazione, poiché l’incremento dei prezzi ingenerato dai dazi verrebbe compensato dalla sparizione dai bilanci familiari di quelle ingenti voci di spesa. La spesa aggiuntiva nel campo della formazione, inoltre, porrebbe a disposizione delle imprese le risorse umane di cui queste abbisognano. Tale amministrazione, ancora, potrebbe varare una politica di grandi investimenti pubblici, funzionali al miglioramento delle infrastrutture nazionali: questo sarebbe un modo per rendere più conveniente la localizzazione negli Stati Uniti delle attività industriali a prescindere dall’imposizione o meno di dazi sulle importazioni. Inoltre, dal momento che tale politica di infrastrutturazione farebbe sorgere una ingente domanda di beni industriali, la quale per forza di cose dovrebbe venire soddisfatta soprattutto da aziende straniere, la sua conduzione doterebbe il governo americano di un’importante leva negoziale nei confronti della Cina (la quale, in cambio dell’accesso delle proprie imprese a queste commesse pubbliche, potrebbe venire indotta a tollerare un’accentuazione del protezionismo statunitense o ad impiantare fabbriche negli USA). La nostra amministrazione ipotetica potrebbe altresì porre in essere una combinazione di tasse e incentivi finalizzata a dirigere l’attività degli operatori finanziari verso i settori manifatturieri da rilanciare, punendo gli investimenti speculativi (come i riacquisti di azioni proprie, che oggi costituiscono una forma importantissima di reimpiego dei profitti) e premiando quelli produttivi. Infine, per procurarsi le risorse necessarie al finanziamento di tutti quegli investimenti pubblici essa potrebbe perseguire una politica di distensione – che le consentirebbe di ridurre le spese militari – e sottoporre i ricchi ad una sana tosatura fiscale.
Quanto al problema del debito, quello verrebbe risolto tramite l’incremento del gettito fiscale, che deriverebbe in parte dall’inasprimento della tassazione sui redditi alti e sui grandi patrimoni, ma in parte anche dall’espansione della base imponibile derivante dalla ripresa dell’occupazione industriale. Si noti che il risanamento finanziario contribuirebbe a rendere gli USA meno ricattabili dai loro partner commerciali, in quanto ne ridurrebbe la dipendenza dal collocamento dei propri titoli sul mercato internazionale, e quindi conferirebbe loro una maggiore libertà d’azione sul piano delle politiche daziarie.
Sì, un’amministrazione bene intenzionata potrebbe fare così. Peccato che... non possa. Liberare le famiglie dalla schiavitù dei prestiti universitari, delle polizze sanitarie e dei piani pensionistici significherebbe sfilare una grassa mangiatoia da sotto il grugno dei signori della finanza. Vi pare che questi lo permetterebbero? No. E consentirebbero al governo di sottoporli a un regime di premi e punizioni, volto alla pianificazione dei loro investimenti? O di privare l’industria degli armamenti del vorace inghiottitoio ucraino (o di altre occasioni che potrebbero sorgere in futuro, tra Europa e Asia, ai confini della Russia)? O di tassarli in proporzione alla loro ricchezza? No, no e no. Non lo consentirebbero, quindi non si può fare. La presa degli ultraricchi sulla classe politica statunitense è troppo forte perché questa possa prendere decisioni ad essi così sfavorevoli.
Da ciò si ricava una conclusione ben precisa. Se i cittadini americani davvero vogliono che gli USA tornino a essere un grande paese industriale, allora... devono fare la rivoluzione. Non è un’esagerazione: agli USA serve proprio il socialismo. Vanno espropriati i grandi capitali, ponendo la finanza (e a cascata tutte le principali aziende, che essa controlla) sotto il controllo diretto dello stato. Questo avrebbe così, finalmente, la possibilità di agire liberamente per il bene della nazione. O il socialismo, o nessuna seria politica di sviluppo è attuabile. “There is no alternative”, direbbe Margaret Thatcher. (Oddio, forse in questo caso specifico non lo direbbe.)
Naturalmente, quello dell’americano medio che una mattina si alza e va a fare la rivoluzione è uno scenario del tutto implausibile: gli esponenti delle classi lavoratrici statunitensi sono incavolati neri (inclusi i bianchi), ma sono troppo individualisti e troppo politicamente incolti per sfogarsi in altro modo che mettendosi a sparare a casaccio. Dunque, con tutta probabilità dovranno subire il trattamento da noi descritto: prima faranno le spese del risanamento della bilancia dei pagamenti, attraverso il rincaro dei prezzi generato dai dazi, e successivamente del risanamento delle finanze pubbliche, attraverso l’ulteriore aumento dei medesimi causato dalla perdita di valore del dollaro. C’è da chiedersi che vita si ritroveranno a fare, considerato che già oggi la loro condizione economica è in molti casi estremamente precaria. Ma forse non tutto il male verrà per nuocere. Forse, quando gran parte degli americani non potrà più permettersi un mutuo, un’assicurazione sanitaria, una polizza previdenziale, allora i signori della finanza si renderanno conto di avere agito come locuste, che hanno aggredito con tale voracità il campo su cui erano calate da desertificarlo; e allora andranno dai governanti per chiedere loro un altro New Deal.
O forse no. Forse, tutto ciò che faranno sarà dirottare all’estero i capitali sino a quel momento impiegati negli USA, cercando nuovi campi da spogliare. Una parte di mondo che potrebbe svolgere un simile ruolo sicuramente c’è. Riuscite a indovinare di quale si tratta? Indizio: è un continente i cui governanti sono decisi a intraprendere una corsa al riarmo e che pertanto, per finanziare un forte incremento delle spese militari, dovranno tagliare la presenza pubblica in campi quali la previdenza, la sanità e l’istruzione, imponendo così ai suoi abitanti di affidarsi a operatori privati per l’ottenimento di questi servizi.
Ocse: in Italia la pensione arriverà ai 70 anni
Nello studio si legge: “sulla base della legislazione in vigore l’età normale della pensione aumenterà in oltre la metà dei Paesi Ocse per stabilirsi in una forchetta compresa dai 62 anni in Colombia (per gli uomini, 57 per le donne), nel Lussemburgo e in Slovenia, ai 70 anni o più in Danimarca, Estonia, Italia, Paesi Bassi e Svezia”.
Questa soglia scatterà in Italia, secondo i meccanismi automatici legati all’aspettativa di vita, nel 2067. Chi oggi inizia a lavorare, e ha 22 anni (una situazione di un giovane che ha appena ottenuto una laurea triennale, per capirci), può “ambire”, sempre che avrà una carriera lavorativa piuttosto continuativa, ad andare in pensione con 46 anni e un mese di contributi nel 2071, a 68 anni.
Una vita tumulata nel lavoro, e non vale il detto “mal comune mezzo gaudio” se si pensa ad altri paesi che faranno persino peggio: in Estonia l’età pensionabile potrebbe arrivare a 71 anni, in Danimarca addirittura a 74. Dei 38 paesi Ocse, ovviamente, non tutti stanno vivendo prospettive del genere.
L’età di pensionamento media del gruppo, lo scorso anno, era di 64,7 anni per gli uomini e 63,9 anni per le donne. Per chi ha iniziato a lavorare nel 2024, la prospettiva era un po’ più alta: in media, 66,4 anni per gli uomini e 65,9 anni per le donne. Ma alcuni paesi, come Colombia, Slovenia e Lussemburgo, tolte possibili riforme, lasceranno invariata la propria età pensionabile.
È scontato affermare che ciò dipenderà anche dal rapporto tra popolazione in età lavorativa e anziani. Da qui al 2050, riferisce l’Ocse, la proporzione tra la popolazione sopra i 65 anni e quella tra i 20 e i 64 aumenterà di oltre il 25%. In numeri, ciò si traduce nel fatto che se oggi ci sono 39 persone oltre i 65 anni ogni 100 in età attiva, in un quarto di secolo queste diventeranno 64 ogni cento.
La discesa media della popolazione in età lavorativa è prevista intorno al 13%, ma in Italia il calo potrebbe superare il 35%, attestandosi tra i dati peggiori dell’Ocse. E non c’è dubbio: meno sono i giovani, meno possono essere i contributi con i quali si pagano le pensioni.
Però bisogna evitare di scadere nella trappola preparata dalla propaganda neoliberista, che prende i numeri sulla spesa pensionistica per giustificare i tagli o l’aumento dell’età pensionabile. Perché, innanzitutto, esistono vari sistemi di pagamento pensionistico: se un sistema fondato sui contributi non basta, allora deve essere la fiscalità generale a pagare il rimanente.
Ovviamente, questa opzione viene rifiutata perché è evidente che, per trovare le risorse, bisognerebbe finalmente riformare la tassazione in maniera più equa, e prendere molto di più dai redditi più alti. Collegato a ciò, c’è proprio la seconda motivazione, ovvero che la quiescenza dopo 40 anni di lavoro è il risultato di un patto sociale.
Uno dei tratti delle società che vogliono dirsi civili dovrebbe essere quello di non far più lavorare gli anziani, e garantire loro dei diritti economici, che dovrebbero essere tali non secondo virtù di bilancio. Questo traguardo del passato è però una conquista delle lotte dei lavoratori, e da decenni le classi dirigenti stanno trasformando questo patto sociale.
La pensione non è più un diritto che serve a salvaguardare la vita di chi è arrivato ai limiti dell’età lavorativa, come obiettivo sociale, ma è tornata a essere poco più di una prestazione assicurativa individuale, quantificata con un calcolo sempre più insufficiente, e relegata ad anni in cui il lavoratore è già stato spremuto in ogni sua forza ed energia, quando ormai insomma non può essere più sfruttato ulteriormente.
Tenendo presente questo aspetto, i tre omicidi giornalieri di lavoratori, il tentativo di peggiorare ulteriormente le condizioni di lavoro, la riduzione dei servizi sanitari, è anche facile mettere in dubbio che le prospettive di vita aumentino ulteriormente. Ma ciò non avverrà, dunque, per raggiunti limiti naturali, bensì perché il capitale avrà preso tutto dalla forza lavoro, fino a distruggerla.
La necessità di riaccendere il conflitto, sociale e politico, emerge da sola, una volta avuta questa presa di coscienza.
Fonte
ONU: territori palestinesi in rovina, decenni buttati e ricostruzione in salita
Si tratta di un’analisi condotta dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), che fotografa una realtà devastante: l’escalation delle ostilità seguita all’ottobre 2023 ha agito come un acceleratore per una distruzione generalizzata, che si è innestata su di un tessuto già fragile. In soli quindici mesi, Israele ha cancellato oltre vent’anni di sforzi per lo sviluppo economico e sociale.
Ovviamente, la Striscia di Gaza è l’area più colpita. I numeri dell’ONU descrivono un territorio che, nei fatti, non ha più un’economia. Tra il 2023 e il 2024, il PIL gazawi si è contratto dell’87%, riducendosi alla cifra irrisoria di 362 milioni di dollari. Parallelamente, il PIL pro capite è crollato a 161 dollari, uno dei livelli più bassi al mondo, ma anche nei confronti della Cisgiordania. Il reddito di un abitante della Striscia è ormai il 4,6% di quello di un palestinese della West Bank, mentre nel 1994 le due economie si trovavano su piani comparabili.
La distruzione fisica è quasi assoluta. Le immagini satellitari analizzate dall’ONU mostrano un calo del 73% delle luci notturne, simbolo di attività che sono state spente con la forza e che lasciano solo un’atmosfera spettrale. Il 92% delle abitazioni è stato danneggiato o distrutto, lasciando un milione e mezzo di persone senza un tetto sopra la propria testa. Il sistema scolastico è collassato, con gli studenti privi di istruzione formale da quasi due anni, mentre il 50% degli ospedali non funziona più.
Ciò non significa che la Cisgiordania se la passi meglio, a dimostrazione di come il problema, per Israele, non è mai stata Hamas, ma i palestinesi stessi, e qualsiasi ipotesi di loro autodeterminazione. L’onda d’urto è arrivata anche in questa regione: il PIL si è contratto del 17% nel solo 2024.
Qui il terrorismo sionista, che continua a uccidere indiscriminatamente e a perpetrare una violenza sistemica, utilizza anche altri mezzi, come ad esempio delle soffocanti restrizioni alla mobilità. Posti di blocco e barriere hanno frammentato il territorio della Cisgiordania, rendendo un miraggio qualsiasi continuità territoriale necessaria alla formazione di uno stato palestinese.
Ci sono poi le azioni dei coloni: tra l’ottobre 2023 e il luglio 2025 si sono registrati quasi 3.000 attacchi contro palestinesi, e la distruzione di oltre 2.800 loro strutture. Solo a Jenin, ad esempio, 8 mila imprese palestinesi hanno dovuto chiudere i battenti. E una reazione da parte delle autorità palestinesi è resa impossibile anche dal ricatto continuo sui proprio fondi.
L’UNCTAD parla della “peggiore crisi fiscale della storia” dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il governo è strangolato finanziariamente. Israele, che controlla i confini, riscuote le imposte sulle importazioni per conto dei palestinesi, ma trattiene unilateralmente quote sempre maggiori di questo denaro.
Dal 2019 ad oggi, le somme trattenute o dedotte da Israele hanno superato 1,76 miliardi di dollari, una cifra enorme che vale quasi il 13% dell’intero PIL palestinese del 2024. Senza queste risorse, il governo palestinese non riesce a pagare gli stipendi pubblici, e il sistema sanitario sopravvive solo accumulando debiti con i fornitori privati.
Le prospettive delineate dall’organismo ONU sono preoccupanti. La sola ricostruzione materiale di Gaza richiederebbe, secondo stime preliminari, oltre 53 miliardi di dollari. Ma i tempi sono la vera incognita: anche nello scenario migliore, ipotizzando la fine immediata delle ostilità e una crescita a doppia cifra sostenuta dagli aiuti, serviranno decenni per riportare Gaza al livello di benessere pre-ottobre 2023.
Senza considerare che qualsiasi ipotesi di autodeterminazione per il popolo palestinese non può di certo essere costruita sul benestare filantropico degli aiuti umanitari. E proprio questo è un altro obiettivo perseguito coscientemente da Tel Aviv.
Dalle Nazioni Unite si alza un ulteriore monito: accanto a un cessate il fuoco davvero reale e stabile serve un piano di salvataggio che includa un reddito di base d’emergenza per la popolazione affamata. Chi dovrebbe pagare questa spesa? Sappiamo bene che dovrebbe essere Israele, ma sappiamo bene anche che i vertici sionisti preferiscono far morire di fame i palestinesi. Parola loro.
Fonte
Diecimila persone in piazza a Messina contro il Ponte
Ancora una volta migliaia di persone hanno percorso le strade di Messina. Presenti tante realtà del Sud decise a difendere i propri territori dalla furia devastatrice delle politiche coloniali ed estrattiviste.
In questi giorni la governance del ponte ha subito un duro colpo, ma in pochi si fanno illusioni. È possibile che tornino ancora, perché il dispositivo del ponte è uno strumento troppo succulento per il blocco sociale che lo sostiene.
I No Ponte annunciano con il riuscito corteo di ieri che continueranno la lotta per rivendicare le risorse destinate al ponte affinché vengano soddisfatti i bisogni che esprimono i territori.
Qui di seguito il documento finale dell’Assemblea No Ponte.
Abbiamo fatto un altro passo. Tantissime volte ci siamo ritrovati in questa piazza alla fine di un corteo no ponte. E siamo sempre stati in tanti. Sì, perché questo è sempre stato il movimento no ponte, un movimento di popolo, un movimento dal basso, un movimento di abitanti che vogliono decidere del proprio futuro. Questo è sempre stato il movimento no ponte, un luogo d’incontro per tutte le lotte territoriali.Fonte
Oggi, collegati con la manifestazione che intanto si svolge a Roma, questo luogo è anche la Palestina. Perché Gaza è oggi il nome comune di ogni ingiustizia e perché il progetto di ricostruzione di Gaza è la manifestazione più feroce delle politiche estrattiviste e coloniali di cui anche il ponte è espressione. Quelle stesse politiche estrattiviste e coloniali che portano con sé morte e repressione, repressione che colpisce i movimenti con arresti, multe, misure sempre più restrittive della libertà di manifestare,
Saremmo potuti venire in piazza convinti di dovere dare l’ultima spallata, convinti che, alla fine, un giudice metterà fine a questa follia e che ci preserverà dalla devastazione. Saremmo potuti venire in piazza convinti che fosse riconosciuta la ragionevolezza delle nostre argomentazioni, che, alla fine, le bugie hanno le gambe corte e la giustizia prevale sempre. Noi, però, abbiamo imparato che non è così.
In tutti questi anni abbiamo imparato che la storia del ponte è fatta di un’alternanza di fasi e che ad uno stop segue sempre una ripresa. Non è, d’altronde, solo la storia del ponte. È la storia delle grandi opere e avviene perché intorno alle grandi opere si forma un blocco sociale che si nutre delle risorse pubbliche.
Per questo ci fidiamo così poco delle forze politiche, perché gli abbiamo visto cambiare opinione troppe volte. E anche quando si sono schierate per il no al ponte gli abbiamo visto usare troppo spesso un no condizionato. “Il nostro non è un no ideologico”, dicono. E quale sarebbe il no ideologico? “Questo progetto non sta in piedi”, dicono. E se stesse in piedi, diventeremmo per quello a favore del ponte? Noi pensiamo, invece, che dalla storia del ponte bisogna uscire definitivamente.
Il ponte non è emendabile, non esiste il ponte ecologico, non esiste il progetto che non impatta sul territorio, soprattutto non esiste un ponte che non sperpera enormi quantità di risorse pubbliche che andrebbero usate per la messa in sicurezza del territorio, per scuole, ospedali, reddito. Così come abbiamo scritto nell’appello “Il Sud unito contro il ponte”.
Giornalisti, vil razza dannata
Conosciamo il mestiere e i suoi format, sappiamo riconoscere quando viene messa la sordina, ignorata una notizia o una tendenza (è la cosa più semplice: “non ne parliamo”), invertire “aggressore e aggredito” (una carica di polizia immotivata contro ragazzi a mani nude può in un attimo diventare “scontri”), e via elencando.
Insomma, siamo giornalisti pure noi, ma di quelli che hanno messo le proprie “competenze” dentro un progetto collettivo di ricostruzione della soggettività antagonista e indipendente dal “sistema dominante” (per dirla in breve).
E che sanno riconoscere i “colleghi” che obbediscono al comando della proprietà, rappresentata istituzionalmente dal direttore e dai capiredattori.
In questi giorni l’esibizione di servilismo professionale si è dovuta applicare a due compiti piuttosto abituali: silenziare preventivamente uno sciopero generale seguito da una manifestazione nazionale (più altre locali) e trovare qualcosa che aiuti a “coprire”, magari mettendo in pessima luce – direttamente o indirettamente – le aree politico-sindacali-associative che davano corpo alle mobilitazioni.
Sembra passato un secolo da quando – meno di due mesi fa – un mesto Enrico Mentana, su La7, era costretto ad ammettere pubblicamente che le straordinarie giornate del 22 settembre, 3 e 4 ottobre – un milione e più di persone in piazza – erano “un successo di USB e Potere al Popolo”.
Successo sgradito, certo, ma successo. Si era insomma manifestato un nuovo soggetto politico e sindacale, non riconducibile alle formazioni ammesse al “campionato di serie A”, ma con una forza di mobilitazione decisamente superiore.
Giornalisticamente, davanti all’apparizione di una novità sgradita ma forte, si può reagire in due modi (tralasciamo le infinite varianti possibili): cercare di “recuperare” la devianza indipendente oppure tentare di ricacciarla sotto la soglia della visibilità.
Nel primo caso avremmo avuto un buon numero di interviste agli sconosciuti leader delle due formazioni, tese a “capire cosa bolliva nella pentola della società” ma al tempo stesso “normalizzare” quel sobbollire. Nel secondo caso, quello che si è verificato fino ad oggi.
Dal 5 ottobre in poi USB e Potere al Popolo non sono quasi state più nominate, se non in occasione delle elezioni regionali in Toscana e in Campania, ma in quest’ultimo caso solo per ghignare sul risultato insufficiente ad eleggere un consigliere.
Lo sciopero generale del 28 è stato nominato, mentre era in corso, solo per dar conto ai soliti “problemi nei trasporti”, ma senza neanche dire chiaramente chi lo aveva proclamato. Al massimo si accennava ai “sindacati di base”, oppure ai “Cobas” (chi, come noi, conosce e frequenta il sindacalismo “minore”, sa che quella sigla è copiata-declinata in svariate sotto-sigle, neanche tutte aderenti alla mobilitazione). Anche le poche foto pubblicate ex post erano selezionate in modo da evitare di far apparire la sigla “USB”.
Straordinaria coincidenza, oppure un ordine di scuderia che ha attraversato le redazioni mainstream. La seconda, come sempre, è la risposta vera...
La riprova ieri, in piazza. Una massa di fotografi attirati dagli “ospiti internazionali” – Greta Thunberg e Francesca Albanese in primo luogo – e diversi giornalisti.
I primi, come al solito si sono gettati sulle “prede” con un furore degno di un plotone al fronte, al punto da costringere Greta a rifugiarsi sul camion dell’amplificazione per non essere travolta; e far reagire bruscamente anche qualche addetto alla sua protezione.
I secondi hanno approcciato i sindacalisti ponendo come prima e unica domanda “che pensate dell’attacco a La Stampa, a Torino?”. Lo sciopero generale contro la manovra del governo Meloni, contro le politiche di riarmo europee, la solidarietà con la Palestina, la denuncia della criminalizzazione del dissenso... Che gliene frega ai “colleghi”?
L’unica cosa era “prendere” una frase pro o contro se stessi, totalmente identificati con la testata nota familiarmente agli operai torinesi come La Büsiarda (del resto è di proprietà della famiglia Agnelli, come ora anche Repubblica).
Inevitabile ricevere a quel punto un molto educato “vaffa”.
Ma era l’atteggiamento comportamentale dei “colleghi” a dare la misura della distanza tra una redazione “importante” ed il mondo popolare. Si muovevano come se questi “altri” fossero materia che doveva mettersi a loro disposizione, “popoli primitivi” da colonizzare, “inferiori” da descrivere secondo l’uzzo, obbligati a rispondere non sulle ragioni di quel che stavano facendo ma su quel che interessava al caporedattore...
Come se il tesserino da “professionista” avesse lo stesso potere disciplinante di quello dell’Fbi. E come se gli schemi mentali fossero gli stessi. Come se considerassero quella fiumana di gente in piazza come “nemici” da combattere e disperdere, esercitando il compito limitato di “narratori tendenziosi e squalificanti”. Quello che poi facilita o giustifica conseguenze più “muscolari”...
Sarà l’aria di guerra, sarà che la struttura centrale del potere capitalistico è cambiata parecchio (i primi sette uomini più ricchi del pianeta sono tutti – anche – “magnati dei media”: Musk, Zuckerberg, Bezos, Ellison, ecc.), ma l’informazione mainstream sembra aver incorporato ormai il codice della “guerra ibrida”: non esistono i fatti e l’oggettività, ma solo quel che serve o contrasta il gruppo di potere per il momento dominante.
Non stupisce che quando, come a Torino, qualcuno si comporta con loro nello stesso modo – peraltro senza torcere un capello a nessuno; come teorizzava persino Marco Pannella, “la non violenza si esercita tra gli uomini, non necessariamente sulle cose” – scatti il riflesso pavloviano che fa sciorinare in serie rigida “la difesa della libertà di stampa” e tutti i suoi corollari.
Che erano e sono sacrosanti, quando la funzione della stampa è “fare il cane da guardia della democrazia svelando le magagne del potere”. Purtroppo è diventata il “fare il cane da guardia del potere contro la democrazia e i popoli”. E allora non puoi invocare le stesse guarentigie, che ti servono ora solo per esercitare la tua violenza – retorica, certo, ma non meno devastante – pretendendo l’immunità.
Se incontri un sindacalista o un dirigente politico consapevole della fase e dei rapporti di forza, puoi prenderti al massimo un “vaffa” o un sorriso ironico. Se ti capita qualcuno solo indignato e incazzato può disordinarti la scrivania.
Spiacevole, certo, ma sempre meno tragico del massacro di 280 colleghi – senza virgolette – a Gaza, per mano dei cecchini “democratici” dell’IDF.
P.S. Volete una prova? Oggi né il Corriere della Sera nè Repubblica danno alcuna notizia della manifestazione di ieri, né dello sciopero generale del 28. Ma dedicano entrambi una pagina alla “frase shock di Albanese”. Se questa è “informazione libera”, possiamo immaginare il resto...
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100mila persone in piazza mandano un avviso di garanzia al governo
La gente che si era mobilitata a settembre e ottobre riempiendo le piazze per la Palestina non è tornata a casa, al contrario ha rilanciato con due giorni di mobilitazione che hanno indicato come target il governo Meloni per le sue scelte sul riarmo e le spese militari, i bassi salari e il collasso dei servizi pubblici e la complicità con Israele nel genocidio dei palestinesi.
Se qualcuno voleva trovare una opposizione politica e sociale al governo degna di questo nome, l’ha potuta verificare nello sciopero generale di venerdi e nella manifestazione di ieri pomeriggio con le decine di migliaia di persone che hanno manifestato per le strade di Roma da Porta San Paolo fino a gremire Piazza San Giovanni.
Le fotografie scattate da ogni angolazione durante il corteo e nella piazza finale testimoniano di una mobilitazione di massa pienamente riuscita. L’USB parla di centomila persone e anche questa volta la cifra non sembra andare lontano dalla realtà che abbiamo visto.
La preoccupazione che le telecamere spente su Gaza o la rassegnazione sul ritmo di marcia del governo sulla guerra, il riarmo e le misure antisociali avessero rimandato a casa le persone è svanita mano a mano che il corteo si componeva in tutta la sua potenza. Nel paese c’è un pezzo di società attivo e attivato che attraversa i posti di lavoro come i territori, le scuole come le università e che intende dare battaglia su una piattaforma in cui “tutto si tiene insieme”.
Vedere migliaia di bandiere delle organizzazioni dei lavoratori come USB sventolare insieme a quelle palestinesi, delle organizzazioni studentesche Osa e Cambiare Rotta e di Potere al Popolo, delle tante reti sociali che si sono definite come “equipaggi di terra” della Flotilla come dell’Arci, restituiva non solo un colpo d’occhio straordinario ma anche l’idea di un blocco sociale che tende a riconoscersi e convergere su contenuti avanzati e ben sintonizzati sulle priorità di una agenda politica complessiva.
Alla testa del corteo e sul camion che ospitava interventi e musica era possibile vedere insieme portuali, vigili del fuoco, attivisti e personalità come Greta Thunberg, Francesca Albanese, Thiago Avila, Moni Ovadia che hanno dato il loro supporto allo sciopero di venerdì e alla manifestazione di ieri. Un momento emozionante è stato quando all’inizio del corteo l’amplificazione ha diffuso il brano che Roger Waters ha realizzato appositamente per questi due giorni di mobilitazione. Un silenzio quasi irreale che ha coinvolto migliaia e migliaia di persone.
Altrettanto emozionanti gli interventi finale dal palco mentre la piazza si riempiva. Francesca Albanese, operai dell’Ilva, portuali genovesi, rappresentanti palestinesi, Guido Lutrario di USB, i due portavoce di Potere al Popolo Giuliano Granato e Marta Collot con un intervento “a mezzi”, Greta Thunberg, Vincenzo Fullone, i vigili del fuoco, gli studenti, hanno aggiunto valore ai molti interventi che dal camion hanno accompagnato passo passo il corteo fino alla conclusione in Piazza San Giovanni.
A Milano, contemporaneamente alla manifestazione di Roma diverse migliaia di persone, partite da piazza XXIV Maggio ha attraversato la città fino a Piazza Duomo in occasione della Giornata internazionale di solidarietà col popolo palestinese.
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Un "piano B" per l'ex Ilva. Ma con tagli pesantissimi sull'occupazione
A fare il nome del cavaliere di Cremona è Il Giornale, che scrive di un possibile piano segreto che coinvolgerebbe - al condizionale - il nome forse più importante attualmente della siderurgia italiana. Ma l'Ilva di Arvedi, se mai ci sarà, avrà un volto molto diverso da quella attuale - e molti meno lavoratori, anche.
"Un piano lacrime e sangue che potrebbe essere accolto dal governo come ultima spiaggia nel caso in cui i pretendenti stranieri si defilassero o avanzassero pretese irricevibili. Il Cavaliere Giovanni Arvedi sarebbe al momento l'unico soggetto italiano che - secondo quanto appreso dal Giornale - avrebbe messo a punto una sorta di salvagente industriale", scrive Sofia Fraschini. "Un progetto" si legge ancora"che non prevede la continuità degli attuali altoforni, ma solo la realizzazione dei due nuovi forni elettrici.
La chiusura dei vecchi altoforni prevederebbe una fase transitoria in cui mettere in cassa integrazione tutti i lavoratori, la realizzazione in 3-5 anni dei nuovi altoforni elettrici, e una ripartenza light con una produzione fino a 4-6 milioni di tonnellate massime di acciaio l'anno, reintegrando parte dei lavoratori (massimo 2-4mila lavoratori).
Per gli altri dipendenti si starebbe studiando, al netto di scivoli e pre-pensionamenti, una redistribuzione tra le varie aziende pubbliche e/o partecipate dallo Stato o su progetti alternativi che riguardano le aree libere a Taranto, quanto a Genova".
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29/11/2025
Ucraina - Crisi di regime, salta anche Yermak
Ieri sera l’ex attore ha dovuto annunciare le dimissioni del suo influente capo di gabinetto (dal 2020) e capo negoziatore, Andrii Yermak, dopo che la residenza di quest’ultimo all’interno del complesso presidenziale era stata perquisita in mattinata dagli investigatori inviati dall’Ufficio Nazionale anti-corruzione (NABU) che Zelensky ha tentato nei mesi scorsi di neutralizzare, costretto poi a fare un passo indietro a causa di forti proteste.
Soprannominato il “cardinale verde” per aver indossato gli abiti di ispirazione militare resi popolari dal suo capo, Yermak, un tempo avvocato e produttore di film di serie B è riuscito a esercitare un’enorme influenza come principale collaboratore di Zelensky ed era considerato da molti come l’uomo più potente del paese, una sorta di “presidente ombra”.
Il leader ucraino ha presentato le dimissioni di Yermak come necessarie per «evitare pettegolezzi e speculazioni» e che la posizione di Kiev al tavolo delle trattative sia ulteriormente indebolita dalle accuse che gravano sulla sua longa manus, il cui nome comunque già nei giorni scorsi non figurava più nella rosa di funzionari ucraini che avrebbero fatto parte della delegazione ufficiali al prossimo round di colloqui con i rappresentanti statunitensi.
Per ora Yermak non avrebbe ricevuto alcun avviso di garanzia ma secondo le indiscrezioni raccolte dai media ucraini sarebbe proprio l’ex capo di gabinetto di Zelensky l’obiettivo principale delle indagini avviate su un grosso caso di corruzione nel settore energetico che coinvolge diversi alti funzionari ucraini, oligarchi alleati del presidente e vari ministri e che tiene banco sulla stampa di Kiev ormai da parecchie settimane.
Secondo gli investigatori il nome in codice utilizzato per indicare Yermak all’interno dell’associazione a delinquere sarebbe “Ali Baba”, a capo di una rete che avrebbe sottratto circa 100 milioni di dollari dalle casse della società energetica nucleare statale Energoatom.
Un gruppo di funzionari avrebbe controllato gli appalti della compagnia pretendendo mazzette tra il 10 e il 15% del valore dei contratti, intimidendo o tagliando fuori i fornitori che rifiutavano di pagare le tangenti.
All’inizio di novembre il procuratore capo anticorruzione ucraino (Sapo), Oleksandr Klymenko, aveva denunciato che «Ali Baba sta tenendo riunioni e assegnando incarichi alle forze dell’ordine per garantire che queste perseguano i detective della Nabu».
La vicenda finita sotto i riflettori della Nabu – ribattezzata “Midas” – ha già provocato nel 2024 le dimissioni di due ministri, Oleh Tatarov e Rostyslav Shurma, entrambi ex stretti collaboratori di Yermak. In seguito anche l’ex ministro della Giustizia German Galushenko e l’ex titolare dell’Energia, Svitlana Grynchuk, sono stati costretti a farsi da parte. Un terzo vice dell’ex capo di gabinetto, Andrii Smyrnov, pur essendo indagato è rimasto invece al suo posto, almeno fino ad ora.
Secondo alcuni media ucraini, nell’associazione a delinquere sarebbe coinvolto anche l’ex ministro della Difesa e attuale Segretario del Consiglio nazionale di sicurezza e Difesa, Rustem Umerov, uno dei capi-delegazione della squadra ucraina che sta trattando con gli Usa e l’Ue.
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Il genocidio dei palestinesi si estende alla Cisgiordania. Omicidi a freddo e arresti di massa
I video circolati da giovedì sui social media mostrano due palestinesi che si arrendono alle forze di occupazione israeliane, alzano le mani e poi sollevavano la camicia per dimostrare di essere disarmati. I soldati colpiscono i palestinesi a calci poi aprono il fuoco a bruciapelo uccidendoli sul posto. Successivamente un bulldozer presente fa crollare una saracinesca sui due cadaveri.
Fonti locali hanno riferito all’agenzia Anadolu che l’omicidio è avvenuto nel quartiere Jabal Abu Dhahir di Jenin durante una incursione militare israeliana nella zona.
Il Ministero della Salute palestinese ha identificato i due uomini come Muntasir Qassem Abdullah, 26 anni, e Youssef Assa’sa, 37 anni, affermando che i loro corpi sono stati trattenuti dalle forze israeliane.
Il governatore di Jenin, Kamal Abu al-Rub, ha detto alla Anadolu che l’esercito israeliano “non ha permesso a nessuno di avvicinarsi alla scena e ha impedito alle ambulanze di evacuare i due giovani. I due giovani alzavano le mani verso l’esercito, ma i soldati hanno aperto il fuoco contro di loro”.
L’esercito israeliano ha dichiarato in un comunicato di aver condotto un’indagine sul campo sulle circostanze dell’incidente, ma il ministro della Sicurezza israeliano Itamar Ben-Gvir ha chiesto la fine della convocazione dei soldati per indagare sulla sparatoria contro i palestinesi.
L’ufficio per i diritti umani dell’ONU venerdì ha dichiarato di essere “sconvolto dall’uccisione sfacciata” dei due palestinesi in “un’apparente esecuzione sommaria”.
“Gli omicidi di palestinesi da parte delle forze di sicurezza israeliane e dei coloni nella Cisgiordania occupata sono aumentati, senza responsabilità, anche nei rari casi in cui vengono annunciate indagini”, ha detto Jeremy Laurence parlando con i giornalisti a Ginevra.
In Cisgiordania continua l’escalation delle forze di occupazione israeliane che venerdì hanno assaltato il campo profughi di al-Far’a nel governatorato di Tubas, nella Cisgiordania occupata settentrionale, ferendo tre palestinesi e detenendone decine nell’ambito di un’operazione militare che è ormai giunta al terzo giorno. Questo segue l’esecuzione di due giovani palestinesi a Jenin giovedì, ripresa dalle telecamere.
L’agenzia di stampa Anadolu ha citato testimoni che hanno affermato che un ampio contingente di truppe israeliane è entrato nel campo dopo essere rimasto intorno ad esso negli ultimi due giorni, ha riportato Al-Jazeera.
Una quindicina di palestinesi abitanti del campo profughi sono stati arrestati dopo che le forze di occupazione hanno fatto irruzione nelle loro case, ha detto il direttore della Società dei Prigionieri Palestinesi a Tubas, Kamal Bani Odeh.
Odeh avrebbe anche dichiarato che l’esercito israeliano ha arrestato 162 palestinesi negli ultimi due giorni e li ha portati nei centri di interrogatorio sul campo, che sono case trasformate in caserme militari.
Ha aggiunto che la maggior parte dei detenuti è stata rilasciata a gruppi mentre alcuni sono stati ricoverati a causa di maltrattamenti e per essere stati tenuti all’aperto per due giorni, il che ha causato problemi di salute a causa dell’esposizione al freddo.
Nidal Odeh, direttore delle ambulanze e dei servizi di emergenza a Tubas, ha dichiarato che le squadre di emergenza hanno curato più di 70 palestinesi feriti da soldati israeliani dall’inizio dell’aggressione nel governatorato di Tubas.
La Mezzaluna Rossa ha riferito che 10 palestinesi sono rimasti feriti questa mattina in un attacco di coloni nell’area di Khalail al-Lawz, a sud di Betlemme in Cisgiordania. Le forze di occupazione israeliane hanno arrestato 5 cittadini, tra cui due bambini e una donna del governatorato di Qalqilya, secondo l’agenzia di stampa palestinese Wafa, aggiungendo che le forze di occupazione hanno assaltato la città di Qalqilya dall’ingresso orientale,
Gaza. Il cessate il fuoco è una farsa
A Gaza nel 50° giorno del cessate il fuoco, due bambini palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano nella città di Bani Suheila, all’interno della Linea Gialla, a est di Khan Younis, mentre gli aerei dell'occupazione israeliani hanno colpito i quartieri di Al-Tuffah e Shujaiya, e l’artiglieria colpiva a est di Jabalya.
I bombardamenti hanno colpito le aree orientali della città di Gaza e la città di Beit Lahiya, le aree orientali del campo di Al-Bureij, la città di Rafah e le città di Al-Qarara e Bani Suhaila, a est della città di Khan Younis.
Gli aerei da guerra israeliani hanno lanciato una serie di incursioni nei quartieri di Shujaiya e Al-Tuffah, a est di Gaza City, mentre le forze di occupazione hanno sparato sulle aree orientali del quartiere Al-Zaytoun, a sud-est della città. Anche navi militari israeliani hanno sparato dal mare verso Gaza City.
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Meno restrizioni su armamenti criminali, la UE ha votato
Da mercoledì, sotto l’etichetta ESG, cioè Environmental, Social, and corporate Governance, potranno essere considerate anche armi incendiarie, munizioni all’uranio impoverito e persino armi nucleari. È bastato trasformare la parola “controverse” presente nella legislazione europea in “proibite”.
La Commissione Europea ha infatti proposto che questa definizione, considerata poco chiara, dovesse essere sostituita, “perché i trattati e le convenzioni internazionali pertinenti di cui gli Stati membri sono parte non fanno riferimento ad armi controverse, ma piuttosto ad armi proibite”.
Tra le seconde ci sono solo quattro tipi di armi: le armi chimiche e quelle biologiche, le mine antiuomo e le bombe a grappolo. Invece di approfittarne per imporre una legislazione più stringente per i paesi UE, come avrebbe senso per chi si professa strenuo difensore dei diritti umani, è stato fatto il contrario.
Con la scusa di introdurre una chiarificazione e una semplificazione, l’esecutivo di Bruxelles ha nei fatti limitato la propria contrarietà ad armamenti che sono già proibiti dai trattati internazionali firmati dai membri UE, mentre ha ampliato il parco di armi che possono ricevere finanziamenti. E per di più, gli ha dato pure la medaglietta di “armi green ed etiche”.
La transizione verde, ma anche il concetto contraddittorio di “investimenti etici” – in regime capitalistico, si intende – sono stati piegati verso una piena economia bellica da anni. Basti pensare che, secondo un’analisi di Bloomberg alla fine della scorsa estate, il numero di fondi azionari ESG esposti verso le filiere delle armi nucleari è aumentato di oltre il 50% dall’intervento russo in Ucraina.
Per questo risulta strumentale l’opposizione, a Strasburgo, dei gruppi dei Socialisti e Democratici e dei Verdi/EFA. Non si parla di un colpo di mano promosso dai Popolari Europei insieme ai fascisti (anche se, alla conta dei voti, è successo proprio questo: 392 contrari, 236 favorevoli e 34 astenuti all’obiezione promossa anche dalla Sinistra Europea), ma bensì di una tendenza alla guerra solidificata da tempo.
Infatti, appena il giorno prima, il 25 novembre, uno schieramento trasversale che ha coinvolto anche i socialdemocratici e i verdi (esclusi quelli spagnoli e italiani, bisogna riconoscerlo) ha approvato lo European Defence Investment Programme (EDIP), il primo programma concreto per un’industria europea della difesa. 457 sono stati i sì, 148 i no e 33 gli astenuti.
L’EDIP stanzia 1,5 miliardi di euro nei prossimi due anni per “rafforzare la base tecnologica e industriale della difesa in Europa e a potenziarne le capacità di difesa”, si legge sul sito italiano del Parlamento Europeo. L’obiettivo è quello di favorire l’integrazione tra le filiere europee e il “buy European”, per una maggiore autonomia rispetto alle forniture statunitensi.
I progetti finanziati dall’EDIP devono coinvolgere almeno quattro membri UE, e il valore dei componenti provenienti da paesi esterni non potrà superare il 35% dell’ammontare complessivo. Inoltre, 300 milioni saranno destinati direttamente al sostegno dell’industria militare ucraina, puntando a inserire anch’essa nelle filiere europee. Ci sono poi altre misure per favorire il sostegno anche a piccole e medie imprese integrate nel complesso militare-industriale.
Restrizioni al diritto al dissenso, riarmo, retoriche guerrafondaie, orgogliosa rivendicazione di un suprematismo riassunto nella formula della contrapposizione tra “giardino” e “giungla”. Ora arriva anche il via libera all’uso di armi devastanti, criminali, dagli effetti terribili per i territori e i civili. Questa è la UE, e l’unica UE possibile, perché è proprio per la competizione e per lo scontro internazionale che è stata ideata.
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Ponte sullo Stretto: viola le normative ambientali e persino le direttive europee
E questo anche perché si tratta di un’analisi approfondita e strutturata intorno a criticità che da tempo sono denunciate. Ma queste criticità vanno innanzitutto in contrapposizione con due direttive europee, nonostante il governo Meloni abbia propagandato il progetto come fondamentale per l’intero continente, soprattutto dal lato della mobilità militare.
Riportiamo direttamente quel che dice il Collegio, il quale ritiene
di assegnare prioritario rilievo alla: violazione della direttiva 92/43/CE del 21 maggio 1992 relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, a causa della carenza di istruttoria e di motivazione della cosiddetta delibera Iropi; violazione dell’articolo 72 della direttiva 2014/24/UE, in considerazione delle modificazioni sostanziali, oggettive e soggettive, intervenute nell’originario rapporto contrattuale; violazione degli articoli 43 e 37 del decreto-legge 201/2011, per la mancata acquisizione del parere dell’Autorità di regolazione dei trasporti in relazione al piano tariffario posto a fondamento del piano economico e finanziario.I nodi sono tre: la conservazione dell’habitat naturale, scavalcata tramite la delibera Iropi riguardante un preminente interesse pubblico, ma che a quante dice la Corte manca di motivazioni; le modifiche contrattuali intervenute in corso d’opere; il mancato parere dell’Art (Autorità di regolazione dei trasporti) sul piano tariffario, che è stato considerato largamente come non rispondente a previsioni di traffico realistiche.
Il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, di cui il titolare Matteo Salvini, così come tutto il governo, aveva parlato di bocciature tutte politiche del Ponte, ora esterna tramite una nota neutra la disposizione a lavorare sui rilievi. Ma è chiaro come il progetto sia nato su un’idea di speculazione e devastazione, e sia stata sviluppata facendo leva sulla logica guerrafondaia.
Parlare oggi di lavoro sui rilievi, dopo tre tornate di chiarimenti e il confronto con Bruxelles, nonché la profondità delle criticità riscontrate dalla Corte, è ridicolo. È chiaro che il governo ha prodotto un progetto infrastrutturale disinteressato alla tutela dell’ambiente e costruito appositamente per diventare un pozzo senza fondo dei conti pubblici a favore dei profitti di pochi.
L’esecutivo ha provato a forzare il quadro legale italiano e comunitario, sperando che nel clima di emergenzialità bellicista creata ad arte questa ennesima grande opera inutile passasse, sospinta dalle pressioni politiche. Non è stato così, e ora, tramite note e non con la voce dei ministri, promettono di aggiustare il tiro.
Ma il governo ha ancora in mano un’arma, quella dell’imposizione della registrazione della delibera del CIPESS. È nei suoi poteri, ma questa sarebbe davvero una forzatura esplicita, tutta politica. Per ora sembra che questa opzione sia stata messa in attesa, anche perché la Corte ha davvero smembrato tutte le fondamenta del provvedimento governativo.
L’esecutivo riorganizzerà l’assalto del Ponte, ma bisogna ricordare che esso è stato inserito anche tra i corridoi strategici della rete europea TEN-T, la quale è stata oggetto, di nuovo, di attenzionemento con fini militari. Palermo sarebbe il nodo finale del Corridoio Scandinavo-Mediterraneo, che potrebbe intersecarsi anche con il Piano Mattei, e con il suo ruolo nella ricerca in Africa di nuove fonti energetiche per l’autonomia europea.
Insomma, se le decisioni le prende Bruxelles ormai, come è evidente che sia, qualsiasi forzatura governativa sarà legata a quanto Palazzo Chigi sarà in grado di vendere a Pallazo Berlaymont l’importanza strategica del Ponte. Dando finalmente ai tanti speculatori in attesa la loro gallina dalle uova d’oro.
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La pace fa più paura della guerra?
Si vede anche ad occhio nudo che la prospettivo di un “riarmo da paura” è ormai entrata nelle teste della classe dirigente continentale come l’unica possibilità per invertire il declino industriale ed economico. Con tutte le conseguenze del caso.
La guerra in Ucraina ha chiarito anche agli scemi che la Russia non è un paese economicamente in crisi, né tanto meno militarmente debole (ricordate quanta propaganda è stata fatta sul “hanno finito i missili e le munizioni”, “rubano i chip delle lavatrici”, ecc.?), che le tecniche della guerra sono ora parecchio cambiate, specie se si combatte “simmetricamente” (grosso modo: con armamenti di livello simile), e che la quantità ad un costo minore è più utile di una qualità costosissima ma con pochi pezzi da utilizzare.
Subito dopo, la svolta politica statunitense ha messo in campo una diversa scelta strategica della superpotenza (più attenzione all’America Latina e al Pacifico, molta meno all’Europa), che toglie quella “garanzia di protezione” fornita per 80 anni.
Logica vorrebbe che si prendesse atto di due debolezze non facilmente colmabili in tempi brevi – eserciti continentali non strutturati né dimensionati per le nuove modalità belliche e “disattenzione” dell’imperatore-alleato – e si avviasse quindi una fase di recupero dei rapporti diplomatici ed economici con i tre quarti del mondo che avvertono ormai con chiarezza il declino del “padrone del mondo” (del resto, se la nuova ciurma di Washington ha in programma di “fare l’America di nuovo grande” si vede che non si sentono più così sicuri di esserlo). Magari, hai visto mai, si potrebbe riuscire ad invertire anche il proprio declino...
E invece le parole d’ordine sono:
a) no a trattative di pace con la Russia (“perché Putin non vuole la pace”, così evitiamo anche di pensarci), a meno che non si arrenda;
b) riarmiamo i paesi europei con un piano che lascia ad ognuno la possibilità di scegliere cosa fare;
c) rilanciamo la leva di massa, per riportare all’uso delle armi una certa quantità di uomini e donne pronti a diventare carne da cannone.
Germania e Francia hanno aperto le danze, l’Italia si accoda con la proposta di Crosetto che già nella formulazione dimostra quanti problemi ci siano: “introdurre la leva ma su base volontaria”.
Abituati ormai a giocare con le parole davanti ai microfoni, gli esponenti di questa classe dirigente sembrano non sapere più di cosa stanno parlando. Se si introduce o riattiva un servizio di leva – per definizione – questo è obbligatorio per tutti (per i maschi, almeno), perché tutti siamo uguali davanti alla legge e alla “difesa della patria” (passateci l’espressione, è solo per farci capire...). Se invece si punta a gonfiare l’arruolamento volontario allora si ha in testa una esercito professionale più grande, con ovvi problemi di costi e politici, ma anche di non corrispondenza allo scopo dichiarato (avere molti più soldati disponibili, magari “di riserva”).
I militari di leva di solito non vengono pagati, se non con cifre simboliche; i professionisti hanno stipendi consistenti, anche perché nella guerra contemporanea servono competenze tecnologiche che consentono di trovare buoni stipendi senza il rischio di lasciarci la pelle.
Dunque Crosetto – a nome del governo – usa una formula auto-contraddittoria e costituzionalmente a rischio (anche se Mattarella è sempre di manica larga) per dire che vorrebbe, ma senza esagerare, aumentare gli effettivi dell’esercito. Poi, una volta stabilito il precedente, sarà tutto più semplice...
Difficile dimenticare che “il nemico pronto ad invaderci” non c’è. La Russia, infatti, anche se ne avesse l’intenzione – cosa di cui è sano dubitare – appare piuttosto lenta nell’avanzare verso Ovest: in quattro anni non si è presa neanche l’intero Donbass (poche decine di chilometri di profondità, e con una popolazione in maggioranza russa, non “nemica”). Per arrivare all’Italia ci dovrebbe mettere qualche centinaio di anni...
Si dice: ma Mosca ha missili intercontinentali e ipersonici... Vero. Ma non ha le truppe – né la popolazione – sufficienti per occupare un territorio così vasto come quello che va dai suoi confini ai nostri. Dunque che senso avrebbe “distruggere tutto” per poi non farci niente? Mica puoi fare la “riviera dei monti Tatra” o dei Balcani, stile la “Gazaland” sognata da Trump...
In ogni caso: diecimila coscritti in più o in meno non cambiano l’equazione complessiva.
Cosa diversa se invece è l’Unione Europea a voler mettere gli stivali sul terreno in Ucraina. Allora sì che quei dieci-ventimila soldatini inesperti in più avrebbero una qualche utilità, andando a coprire i ruoli logistico-amministrativi-manutentivi lasciati scoperti dai professionisti che verrebbero mandati “al fronte”.
Ma anche in questo caso, una volta portata la “minaccia esistenziale” a Mosca lambendo i suoi confini, non avremmo difesa possibile contro la sicura risposta missilistica russa. Neanche costruendo a tempo di record l’onirico “Michelangelo Dome” che Cingolani (a.d. di Leonardo, ex ministro con Conte e Draghi) vorrebbe vedersi finanziare per “proteggere l’Italia” sulla falsariga dell’Iron Dome israeliano.
Basterà ricordare che anche quello è risultato inefficace a contenere le risposte missilistiche iraniane qualche mese fa, perché portate con una strategia “a saturazione” (molti droni e missili a basso costo, in numero superiore a quelli anti-missile, costosissimi). E Israele, col suo territorio ridotto (meno della Lombardia), è ben più semplice da “coprire” rispetto a un grande Stivale piazzato in mezzo al mare...
Dunque, di cosa stiamo parlando? Non di “difesa della patria”, ma di dirottare risorse su progetti di riarmo che tengono mirabilmente insieme inefficacia militare, idiozia strategica e “industria della paura”. Qualcosa di estremamente pericoloso. Per noi che qui ci viviamo, non per i russi...
Pensandoci bene, infatti, il riarmo europeo – per diventare “competitivo” rispetto a Russia, Cina e Stati Uniti – avrebbe bisogno di risorse che non ci sono neanche ricorrendo al “debito comune”, tempi di sviluppo e produzione decisamente lunghi, e della speranza che nel frattempo la “concorrenza” si fermi. Specie quella russa. Cosa piuttosto difficile, se si continua a fare la faccia feroce ogni volta che si parla – si parla soltanto – di metter fine alla guerra in corso.
Per continuare a sostenere credibilmente Kiev, infatti, l’ipotesi più realistica è quella di comprare armi Usa per regalarle poi all’Ucraina. Ma in tal modo si spende molto del “fondo” europeo eventualmente stanziato senza produrre granché di “autonomo”. Al massimo si rimpolpano gli arsenali semi-svuotati dalle consegne a Kiev e si “gonfiano” i reparti militari, ma secondo procedure affidare ai singoli paesi.
E qual è l’ipotesi di utilizzo più probabile di arsenali non-strategici in dotazione ad eserciti nazionali? Lo abbiamo detto più volte guardando all’intenzione dichiarata da Friedrich Merz, cancelliere tedesco che vuol ri-fare della Wermacht “l’esercito più potente d’Europa”. Se non ti puoi permettere di far guerra a quelli più forti – Mosca, ça và sans dire – ti resta solo la possibilità di sfogarti con quelli più deboli. In casa UE, insomma. Specie se gli arsenali più potenti saranno pronti quando i neonazisti dell’AfD e gli omologhi in altri paesi diventeranno maggioranza non più solo relativa.
Stiamo marciando in questa direzione per assoluta dabbenaggine dei sedicenti “liberali”. Una riprova? Abbiamo sentito diversi esponenti “democratici” e persino giornalisti mainstream – un esempio per tutti, Alessandro De Angelis, de La Stampa, ex Huffington Post – criticare il governo Meloni per lo “scarso entusiasmo per il riarmo”.
Kaja Kallas può stare tranquilla, sulla sua poltrona. C’è ancora gente peggio di lei, in giro...
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L’Italia della paura
Eppure, invece di affrontare le cause strutturali dell’insicurezza – la precarietà del lavoro, le disuguaglianze crescenti, la desertificazione dei servizi pubblici, la povertà abitativa – la politica ha scelto per anni la scorciatoia più redditizia: trasformare la paura in consenso.
Il centrodestra ha fatto di questo meccanismo un’arte, costruendo su di esso un’egemonia culturale che oggi appare quasi inscalfibile. Gli basta sollevare il tema della sicurezza, agganciarsi a un fatto di cronaca qualsiasi, amplificarlo fino alla distorsione, e usarlo per dipingere un Paese invivibile, assediato da nemici interni ed esterni.
È un copione che conosciamo bene: paura-audience-consenso. Una catena che si autoalimenta e che non richiede soluzioni, solo narrazioni. Non importa che i reati siano in calo: ciò che conta è la percezione, che può essere manipolata con estrema facilità. La destra rende il Paese più impaurito, e un Paese impaurito vota per chi promette ordine, disciplina, repressione. Una macchina perfetta, che produce insicurezza per poi venderne la cura.
Il centrosinistra, di fronte a questa strategia, non solo è apparso incapace di proporre un discorso alternativo, ma spesso si è consegnato alla logica dell’avversario. Diviso, litigioso, ripiegato su ambiguità e tatticismi, ha rinunciato a imporre un tema che parli ai bisogni materiali del Paese: lavoro, casa, cure, istruzione, diritti. Ha inseguito la destra sul terreno della sicurezza, accettandone le categorie, adottandone persino la lingua. Così facendo, ha contribuito a legittimare un immaginario sicuritario che è esattamente ciò che blocca ogni possibilità di cambiamento. Il risultato? L’Italia rimane imbrigliata in una doppia assenza: assenza di welfare e assenza di alternativa.
Ma nel frattempo, qualcosa di più profondo è cambiato. Siamo di fronte a una mutazione antropologico-cognitiva che ha riscritto le fondamenta del discorso pubblico. L’uguaglianza, per anni pilastro della cultura politica italiana, è stata sostituita dalla legalità. La giustizia sociale è stata rimpiazzata dal giustizialismo. Il conflitto sui diritti e sulle risorse è stato cancellato e sostituito dal conflitto identitario, dal linciaggio morale, dalla caccia al colpevole. La cronaca nera è diventata il principale prisma attraverso cui osserviamo noi stessi. Tutti si percepiscono “giusti”, e i “colpevoli” sono sempre gli altri: i poveri, i migranti, i giovani, i marginali, chi non può difendersi.
La logica del capro espiatorio domina la scena. Si invoca la gogna, il processo mediatico, la punizione esemplare. È un rito collettivo che non risolve, non spiega, non approfondisce. Serve solo a canalizzare la rabbia di un Paese sempre più impoverito contro bersagli facili, distogliendo lo sguardo da chi quella rabbia la produce. Basta salire su un treno, ascoltare le conversazioni, leggere i commenti sui social: ovunque si respira risentimento, sospetto, incattivimento. Non è un tratto caratteriale: è il risultato politico di un impoverimento materiale e simbolico che dura da decenni.
Su questo terreno il governo Meloni ha costruito la propria identità. La risposta è sempre la stessa: più forze dell’ordine, più controlli, più repressione. Ogni fragilità sociale diventa devianza, ogni disagio diventa minaccia. La sicurezza non è una politica, ma un dispositivo ideologico: serve a giustificare misure eccezionali, a spostare il discorso pubblico, a disciplinare i corpi e le menti. Perfino la scuola, luogo per eccellenza del pensiero critico, viene inglobata nel paradigma sicuritario: presidi di polizia, lezioni sul rispetto dell’autorità, punizioni esemplari. Ma una scuola che educa alla paura e all’obbedienza non è più scuola: è il preludio culturale dell’autoritarismo.
Eppure i numeri raccontano un’altra storia. L’Italia è oggi il Paese europeo che, in proporzione, spende di più per la sicurezza pubblica e privata. Abbiamo un apparato securitario ipertrofico, che cresce mentre il welfare arretra. E tuttavia nessuno – né governo né opposizione – ha mai avviato una valutazione seria dell’efficacia degli strumenti utilizzati. Ad esempio per le politiche migratorie: l’80% dei fondi destinati ai migranti viene speso in misure di repressione, solo il 20% in integrazione, formazione, sostegno. È un modello fallimentare che produce marginalità anziché ridurla. Ma funziona benissimo come propaganda.
Intanto, la spesa sociale italiana è sotto la media europea di due punti e mezzo di Pil. Il sottofinanziamento è evidente ovunque: politiche abitative inesistenti, sostegno al reddito insufficiente, servizi per i non autosufficienti drammaticamente carenti. È qui che nasce la vera insicurezza: nella solitudine dei lavoratori poveri, delle famiglie senza casa, degli anziani abbandonati, dei giovani senza prospettive.
Eppure nessuno ha il coraggio di dirlo. Perché parlare di welfare, di diritti sociali, di redistribuzione significa spostare l’attenzione dal nemico inventato al nemico reale: un modello economico che genera precarietà e un paradigma politico che la trasforma in paura. Invertire questo ordine del discorso è un’urgenza democratica. Significa affermare che la sicurezza non è il contrario della libertà, ma della disuguaglianza.
Significa dire che l’Italia non è più povera perché “invasa”, ma perché sfruttata. Che non è più insicura perché ci sono “troppi giovani fuori controllo”, ma perché non ha case, scuole, sanità, salari adeguati. Che la repressione non è una politica, ma una rinuncia alla politica.
Ricostruire un immaginario alternativo significa rimettere al centro ciò che tiene insieme una società: la cura, il lavoro, la dignità, i servizi pubblici, la solidarietà. Significa dire chiaramente che la sicurezza reale – quella che cambia la vita delle persone – nasce da un welfare forte, non da uno Stato armato. Nasce da case accessibili, da salari dignitosi, da scuole libere, da quartieri vivi.
L’Italia non è condannata all’incattivimento. Ma per invertire la rotta serve un atto di coraggio politico: rompere la liturgia della paura, smontare la retorica tossica della legalità come surrogato dell’uguaglianza, rifiutare l’idea che il controllo sia la risposta universale ai problemi del Paese. Serve ricostruire un movimento culturale e politico capace di dire che un’altra Italia non solo è possibile, ma è necessaria.
Una politica che protegge invece di punire, che crea orizzonti anziché fantasmi, che non alimenta l’emergenza ma rivendica il futuro: è da qui che bisogna ripartire. Il resto è solo gestione del declino.
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28/11/2025
Turchia - Parlamentari da Ocalan, ma si gioca sporco sul processo di pace
A darne l’annuncio è stato un comunicato del Parlamento, che ha definito l’incontro positivo. Il Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (DEM), fino ad oggi impegnato nella mediazione con Ocalan, ha definito la decisione della commissione parlamentare “storica” poiché per la prima volta Ocalan riceve la legittimazione istituzionale ufficiale come interlocutore dello Stato.
Durante la visita, secondo quanto è trapelato, sarebbero stati affrontati i temi più importanti: il destino dei militanti del PKK che disarmano e, soprattutto, la situazione delle Forze Democratiche Siriane (FDS) e la loro integrazione nelle strutture dello stato centrale di Damasco.
Su quest’ultima questione, per non far deragliare l’intero processo di pace, è necessario mediare fra le esigenze delle SDF di mantenere una loro struttura al cospetto del nuovo regime qaedista e le preoccupazioni turche circa i pericoli per la propria integrità territoriale derivati dalla presenza di un’area autonoma curda, indipendente di fatto e supportata da potenze imperialiste, ai propri confini con la Siria.
Tuttavia, non si sa se per motivi di riservatezza (il verbale della riunione rimarrà segretato per 10 anni) o perché in realtà non si sono fatti sostanziali passi avanti, non è stato stato dato grande risalto ai risultati di questi colloqui, nemmeno dalla parte curda, che, quando si tratta di pronunciamenti di Ocalan, solitamente mette molta enfasi.
Al contrario, hanno fatto più rumore le assenze, in particolare nella composizione della delegazione. C’erano, infatti, soltanto un esponente del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), un esponente dei nazionalisti (MHP) ed un esponente del DEM, ovvero i due partiti di governo e il partito incaricato di mediare. Si sono volontariamente chiamati fuori tutti gli altri partiti di opposizione, anche quelli che avevano accettato di entrare nella commissione parlamentare.
Particolarmente clamoroso è stato il passo indietro effettuato all’ultimo minuto da parte del Partito Popolare Repubblicano (CHP), principale partito di opposizione, nonostante quest’ultimo negli ultimi mesi si sia sempre dichiarato a favore del processo di pace e nonostante il potenziale autolesionistico di questa decisione. L’ondata di vittorie elettorali nelle elezioni locali degli ultimi anni, infatti, è avvenuta anche grazie al voto curdo.
La motivazione ufficiale è la mancanza di trasparenza nei vari passaggi politici di questo processo di pace. In realtà, probabilmente, la decisione è motivata in piccola parte dal riemergere, all’interno del partito, di pulsioni ideologiche anticurde e, in gran parte, dalla volontà di non allinearsi ad un processo di pacificazione nazionale voluto dal governo, proprio mentre i propri dirigenti e sindaci vengono arrestati e messi sotto processo uno dopo l’altro.
In tal senso, nei giorni scorsi è stato reso pubblico l’atto d’accusa nei confronti di Imamoglu, sindaco eletto di Istanbul, in carcere dal marzo scorso: rischia una condanna fino a 2.352 anni di reclusione perché accusato di essere il capo di un’organizzazione criminale, avente come scopo quello di fargli vincere in maniera fraudolenta il congresso del CHP e la candidatura alla Presidenza della Repubblica per il 2028. Contestualmente è stato richiesto l’avvio delle procedure legali per sciogliere il CHP. Inoltre, è in piedi anche l’accusa di spionaggio per conto della Gran Bretagna.
Autore delle indagini è il famigerato procuratore Hakin Gurlek, che in passato si era occupato di alcuni processi nei confronti della sinistra filocurda per poi diventare Vice Ministro della Giustizia e tornare, infine, in Magistratura, nel ruolo di procuratore capo di Istanbul, subito dopo la rielezione a sindaco di Imamoglu. Un vero e proprio sicario governativo, insomma.
L’autoesclusione del CHP dal processo di pace rappresenta una vittoria per Erdogan nella sua tattica di dividere le opposizioni e cercare di attirare verso l’area governativa la sinistra filocurda o, comunque, il consenso curdo. Eppure, sono passati non più di 9 anni dai numerosi coprifuoco imposti in vaste aree del sud-est nell’ambito dell’ultima aspra fase del conflitto con il PKK.
Il Partito DEM, da parte sua, critica la decisione del CHP in quanto il processo di pace nasce per risolvere una questione, quella curda, che è storica e va al di là della lotta attuale fra governo e opposizioni. Tuttavia, ora si trova nella situazione scomoda di essere associato a una “manovra di palazzo” da parte della compagine governativa ed è esposto all’accusa di prestarsi ai suoi disegni neo-ottomani.
La vera mancanza di cui soffre il partito filocurdo è l’assenza di un vero dibattito pubblico e di una mobilitazione popolare a sostegno del processo di pace, come c’erano nel precedente tentativo del 2013-2015; in quest’occasione, tutto sta avvenendo esclusivamente tramite trattative fra vertici e gruppi politici.
Chi sta mobilitando in massa la propria base, in Turchia e in tutta Europa (dove gode dell’appoggio della “sinistra liberale”), è proprio il CHP, il quale, dall’arresto di Imamoglu, organizza periodiche manifestazioni contro la detenzione di sindaci e dirigenti di opposizione; rispetto a tali mobilitazioni il DEM, essendo coinvolto direttamente nella mediazione con Ocalan, mantiene un atteggiamento di adesione meramente formale, pur avendo a sua volta ancora moltissimi sindaci e dirigenti in carcere, come risultato della stagione repressiva dell’ultimo decennio.
Sulla testa del più popolare di questi prigionieri, ovvero Demirtas, si sta concentrando un gioco politico sporco, volto ad attribuirgli false richieste di grazia al Presidente e ad accreditare divaricazioni fra lui e il DEM o Ocalan. Il tutto mirante a screditarlo presso la sua base e ad ostacolarne la liberazione, che, per costituzione, sarebbe dovuta essere già avvenuta dopo la pronuncia definitiva della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) a suo favore.
Evidentemente, il profilo politico forte e autonomo di Demirtas, unico leader curdo ad avere consensi anche i fra i Turchi, è visto come un ostacolo nella cooptazione del consenso dei DEM verso l’area governativa.
Pertanto, dal carcere di Edirne, è dovuto così intervenire: “Sono entrato qui con onore e a testa alta. Ne uscirò con onore, o rimarrò qui fino all’ultimo giorno della mia vita. Non c’è alternativa per me... Qualsiasi dichiarazione, commento o pensiero che non ho condiviso direttamente non mi vincola”.
E sulle presunte differenze fra lui e Ocalan: “Non ho alcuna competizione, divergenza o scontro con Abdullah Öcalan. La visione, il ruolo e la responsabilità storica di Öcalan sono molto importanti, e solo lui può farsene carico... Sono entrato in politica nel Partito della Società Democratica (DTP), e il Partito DEM, l’attuale rappresentante della nostra tradizione politica, è il mio unico partito. Anche se un giorno dovessi entrare in politica, la mia casa è il Partito DEM. Qualsiasi ipotesi che io possa fondare un altro partito o passare a un altro è pura speculazione”.
Questo tentativo di dividere il movimento curdo (e tutta la sinistra) potrebbe avere il suo punto di caduta nel caso in cui, come sembra, dovesse essere emessa un’amnistia parziale che copra solo alcuni militanti del PKK, escludendo gli altri prigionieri politici (per non dover liberare quelli con maggior consenso popolare). Nel mentre, come detto, si attende ancora l’esecuzione delle sentenze definitive della CEDU.
In definitiva, si stanno palesando una serie di nodi non sciolti e di sfacciati tentativi di strumentalizzazione politica che stanno minando la credibilità del processo di pace. Gli atti simbolici non possono bastare.
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USA - “Crisi Incrociate: Sconfitta Democratica, Epstein Files e il GOP sotto pressione”
Mentre le istituzioni riprendono a funzionare, un’altra vicenda torna a incombere su Washington: i file del caso Epstein, ormai vicinissimi alla divulgazione completa. Una prospettiva che per mesi il Presidente della Camera Mike Johnson aveva cercato di evitare, anche a costo di mantenere il governo chiuso, temendo l’impatto potenzialmente devastante per il GOP. Tra scelte politiche difficili, tensioni interne ai partiti e la possibilità di rivelazioni esplosive, Living in America guida gli ascoltatori in un racconto lucido e diretto, svelando ciò che sta accadendo dietro le quinte della crisi istituzionale americana.
Cosa sta succedendo negli Stati Uniti? È vero che agenti federali incappucciati girano per le strade, sequestrando e rinchiudendo donne e uomini, solo perchè immigrati? Perchè il presidente Trump sta inviando la Guardia Nazionale a presidiare le città? Charlie Kirk cosa diceva, veramente? E chi lo ha ucciso? Perchè per Trump il problema è “l’estrema sinistra violenta”? Ma negli Stati Uniti, c’è un’ “estrema sinistra”? È vero, come dice Steve Bannon, che “il nazionalismo cristiano non è mai stato così forte”? E che fine hanno fatto i Democratici? È vero che Trump punta al terzo mandato? Gli Usa stanno lentamente diventando un’autarchia? Ed è vero che odia e disprezza l’Europa, ed ha voluto punirla con i dazi?
Da questa parte dell’Oceano Atlantico, forse mai come in questo momento, le idee sugli Stati Uniti sono confuse, le informazioni relativamente poche, le strumentalizzazioni invece tantissime. La Lega e Fratelli d’Italia fanno a gara a chi è più Trumpiano dell’altro, cercando di accreditarsi come sponda europea dell’Alt Right e del Maga, perdendo di vista che – per Trump – l’Europa è più una scocciatura, se non un avversario, che altro. Ma, tutto sommato, di quel che avviene oggi in America (che poi gli Stati Uniti, dell’America, sono solo un pezzo, ma tant’è) non ne sappiamo tantissimo.
E allora? Allora ce lo facciamo raccontare e – se possibile – spiegare da chi negli States ci vive e lavora da vent’anni: Silvia Minguzzi, italiana expat negli Stati Uniti, exhibition coordinator e Graphic Designer presso la CSU Libraries (Biblioteca Universitaria di Colorado State University).
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Cosa sta succedendo in Venezuela? Intervista a Juan Carlos Lenzo
Dopo gli incontri istituzionali, ci siamo immersi nella realtà delle “comunas”, l’autogoverno popolare bolivariano. Per capire come dal basso si porta avanti la lotta contro l’imperialismo, abbiamo parlato con Juan Carlos Lenzo, dirigente dell’Unión Comunera e militante dei movimenti popolari e internazionalisti sin dai primi anni 2000.
Gli Stati Uniti stanno aumentando la tensione con il dispiegamento di portaerei, navi da guerra e minacciano un attacco militare. Eppure, la realtà che stiamo vedendo qui a Caracas è di grande tranquillità. Come sta vivendo il popolo venezuelano questo nuovo attacco da parte dello stato imperialista statunitense?
Il clima che prevale in Venezuela, nonostante la minaccia, è di calma e tranquillità. La gente continua la propria vita quotidiana. Anzi, a breve, il 23 novembre, ci sarà una consultazione nazionale popolare in cui le organizzazioni comunali voteranno il progetto che considerano prioritario per la loro comunità. In termini generali, quindi, il clima è tranquillo e di accettazione. La preoccupazione principale rimane la questione economica: l’inflazione, infatti, si è accentuata nell’ultimo mese, impattando sul potere d’acquisto e sulla qualità della vita. Ma nel complesso, la situazione è serena.
Purtroppo, sappiamo che gli Stati Uniti hanno già attaccato il Venezuela in passato, in vari tentativi di destabilizzare il Paese e insediare un leader scelto da loro. In che modo le “comunas” e l’organizzazione popolare aiutano a combattere l’imperialismo?
La rivoluzione bolivariana, fin dal suo inizio, è stata oggetto di aggressioni da parte dell’imperialismo nordamericano, ma ha sempre saputo contrastarle e difendersi. Colpi di stato, tentati omicidi, guerra economica, pressione diplomatica e, più recentemente, sanzioni: le oltre 900 sanzioni imposte al Venezuela hanno avuto conseguenze gravissime sulla vita economica e sociale della nazione.
Tutte queste difficoltà ci hanno insegnato una strategia fondamentale, basata su due pilastri: l’organizzazione popolare e l’unione civico-militare. Il popolo ha abbracciato il principio della democrazia partecipativa e dal basso. Già nel 2006 si iniziarono a costruire le organizzazioni comunali, e nel 2009 nacquero le prime comuna. Questo ha garantito al popolo un alto livello di partecipazione politica, mobilitazione, organizzazione e capacità di risolvere i propri problemi, ma anche di difendere il proprio territorio ed esercitare la sovranità.
Un popolo che si mobilita, organizzato e cosciente è un’arma potentissima contro qualsiasi aggressione, esterna o interna. Questo permette di contenere varie forme di attacco: sia sul piano della guerra cognitiva, perché il popolo esercita la propria coscienza e comprende a fondo il senso della rivoluzione, sia sul piano di una guerra territoriale, perché le comuna esercitano la sovranità sul proprio territorio. Grazie a esse, ad esempio, si sono evitati fenomeni di aggressione e violenza, imparando a respingere azioni contro la sovranità nazionale.
Anche sul piano economico-produttivo, le comuna sono un muscolo che permette di garantire scorte alimentari per qualsiasi evenienza. Già durante la crisi economica del 2017-19, furono i produttori agricoli (campesinos) delle comuna a distribuire cibo, evitando che il popolo venezuelano sprofondasse in una situazione di fame nera. Nonostante il sabotaggio della borghesia, si riuscì a distribuire alimenti alla popolazione, contenendo così la crisi.
Tutte le organizzazioni comunali hanno il dovere storico di mantenere viva la fiamma socialista e insistere nel cammino della rivoluzione. Come diceva Chávez, è nelle comuna che si costruisce il socialismo. Nelle nostre mani risiede la possibilità concreta e reale di continuare a forgiare, attraverso i territori comunali, l’opzione socialista come unica via per trascendere la logica nefasta del capitalismo.
E invece, nel continente, tra il premio Nobel a Maria Corina Machado e le destre che attaccano qualsiasi alternativa anche minimamente progressista, che aria tira?
La situazione nel continente è complicata. Da un lato, abbiamo il governo di estrema destra di Milei in Argentina e Bukele in El Salvador; dall’altro, emergono alternative progressiste come Sheinbaum in Messico, Petro in Colombia e Lula in Brasile. Ogni territorio vive una propria situazione complessa: si pensi alle proteste della Generazione Z in Messico o alle tensioni verso il governo di Petro, con l’avanzata della destra colombiana, che lasciano poco margine di manovra.
Qualcosa si muove anche in Cile, dove Jara ha vinto il primo turno delle presidenziali, ma il candidato Kast ha alte probabilità di vincere il ballottaggio, rappresentando un altro elemento di estrema destra nel continente. In questo scenario, la posizione di Petro in Colombia e di Lula in Brasile, che rifiutano qualsiasi intervento nordamericano in Venezuela, è determinante.
Aiuta a riequilibrare le relazioni geopolitiche, ma non possiamo negare che la situazione sia complicata e che il Venezuela debba far fronte a questo panorama, nel solco dell’aggressione che si avvicina. Anche l’assegnazione del premio Nobel a Maria Corina Machado rientra nell’intenzione dei poteri internazionali di promuovere una figura di estrema destra nel continente, conferendole legittimità e riconoscimento. Ritengo che questa sia una congiura, in sintonia con la tendenza dell’Impero a riprendere il controllo del suo “cortile” latinoamericano, anche in risposta alla crescente influenza di Cina e Russia nella regione.
A questo punto non rimane che una domanda: che cosa possiamo fare noi, come compagne e compagni internazionalisti, per sostenere la rivoluzione bolivariana?
Cosa possono fare i compagni al di fuori del Venezuela? Penso che, come esercizio di solidarietà fondamentale, sia cruciale informare e comunicare ciò che sta realmente accadendo qui. Le grandi corporazioni mediatiche hanno diffuso una narrativa fatalista sulla rivoluzione bolivariana. Il compito primario dei compagni e delle compagne, dei movimenti e del popolo organizzato nelle altre nazioni, è quindi quello di raccontare la realtà dei fatti, ciò che succede veramente e come viviamo qui, con le sue luci e le sue ombre, i suoi punti di forza e le sue debolezze, i suoi successi e le sue contraddizioni. Credo, inoltre, che sia ugualmente importante organizzarsi per venire a conoscere di persona come vive e cosa fa il popolo venezuelano: come si organizza per la resistenza e come, nel mezzo di questo processo, stia costruendo una società nuova.
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