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31/12/2012

Una pallottola contro Occupy. Il maccartismo al tempo delle corporation

Migliaia di persone accampate davanti alla sede di Wall Street un anno fa non sapevano di essere considerate dall’intelligence americana alla stregua di una minaccia terroristica interna. Lo apprendono oggi da un documento dell’Fbi appena reso pubblico grazie al Freedom of Information Act, una legge del 1966 per l’accesso totale o parziale a documenti anche classificati da parte di cittadini o associazioni.

Fine 2011. Da giorni migliaia di persone a New York siedono accampate davanti alla sede della borsa più importante del mondo, a Wall Street. In giro per gli Stati uniti il movimento Occupy si allarga, con una mobilitazione soprattutto giovanile. L’FBI guarda con attenzione: annota ogni movimento, contatta la polizia locale, si coordina con la sicurezza dei campus. Non solo. Creano una sorta di organismo ombra insieme al “settore privato”, ovvero le corporation. Occupy viene apertamente definito come una minaccia terroristica interna, tanto da far scattare l’intesse dell’Homeland security.
Da qualche ora una piccola parte di questa attività non propriamente democratica dell’Fbi appare nero su bianco in un documento ottenuto grazie al freedom of Information Act, il Foia, dall’associazione The Partnership for Justice Fund: sono 112 pagine tra rapporti, annotazioni, email e analisi. Gran parte del documento è coperto da omissis, ma è possibile ricostruire con sicurezza la stretta sorveglianza che ha riguardato il movimento Occupy Wall Street.
L’attenzione dell’Fbi parte un mese prima dell’azione di Zuccotti park, la zona di fronte a Wall Street dove per diversi giorni gli attivisti si sono accampati. Il 19 agosto del 2011 gli agenti dell’Fbi si incontrano con i funzionari della borsa di New York per discutere come gestire la protesta. Nei giorni successivi viene preparato un rapporto dalla Domestic Security Alliance Council, DSAC, che parla delle attività di occupy come di “terrorism”. Questa agenzia – creata nel dicembre del 2005 su impulso dei responsabili della sicurezza di 100 aziende tra le quali la Coca Cola, Citigroup e la Federal Express – riunisce le corporation e le agenzie di sicurezza Usa, tra le quali l’Fbi, con lo scopo di creare un canale di comunicazione e scambio di informazioni contro il terrorismo. Occupy è senza dubbio al centro della loro attenzione. La preoccupazione di una nuova onda di contestazione globale della prassi economica liberista – soprattutto in un momento di piena crisi – aumenta giorno dopo giorno. Un ritorno del Maccartismo degli anni ’50.
In molti stati Usa tra ottobre e novembre inizia la raccolta di informazioni sul movimento, con un coinvolgimento diretto dei centri d’intelligence della polizia federale Usa. Tra i rapporti di questo periodo appare anche una mezza pagina particolarmente inquietante (consultabile a pagina 61 del documento divulgato). “Un (omissis) di ottobre ha pianificato un attacco con un fucile di precisione contro i manifestanti a Houston, in Texas”, si legge nella prima riga. Un episodio mai rivelato prima, su cui ci sono pochissimi dettagli e molti omissis. L’obiettivo – secondo il report dell’Fbi – era una non meglio identificata leadership del movimento. Una sorta di strategia della tensione? Oppure uno dei tanti episodi di violenza folle, sullo stile dei recenti attacchi? Difficile capirlo. Certo le 112 pagine divulgate sono senza dubbio solo la punta dell’iceberg di un momento storico ancora da raccontare. Con una domanda finale: e in Italia? Quali sono state le strategie di sorveglianza dei movimenti sociali in questo mesi di governo Monti? Anche da noi esiste un canale di comunicazione tra corporation e polizia?

Per approfondire: leggi e scarica il rapporto Fbi

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L’altro inutile Tav del Sud

È una questione di giustizia territoriale: se si buttano i soldi pubblici dalla finestra a nord, con le linea ferroviaria Torino-Lione (in Francia gli studiosi indipendenti non ridono meno di quelli italiani alla vista dei dati di quella linea), sembra giusto sprecarli anche al sud, con la nuova linea Napoli-Bari. Questo mega-progetto è caro al ministro Fabrizio Barca, certo attento ad attirare denari pubblici al mezzogiorno, ma, sembra, meno attento a verificare l’utilità delle opere a cui questi soldi sono dedicati. Lavoce.info pubblicò un anno fa una critica allo studio presentato da Fs per giustificare questo progetto. Fs non replicò mai. E perché mai avrebbe dovuto farlo, essendo Fs il soggetto economico destinato a ricevere quei soldi, e rischiando in più di evidenziare l’inconsistenza dell’analisi da lei stessa presentata, in palese e clamoroso conflitto di interessi?  

Per i dettagli tecnici, si rimanda ovviamente a Lavoce.info. Ci si limita a riassumere qui gli aspetti più clamorosi e intuitivi di quella critica. Lo studio Fs riguarda la fattibilità socioeconomica dell’opera (“analisi costi-benefici per la collettività”). Non sono stati presi in esame gli aspetti finanziari dell’opera (soldi che entrano ed escono per lo Stato), dato che si assume che non vi siano ritorni finanziari di sorta, e che dunque lo Stato paghi tutto, fino all’ultimo euro.  

Dunque, il raddoppio ad Alta Capacità/Alta Velocità della linea Napoli-Bari, lunga 162,3 chilometri, aveva un costo previsto al momento dello studio di 4,052 miliardi di euro. Lo studio è stato fatto da Rfi (sezione di Fs che si occupa di infrastrutture) un paio di anni fa. Dallo studio Rfi l’opera risulta fattibile, con un beneficio netto per la collettività di 683 milioni di euro. L’analisi critica della Voce, basata su una tesi del Politecnico di Milano, portava il risultato netto per la collettività da +683 milioni di euro a -837 milioni. Cioè l’infrastruttura determinerebbe una vistosa perdita netta di benessere sociale, uno straordinario spreco di soldi pubblici. Ma questo eliminando solo alcuni errori materiali riscontrabili (i principali legati ai costi ambientali), senza entrare in merito all’aspetto più spinoso della faccenda: le previsioni di traffico.  

La nuova linea fa risparmiare, sulla base dei dati ufficiali, un’ora e un quarto ai treni passeggeri, e probabilmente un po’ di meno ai treni merci (il dato per questi non è specificato). L’esperienza e la letteratura internazionale evidenziano che se il tempo di viaggio dimezza, il traffico può anche raddoppiare. Ma qui siamo lontanissimi da quel valore! Il traffico previsto dallo studio Fs arriva a quadruplicarsi con la nuova linea. Non vengono fornite spiegazioni sul modello usato per raggiungere quell’inverosimile valore. La sensazione è che si tratti di una lieve confusione tra l’offerta possibile (quanti treni ci possono passare), e la domanda (cosa verosimilmente ci passerà).

Ovviamente, se nella revisione dei calcoli sopra presentata si fosse assunta una domanda “verosimile” sulla nuova linea, i benefici sociali prima citati sarebbero ulteriormente crollati, a circa un quarto di quelli stimati (e da noi assunti comunque come veri per essere prudenti nel criticare uno studio altrui).  

Uno degli argomenti in difesa delle grandi opere è il seguente: intanto facciamole, poi la domanda arriverà. Illuminante a questo proposito è la linea AV Milano-Torino, costata 8 miliardi, con una capacità di 330 treni al giorno: dopo quattro anni, ne passano 22. Meglio non parlare poi degli aspetti occupazionali: per euro pubblico speso, queste opere occupano pochissima gente.  

Ma nei due anni trascorsi da quell’analisi qualcosa è cresciuto: non la domanda di traffico, purtroppo, ma i costi previsti, che sono passati da 4 a 7 miliardi. E parliamo solo di previsioni, i consuntivi tendono ad essere un po’ più alti. Le popolazioni locali qui non protestano, al contrario che nella Valsusa: la situazione economica e sociale è tale che qualsiasi euro pubblico è il benvenuto, e il settore delle opere civili a sud di Roma è spesso controllato da soggetti sociali che non è prudente contrastare, come dice la stessa Corte dei Conti.  

Meglio non continuare a chiedere all’oste se il vino è buono.

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La retorica dello slogan e quel sessantottino di Mario Monti

Sono un vecchio sessantottino (in quell’anno avevo 16 anni e conobbi le mie prime assemblee e le mie prime manifestazioni), come storico ho sempre difeso il sessantotto dai suoi detrattori e resto dell’idea che quel movimento fu il più grande fenomeno di mutamento sociale della storia repubblicana. Questo non significa che di quell'esperienza tutto vada accettato e difeso. Ci sono molte critiche da fare e non su aspetti secondari. Una delle eredità meno positive del sessantotto è stata il “parlare per slogan”, su cui conviene fare una riflessione. Gli studenti del sessantotto (ed anni seguenti) erano in gran parte “teleutenti nativi”: chi aveva 20 anni in quell’anno aveva avuto esperienza della televisione già quando ne aveva avuti otto o dieci. E con la televisione aveva assimilato il linguaggio della pubblicità commerciale filtrato attraverso il mitico “Carosello”. E la pubblicità è la negazione del mercato: dove questo presuppone un consumatore razionale ed informato che sceglie con cognizione di causa il miglio rapporto prezzo-qualità, la pubblicità vuole un consumatore suggestionato che sceglie sulla base di pulsioni che non hanno nulla a che fare con la razionalità economica. Si sceglie quel caffè non perché è buono ma perché il suo testimonial è quel celebre attore, quell’auto promette di far colpo sulle donne, quel gin è bevuto dai giovani, quella sigaretta è molto “virile” e così via. E questo esige un messaggio breve, facile a memorizzarsi (magari per una rima o una costruzione ad effetto), fulminante ed inverificabile: “Vecchia Romagna etichetta nera: il brandy che crea un’atmosfera”, “Finsec: ti dà la carica, ti manda in estasi”, “Atlantic: con meno il meglio”.. ricordate?

Poi non è affatto necessario che Atlantic sia davvero il prodotto migliore ed al costo più basso o che il Finsec potesse realmente mandare in estasi e tantomeno che la Vecchia Romagna (che ricordo con un  insuperabile dopobarba) crei veramente una atmosfera. L’importante è che questo entri nell’immaginario dell’ascoltatore che a sua volta se ne faccia portatore ripetendo lo sloga, magari a mo’ di battuta, al bar con gli amici. La forza di questo tipo di comunicazione sta nella semplicità perentoria con la quale afferma qualcosa come se fosse una verità auto evidente, che non ha bisogno di alcuna prova. Come dire: “guarda fuori: è giorno”. Questo è lo slogan. Il movimento studentesco di quell’anno importò lo slogan nella politica: “Potere studentesco!”, “Operai a scuola, studenti in officina: faremo in Italia come hanno fatto in Cina”, “Imperialismo tigre di carta”, “Vietnam vince perché spara” “Lo stato borghese si abbatte e non si cambia” e così via. I vantaggi di questa innovazione erano diversi: lo slogan ritmato nella manifestazioni ed assemblee creava un senso di soggetto collettivo come i canti politici, il messaggio era breve ed immediato, era una forma di propaganda che costava poco o nulla richiedendo al massimo un megafono, il che è essenziale per un movimento povero di mezzi, ecc. Ma comportava degli effetti negativi alla lunga prevalenti su quelli positivi. In primo luogo tendeva ad essere ripetitivo, ad essere ripreso anche all’interno di testi un po’ più articolati (come un volantino o il pezzo di un giornale murale) favoriva una notevole standardizzazione e, dunque, un impoverimento del linguaggio. A sua volta questo spingeva verso l’impoverimento dell’analisi ed, in definitiva, verso un discorso politico scarsamente articolato. Cosa significa “Lo stato borghese”? Lo “stato borghese” può essere molte cose: può identificarsi con il fascismo o anche con il Welfarestate, con una dittatura militare o un regime parlamentare… “E che ce frega? Tanto lo dovemo abbatte!”. Ricordate “Ecce Bombo”? Ecco, avete capito di cosa parlo.

In secondo luogo, il carattere assertivo e privo di incertezze degli slogan (d’altra parte, che successo avrebbe uno slogan dubitativo?), non incoraggiava né un atteggiamento laico né, tantomeno la mediazione politica. E questo è stato sempre uno dei punti deboli della cultura politica del sessantotto: il non capire che la mediazione politica non implica né rinuncia ai principi né un atteggiamento meno radicale. Lenin aveva un fortissimo senso della mediazione politica e non mi pare che fosse un moderato. Ma i sessantottini preferirono sempre pensare che la politica fosse sempre e solo brutale esercizio dei rapporti di forza, in una dimensione militaresca che ignorava di fatto l’idea di egemonia che non è fatta solo di forza, ma anche di consenso. Ad una cultura politica così fatta, il linguaggio un po’ primitivo degli slogan calzava come un guanto di morbida pelle. Poi, però, l’avventura del partito armato tirò le somme di quella incapacità di passare ad una età adulta della pratica politica.

Man mano, la riduzione della politica militante a frenetico attivismo senza meta finì per svuotare di senso la stessa militanza e gli slogan furono la colonna sonora di questo poco esaltante film. Tutto questo non è passato senza conseguenze. Intendiamoci, non è stata solo colpa del sessantotto che al massimo ha fatto da involontario facilitatore di qualcosa che ci sarebbe stato comunque: la trasformazione della propaganda politica in termini sempre più affini alla pubblicità commerciale. Era una conseguenza logica del dominio televisivo. Il sessantotto ha avuto la responsabilità specifica di formare la cultura politica di una generazione e non solo nella sua fiancata di sinistra: quello degli slogan non fu il linguaggio solo della gioventù di sinistra ma di tutta quella generazione.

Da questo punto di vista, possiamo ritenere Monti (che, in fondo, appartiene a quella generazione avendo avuto 25 anni  nel 1968) un “sessantottino ad honorem”, pur non avendo mai avuto esperienze di movimento studentesco. Certo, oggi gli slogan non sono più in rima e non sono gridati nei cortei, ma possono assumere la forma di un documento politico pronunciato con voce pacata come lo è la sua Agenda. Quello che resta è l’assertività, con frasi brevi e staccate, che non ammette verifiche, l’assoluta mancanza di laicità, la suggestività del messaggio basata sull’indifferenza verso il contenuto. La stessa perentoria affermazione di verità auto evidenti che non richiedono prove e non ammettono mediazioni: “L’Europa è il futuro certo ed unico del nostro paese; ci sono state difficoltà, ma adesso faremo l’unità politica.”

E se obietti che non c’è nessun segno di questa prossima unità ed, anzi, che le dinamiche segnalano, semmai, un allontanamento dei paesi membri fra loro, lo sloganista ti risponderà che non è vero e sei tu che non vedi i segni di questa prossima unità (che però non ti dirà quali sono). Ed, al massimo, l’altro aggiungerà una banalità qualsiasi come quella del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto e che lui è un ottimista. E se poi, dopo qualche anno, l’unità politica europea non si fa e magari salta tutto in aria? Nessun problema: si cambia slogan, con l’aria di chi ha sempre detto la stessa cosa. L’Europa, nella retorica montiana, assolve alla stessa funzione che aveva la Cina nel discorso dell’ala maoista del sessantotto: un mito-attaccapanni cui appendere le proprie aspettative ed i propri disegni. Ed i miti non ammettono discussioni: si accettano o si respingono, senza incertezze e sfumature. A venti anni questo può essere l’ingenuo rifugio di un acerbo immaginario. A sessanta è solo l’espediente cinico di operazioni poco confessabili.  Ma il meccanismo retorico resta lo stesso.

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Davvero un bel pezzo questo di Giannuli che per altro può allargarsi a tutti i soggetti politici attualmente in corsa, Movimento 5 Stelle e arancioni in primis.

30/12/2012

Elezioni 2013, Montezemolo e il conflitto di interessi delle scatole nere

Ci sono tante ragioni per cui un impegno in politica di Luca Cordero di Montezemolo è poco opportuno nel Paese del conflitto di interessi: i suoi rapporti con la famiglia Agnelli-Elkann (è ancora presidente di Ferrari, controllata di Fiat), la sua recente vicepresidenza dell’Unicredit in quota dei fondi arabi, l’investimento nel più regolato dei business, quello ferroviario, con il Nuovo Trasporto Viaggiatori di cui ha da poco lasciato la presidenza. Ma c’è un’altra storia, solo in apparenza minore, che spiega meglio la tela avvolgente di interessi e tentazioni in cui si troverebbe (meglio dire si troverà) Montezemolo quando la sua associazione Italia Futura diventerà la colonna su cui si regge la lista Monti. La storia è quella della Octo Telematics e delle scatole nere da mettere nelle automobili per ridurre le frodi in caso di incidente.

IL DECRETO - La Octo Telematics è un’azienda di Reggio Emilia in cui il fondo Charme promosso da Montezemolo ha investito nel 2010. E ora, secondo quanto rivelato da Carlo Festa sul Sole 24 Ore, è pronta per essere ceduta al colossale valore di un miliardo di euro, stando alle stime riservate di Goldman Sachs. Le fortune della Octo Telematics, nata nel 2002, derivano dal talento emiliano del fondatore Germano Fanelli, ma le prospettive future sono rosee soprattutto grazie a uno dei ministri più montezemoliani del governo Monti, Corrado Passera. Nell’ultimo bilancio della Octo Telematics si legge che “il mercato assicurativo, nel ramo responsabilità civile auto, sta attraversando una nuova fase in seguito della recente introduzione del decreto legge 24 gennaio 2012 recante disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”. E’ il decreto Liberalizzazioni che ha messo le premesse per il boom del mercato delle scatole nere sulle auto come strumento antifrode. All’articolo 32 si legge infatti che se l’assicurato installa la scatola nera sull’auto, tutti i costi sono a carico della compagnia che offre anche una “riduzione significativa” della tariffa, tanto poi si rifà grazie alla riduzione delle frodi e dei costi di contenzioso. Non solo: il decreto lascia la possibilità al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (oggi inglobato nel superministero dello Sviluppo) di stabilire per quali altri “ulteriori dispositivi” valga questo regime che è forse nell’interesse di tutti, ma i cui beneficiari maggiori sono i produttori della tecnologia richiesta.

L’AFFARE È PRONTO - Infatti nel bilancio della Octo Telematics, alla voce “evoluzione prevedibile della gestione” è indicato praticamente solo l’impatto del decreto grazie al quale “sono in corso negoziazioni con alcuni clienti attuali per adeguare i contratti vigenti al modello di business regolato dalla legge e parimenti sono stati avviati contatti con clienti potenziali che dovranno implementare nel loro portafoglio le polizze telematiche”. La norma governativa è arrivata al momento giusto: un fatturato già considerevole per la Octo Telematics, 70 milioni di euro, è considerato in crescita potenziale da Goldman Sachs fino a 100 milioni. Proprio a gennaio, lo stesso mese del decreto, il fondatore Germano Fanelli e i suoi soci vendono il loro 30 per cento detenuto tramite la MetaSystem alla Octobi, società capogruppo, che così detiene il 90 per cento (tutto in pegno alle banche). La Octobi è controllata al 60 per cento dalla Montezemolo & Partners sgr, con un investimento di 18,5 milioni di euro tramite il fondo di investimento Charme 2 (in cui con Montezemolo ci sono vari soggetti, tra cui il gruppo indiano Tata). Se fossero corrette le valutazioni di Goldman Sachs riportate dal Sole 24 Ore e la Octo Telematics venisse valutata un miliardo, il fondo di Montezemolo potrebbe vendere la sua quota del 90 per cento realizzando una plusvalenza teorica colossale, oltre 880 milioni di euro. Difficile che vada davvero così, ma comunque si prospetta un buon affare. Sempre che al ministero dello Sviluppo non arrivi un ministro poco compiacente che magari cambi le regole sulle scatole nere, rovinando le prospettive della società emiliana. E sempre che Enrico Bondi, il superconsulente ingaggiato da Monti per la spending review e che ora deve vigilare sui conflitti di interesse dei candidati nelle liste montiane, non abbia qualcosa da ridire sulla vicenda (pare poco probabile).

INQUIETUDINI FERROVIARIE - C’è un solo ministro dello Sviluppo che Montezemolo teme davvero ed è Mario Moretti, l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato che secondo alcuni retroscena giornalistici Pier Luigi Bersani vorrebbe portare al governo. Nei giorni scorsi Massimo Mucchetti, sul Corriere della Sera, ha ipotizzato che dopo le elezioni si affronti la nuova crisi di Alitalia con un’alleanza con le Fs, invece che con una ricapitalizzazione o cedendo le quote dei “patrioti” italiani al partner industriale Air France. Così la concorrenza si ridurrebbe ancora, concentrando i due operatori principali del trasporto (soprattutto sulla redditizia tratta Roma-Milano) a tutto danno della Ntv di Montezemolo. Ieri Alitalia ha smentito ogni ipotesi di alleanza “ in modo assoluto e categorico”. Ma gli azionisti di Ntv, e soprattutto le banche creditrici che hanno in pegno gran parte delle azioni, si sentiranno più rassicurati se la lista Monti sostenuta dalla montezemoliana Italia Futura avrà un buon risultato alle urne. Luca Cordero di Montezemolo probabilmente non sarà candidato, ma se le cose vanno bene (per lui) potrebbe ritrovarsi ministro. Ma se Monti è coerente con le proprie dichiarazioni sulla volontà di evitare conflitti di interesse, Montezemolo non potrà occuparsi di automobili, banche, assicurazioni, giornali, immobili, televisione (la ex compagna produce fiction e lui, dicono le intercettazioni dell’inchiesta P4, faceva il possibile per farla lavorare in Rai). Magari gli daranno il ministero delle Pari opportunità.

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Lettera dei familiari della strage di Viareggio: "Dolore per la candidatura di Moretti col Pd"

Dal “Corriere della Sera” al nostro infinito dolore!


Viareggio_corteo_1_annoViareggio- Giovedì 27 dicembre, a pag. 9 del “Corriere della Sera”: “ … è partito, forte come non mai, il pressing nei confronti di Moretti. Il massimo per il Pd sarebbe avere in lista l’Ad delle Fs. Ma se ciò non fosse possibile, il Pd non dispera di poter avere Moretti nella compagine governativa. Per lui sarebbe già pronta la poltrona oggi occupata da Passera: quella di super ministro dello Sviluppo economico e delle Infrastrutture. Ma si tratta di un’impresa difficile: i vertici del Pd non sono ancora riusciti a strappare un sì all’Ad delle Fs“.

Il cav. Moretti, indagato da sempre per la strage di Viareggio del 29 giugno 2009 e dal 18 dicembre 2012 imputato per la stessa, è diventato piatto prelibato per il Partito democratico .  Finalmente, anche il Partito “democratico” non vede l’ora di avere nel (suo) governo un imputato per la strage di Viareggio, un imputato che familiari e cittadini di Viareggio ritengono uno dei massimi responsabili delle 32 vittime e dei feriti gravissimi che per tutta la vita avranno addosso i segni di quella tragica notte. La realtà, troppo spesso, riesce a superare, di gran lunga, la fantasia!

Credevo che il Pd fosse il partito più vicino alla gente comune, a fianco dei lavoratori che non arrivano a fine del mese, il partito che per anni ho votato “credendo” che fosse la soluzione ai tanti problemi del nostro paese e adesso leggo che avrebbe piacere a candidare l’imputato Moretti. Un Amministratore delegato che ha sulla coscienza la morte di mia figlia Emanuela e di altre 31 persone (mamme, papà, fratelli, sorelle, nipoti, figli …).

Voi (del Pd) non vi rendete conto di cosa stiamo parlando! Ma posso aiutarvi: provate a pensare, ad immedesimarvi per pochi minuti che al Natale appena trascorso (il 4° per noi) alla vostra tavola vi sia il posto vuoto, di vostro figlio, di vostro nipotino, di vostra madre o di vostra sorella … Ma voglio aiutarvi ancora: prima del pranzo del santo Natale siete andati al cimitero a trovarli, a salutarli, a portar loro un fiore; sono tutti lì, tutti insieme, voi andate a trovare vostro figlio ma siete a trovarli tutti! Ecco, provate ad immaginare ma, se Dio vuole, non ci riuscirete mai, perché mai potrete minimamente avvicinarvi al nostro dolore che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto ci martella nel corpo e nell’anima.

E Lei, dottor Bersani, pensa addirittura che avere tra le proprie fila il cav. Moretti sia il massimo? O addirittura di portarlo in Parlamento o averlo ministro delle Infrastrutture?

Ho ancora impresso il ricordo di quando, l’8 settembre 2011, venne a Viareggio il dott. Matteo Mauri, per convincerci a non essere presenti alla festa del Pd a Genova dove, il giorno successivo, era stato invitato il dottor Moretti a parlare di trasporti … Oppure, quando il Mauri è venuto a Viareggio la primavera scorsa per proporci (come contentino?) un Convegno sulla “sicurezza in ferrovia” che per la presenza stessa del sig. Moretti non avremmo potuto accettare perché noi familiari non siederemo a fianco di chi riteniamo responsabile della morte dei nostri cari. Oppure, quando avete organizzato il dibattito “Sistema dei trasporti e sviluppo sostenibile” il 21 settembre scorso alla Festa nazionale del Turismo a Milano Marittima con l’intervento dell’Ad delle Fs Moretti.

Una costante questa, di mettere dovunque il dottor Moretti, anche alla festa del Turismo. Non funziona così, perlomeno per noi, persone semplici e normali, proprio non funziona così! Arrivederci, grazie per l’attenzione e…….auguri!

28 dicembre 2012

Daniela Rombi -  Presidente dell’Associazione “Il Mondo che Vorrei” familiari delle vittime della strage di Viareggio del 29 giugno 2009

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Dopo Grasso mancava giusto Moretti.
Nel frattempo la tanto sbandierata società civile continua a restare al palo, oscurata da tutti questi giganti della rivoluzione civile che "scendono" in politica.
E' quasi matematico che non cambierà un cazzo anche con le prossime elezioni.

Stuxnet colpisce ancora l'Iran ma stavolta le difese reggono

Le autorità iraniane hanno affermato che diversi siti sono stati di nuovo colpiti da Stuxnet, il virus che nel 2010 danneggiò almeno una centrale nucleare nel paese mediorientale. Stavolta però, sempre secondo le fonti di Teheran, l'attacco è stato respinto.
"Siamo riusciti a prevenire la diffusione del malware attivando con tempismo le nostre difese e con la collaborazione di esperti molto abili" ha infatti dichiarato Ali Akbar Akhavan, capo della Difesa iraniana. Ancora una volta tuttavia l'Iran ha accusato gli Stati Uniti e Israele di essere dietro agli attacchi; era stato dimostrato infatti che i due alleati erano responsabili dello sviluppo originale di Stuxnet.

Dimostrare la responsabilità di un attacco simile tuttavia non è possibile: le tracce digitali non sono sufficienti a indicare un colpevole con certezza assoluta, e poi c'è il fatto che queste armi digitali possono effettivamente finire nelle mani di chiunque. Per quanto si possa ritenere probabile che le cose stiano come dice l'Iran, quindi, una prova definitiva non c'è. Per fortuna, perché sarebbe un casus belli più che lampante.

In ogni caso è noto che da almeno due anni le azioni contro l'Iran non si limitano alle dichiarazioni e alle risoluzioni delle Nazioni Unite, perché non è certo la prima volta che il paese si trova ad affrontare minacce informatiche sofisticate in grado di fare danni rilevanti, potenzialmente anche letali.

Chiunque siano i nemici di Teheran, tuttavia, vale la pena notare che oltre al danno effettivo e a quello economico hanno anche ottenuto un effetto collaterale probabilmente indesiderato: il paese ha accelerato lo sviluppo delle proprio difese digitali, e ora ha protezioni più solide. Almeno secondo le dichiarazioni ufficiali - che in questi casi sono da prendere con molta cautela.

In ogni caso siamo di fronte alla nuova conferma che c'è una nuova guerra fredda in corso, e che a combatterla sono programmatori tra i migliori del mondo. Rispetto all'epoca della Cortina di Ferro, tuttavia la cyberguerra si combatte con armi vere e proprie (Stuxnet, Duqu, Flame e altri), e gli attacchi sono concreti come quelli che ha subito l'Iran.

Ancora più preoccupante è che queste cyberarmi possono circolare praticamente senza controllo. In altre parole, Stuxnet (il cui codice è trapelato alcuni mesi fa) potrebbe essere nelle mani e sotto il controllo di chiunque nel mondo. E stiamo parlando di virus capaci di fermare e danneggiare una centrale nucleare, provocare incidenti anche gravi, compromettere le infrastrutture di un intero paese nel giro di poche ore, minuti forse. Una minaccia terribile contro la quale la maggior parte dei paesi del mondo è ben poco preparata.

Se le cose non cambiano, se non s'innalzano difese solide, se non si stabiliscono trattati internazionali come quelli sulle testate nucleari, non è da escludere che riprenda la corsa agli armamenti, stavolta digitali. E tra qualche anno ci ritroveremmo nello stesso clima di tensione che ha attanagliato il mondo dagli anni '50 agli '80. Non proprio una bella prospettiva.

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Il debito è pubblico, l’affare è per le banche

E’ un documento da conservare con cura il rapporto “Moneta e banche” redatto dalla Banca d’Italia. Perché se si vuole vuole sapere per che cosa facciamo i sacrifici, subiamo le stangate, gli aumenti, il blocco dei servizi e dei diritti, parte della risposta è data dai numeri, un po’ complessi e fitti, che la banca centrale italiana pubblica sul proprio sito.
Al 31 ottobre 2012, infatti, la proprietà di Titoli di Stato da parte delle banche italiane ammontava a 340 miliardi di euro, in aumento del 63% rispetto all’anno precedente (208 miliardi ma, nel 2009 a ridosso dell’esplosione della crisi, erano solo 147 miliardi). Una fetta importante del debito pubblico, quindi, si trova nella pancia delle banche: i Bot, nell’ultimo anno (ottobre 2011-ottobre 2012) sono passati da 32 miliardi a 54, i Btp da 106 a 182 miliardi ma anche Cct e Ctz sono cresciuti sia pure in misura minore.
Ma perché questo aumento così significativo, nonostante lo “spread“? Semplice, le banche in quest’ultimo anno hanno visto aprirsi sopra di loro il paracadute della Bce che ha assicurato una liquidità pressoché illimitata consentendo così di disporre di una dote miliardaria a un tasso di interesse dell’1% appena. Con questi soldi cosa hanno fatto i nostri istituti di credito, prestato a famiglie e imprese? Neanche per sogno. 
Nello stesso arco di tempo i prestiti alle famiglie sono scesi da 616 a 610 miliardi di euro, soprattutto nel credito al consumo mentre i prestiti alle imprese sono calati di oltre 35 miliardi, da 905 a 870 miliardi di euro. Solo il settore “pubblica amministrazione“, in linea con il dato del debito pubblico, ha sostanzialmente retto perdendo circa due miliardi di finanziamento nei circa 1900 miliardi di prestiti. 
La realtà, dunque, è che le banche si sono finanziate presso la Bce e con quei soldi hanno acquistato i ben più redditizi titoli di Stato che quest’anno hanno assicurato rendimenti tra il 4 e il 6%. Le banche spiegano questa situazione appellandosi all’aumento consistente delle sofferenze (i crediti difficili da riscuotere) passate nell’arco dell’anno da 102 a 119 miliardi, una crescita del 16%. Un rischio che, almeno in parte, è stato coperto investendo sui titoli di Stato.  
Acquistando titoli per oltre 130 miliardi (la differenza positiva dell’ultimo anno) le banche hanno potuto guadagnare circa 5-6 miliardi in più di interessi. Chi ci rimette? La spesa per interessi sul debito pubblico, nello stesso periodo, è passata da 78 a 86 miliardi di euro secondo i dati della Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (redatto lo scorso 20 settembre). Quella stessa spesa è destinata ad aumentare a 89 miliardi nel 2013, a 96 nel 2014 e a 105 miliardi nel 2015. Per pagare la crescita degli interessi il governo Monti ha stabilito importanti tagli alla Sanità, alle pensioni e così via.
Il trasferimento di risorse è quindi visibile a occhio nudo, basta leggere i numeri.
 

Il FMI ammette: l’Islanda aveva ragione e noi torto

di Jeff Neilson – 26 dicembre 2012

Per circa tre anni, i nostri governi, la cricca dei banchieri e i media industriali ci hanno garantito che loro conoscevano l’approccio corretto per aggiustare le economie che loro avevano in precedenza paralizzato con la loro mala gestione. Ci è stato detto che la chiave stava nel balzare sul Popolo Bue imponendo “l’austerità” al fine di continuare a pagare gli interessi ai Parassiti delle Obbligazioni, a qualsiasi costo.

Dopo tre anni di questo continuo, ininterrotto fallimento, la Grecia è già insolvente per il 75% dei suoi debiti e la sua economia è totalmente distrutta. La Gran Bretagna, la Spagna e l’Italia stanno tutte precipitando in una spirale suicida, in cui quanta più austerità quei governi sadici infliggono ai loro stessi popoli tanto peggiore diventa il problema del loro debito/deficit. L’Irlanda e il Portogallo sono quasi nella stessa condizione.

Ora, in quello che potrebbe essere il più grande “mea culpa” economico della storia, i media ammettono che questa macchina governativa-bancaria-propagandistica della Troika ha avuto torto per tutto il tempo. Sono stati costretti a riconoscere che l’approccio dell’Islanda al pronto intervento economico è stato quello corretto sin dall’inizio.

Quale è stato l’approccio dell’Islanda? Fare l’esatto contrario di tutto ciò che i banchieri che gestivano le nostre economie ci dicevano di fare. I banchieri (naturalmente) ci dicevano che dovevamo salvare le Grandi Banche criminali a spese dei contribuenti (erano Troppo Grandi Per Fallire). L’Islanda non ha dato nulla ai banchieri criminali.

I banchieri ci dicevano che nessuna sofferenza (del Popolo Bue) sarebbe stata troppo grande pur di garantire che i Parassiti delle Obbligazioni fossero rimborsati al cento per cento di ogni dollaro. L’Islanda ha detto ai Parassiti delle Obbligazioni che avrebbero ricevuto quel che sarebbe rimasto dopo che il governo si fosse preso cura del popolo.

I banchieri ci dicevano che i nostri governi non potevano più permettersi la stessa istruzione, lo stesso sistema pensionistico e d'assistenza sanitaria che i nostri genitori avevano dato per scontato. L’Islanda ha detto ai banchieri che quello che il paese non poteva più permettersi era di continuare a vedersi succhiare il sangue dai peggiori criminali finanziari della storia della nostra specie. Ora, dopo tre anni abbondanti di questa assoluta dicotomia nelle scelte politiche, è emerso un quadro chiaro (nonostante gli sforzi migliori della macchina della propaganda per celare la verità).

Nel loro stile tipico, nel momento in cui i media dell’industria sono costretti ad ammettere di averci gravemente disinformati per molti degli ultimi anni, vengono immediatamente schierati i revisionisti per riscrivere la storia, come dimostrato da questo estratto da Bloomsberg Businessweek:

… l’approccio dell’isola al proprio salvataggio ha portato a una ripresa “sorprendentemente” forte, ha affermato il capo della missione del Fondo Monetario Internazionale nel paese.

In realtà, dal momento in cui è stato orchestrato il Crollo del 2008 e i nostri governi moralmente in bancarotta hanno cominciato ad attuare i piani dei banchieri, io ho scritto che l’unica strategia razionale era di mettere il Popolo prima dei Parassiti. Anche se non mi aspettavo che i decisori della politica nazionale traessero la loro ispirazione dai miei scritti, quando stilavo le ricette economiche per le nostre economie non ho basato le mie idee sulla compassione o semplicemente sul “fare la cosa giusta”.

Ho, invece, costantemente sostenuto che il fatto che “l’approccio islandese” fosse l’unica strategia che aveva una possibilità di riuscita era una questione di semplice aritmetica e dei più elementari principi dell’economia. Quando Plutarco, 2.000 anni fa, scriveva che “uno squilibrio tra i ricchi e i poveri è il male più fatale di tutte le repubbliche” non stava ripetendo a pappagallo un dogma socialista (1.500 anni prima della nascita del socialismo).

Plutarco stava semplicemente esprimendo il Primo Principio dell’economia; qualcosa su cui tutti gli economisti capitalisti moderni che ne hanno seguito le orme hanno basato le loro stesse teorie. Quando gli economisti moderni esibiscono il loro gergo, come nel caso della Propensione Marginale al Consumo, esso è francamente basato sulla saggezza di Plutarco: che un’economia sarà sempre più sana con la sua ricchezza nelle mani dei poveri e della Classe Media invece che essere accumulata da ricchi pidocchiosi (e giocatori d’azzardo).

Così quando i Revisionisti di Bloomberg tentano di convincerci che la forte (e reale) ripresa economica dell’Islanda è stata una “sorpresa” ciò potrebbe essere vero se nessuno dei nostri governi, nessuno dei banchieri e nessuno dei preziosi “esperti” dei media comprendesse i più elementari principi dell’aritmetica e dell’economia. E’ questo il messaggio che i media vogliono comunicare?

Quello che qui è ancor più insincero è il tono congratulatorio di questo esercizio di Revisionismo, poiché nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Come ho detto in dettaglio in una serie di quattro articoli un anno fa, la campagna di “stupro” economico perpetrata contro i governi d’Europa negli ultimi due anni e mezzo (in particolare) è stata espressamente mirata a cancellare “l’opzione islandese” per gli altri governi dell’Europa.

Uno dei motivi per cui l’Islanda è stata in grado di sfuggire alla garrota della cricca bancaria occidentale è che la sua economia (e il suo popolo) conservavano ancora una prosperità residua sufficiente a resistere, mentre la cricca bancaria cercava di strangolare l’economia dell’Islanda come punizione per aver respinto la loro Schiavitù del Debito.

Così, l’austerità non è stata niente di meno di una campagna deliberata per distruggere le economie europee in modo tale che gli Schiavi fossero troppo economicamente deboli per essere in grado di recidere il loro collare. Missione compiuta!

Si può solo ritenere che né i media dell’industria né i Banchieri Padroni avrebbero consentito che questo chiaro riconoscimento che l’Islanda aveva ragione e noi avevamo torto comparisse sulle loro pagine, a meno che si sentissero sicuri di sapere che tutti gli altri Schiavi del Debito erano stati paralizzati oltre la loro capacità di sfuggire a questa oppressione economica.

In effetti, a prova di questo fatto, non dobbiamo che guardare alla Grecia, l’unica altra nazione europea in cui c’erano state “avvisaglie” (cioè rivolte) mirate a rovesciare il Governo Traditore che aveva servito la cricca dei banchieri. Dopo due elezioni, la combinazione di paura e propaganda ha intimidito il popolo greco da lungo tempo sofferente, al punto da fargli scegliere un altro Governo Traditore, che si era espressamente impegnato a rafforzare i vincoli della schiavitù economica. Quando gli Schiavi votano per la schiavitù, i Padroni degli Schiavi possono permettersi di gongolare.

Qui, lo scopo di questa propaganda di Bloomberg non è stato di elogiare il governo islandese (quando sia i banchieri sia i media dell’industria disprezzano l’Islanda con tutta la loro considerevole malignità).  Piuttosto, l’obiettivo di questa disinformazione è stato di costruire una nuova Grande Bugia.

Invece della Verità, in base alla quale dal primo giorno l’approccio islandese era l’unica strategia possibile che avrebbe potuto avere successo, mentre i nostri governi hanno scelto una strategia destinata a fallire, otteniamo la Grande Bugia. I nostri Governi Traditori avevano agito onestamente e onorevolmente e il successo dell’Islanda e il nostro fallimento sono stati ancora un’altra “sorpresa che nessuno avrebbe potuto prevedere”.

Abbiamo assistito esattamente allo stesso Revisionismo dopo il Crollo economico del 2008, quando i media convenzionali hanno tirato in ballo tutti i loro esperti nell’imbonimento per dirci che erano rimasti “sorpresi” da tale evento, mentre quelli del settore dei metalli preziosi erano andati profetizzando un tal cataclisma, in termini ancora più energici, per molti anni.

Il vero messaggio, per i lettori, è che quando una strategia economica del Popolo prima dei Parassiti ha successo non c’è nulla di minimamente “sorprendente” al riguardo. Così come non è sorprendente che il fatto che tutto il resto del mondo intorno a noi  promuova il benessere dei Parassiti, sia un bene soltanto per i Parassiti stessi.

Fonte: http://www.zcommunications.org/iceland-was-right-we-were-wrong-the-imf-by-jeff-neilson

traduzione di Giuseppe Volpe

29/12/2012

Celle solari flessibili efficienti ed economiche

Piccoli pannelli solari flessibili e adesivi potrebbero essere la risposta ai fabbisogni energetici in costante crescita di ognuno di noi. L'idea è descritta nell'ultimo numero di Nature Scientific Reports, e attribuita a Xiaolin Zheng dell'Università di Stanford e alla sua squadra.
I ricercatori hanno infatti mostrato che è possibile trasferire i materiali attivi di una cella solare da un substrato rigido a un'altra superficie, come un foglio di plastica o di carta, il tettuccio di un'auto o un telefono. Il funzionamento sarebbe lo stesso, ma avremmo pannelli più leggeri e facili da installare praticamente ovunque.

I più attenti ricorderanno che l'idea del prof. Zheng non è la prima nel suo genere; l'elemento nuovo sta nel fatto che, secondo lo stesso ricercatore, questo nuovo approccio risolve i problemi delle celle flessibil esistenti - sviluppate anche commercialmente. I pannelli flessibili attuali, per esempio, tollerano male le alte temperature o alcune sostanze chimiche e per questo hanno prestazioni minori alle celle solari standard. Il substrato flessibile, inoltre, è generalmente fatto di un materiale molto costoso.

Il prof. Zheng ha invece trovato il modo di "spelare" via la cella solare, inizialmente vincolata al substrato in diossido di silicio usato per la sua produzione. Usando nickel e acqua i ricercatori sono riusciti a staccarla come una pellicola, che si può poi depositare altrove senza compromettere l'efficienza. I ricercatori hanno inoltre fatto sapere - ma non ancora dimostrato - che lo stesso procedimento si può applicare alle celle solari prodotte con gallio e rame, la cui efficienza è quasi doppia rispetto a quelle create usando diossido di silicio.

Le implicazioni di tale tecnica sono numerose: si potrebbe pensare ad abiti economici capaci di ricaricare i dispositivi che teniamo in tasca, automobili elettriche più efficienti e leggere, e tanto altro. L'idea di una produzione energetica diffusa è una tuttavia una promessa, che parla della riduzione della dipendenza da fonti non rinnovabili e dell'impatto ambientale di ognuno di noi.

Fonte

"Fine lavoro mai". I regali velenosi del governo a Capodanno

Crolla il numero dei nuovi pensionati nel 2013, quasi il 20% in meno. E andrà peggio strada facendo, soprattutto per le donne. "In compenso", il governo regala alle imprese uno sconto temporale sulla "stretta" per le false partite Iva.

Siccome siamo sotto le feste, e gli insulti non ci sembrano appropriati, preferiamo lasciare la parola alle felicitazioni fatte alla "saggezza" del goeverno dal giornale di Confindustria, IlSole24Ore.
Per chi avesse fatto fatica a capire struttura e senso dell'"agenda Monti", può trovare qui due esempi chiari. Ricordatevene quando vi verranno chiedere il voto per destra, centro e Pd. Vi consilgiamo comunque di portare sempre di fianco a voi un nodoso bastone. Guardandovi negli occhi potrebbero capire che la domanda (di un voto) non è gradita.


Sulle pensioni l'effetto Super Inps: nuovi assegni calati del 18,5%. E dal 1° gennaio parte la riforma Fornero

Calo delle nuove pensioni nei primi undici mesi del 2012: gli assegni liquidati dall'Inps, compresi quelli dell'ex Inpdap, sono stati 267.732 con un calo del 18,5% rispetto ai 328.549 dello stesso periodo del 2011. Il dato è l'effetto della finestra mobile e dello scalino scattati nel 2011 mentre la riforma Fornero ha effetti dal 2013.

Arriva a gennaio la stretta prevista dalla riforma Fornero
Se fino alla fine del 2012 sono usciti dal lavoro ancora i dipendenti che hanno maturato i requisiti a fine 2011 (e poi hanno dovuto attendere i 12 mesi previsti dalla finestra mobile) dal 2013 i lavoratori dipendenti potranno lasciare il lavoro solo con le regole previste dalla riforma (continueranno ad andare ancora fino a giugno con le vecchie regole gli autonomi che hanno dovuto attendere 18 mesi per la finestra mobile). Di fatto a decorrere da gennaio 2013 si potrà andare in pensione di vecchiaia con almeno 62 anni e tre mesi se donne (63 anni e 9 mesi se lavoratrici autonome) e con 66 anni e tre mesi se uomini. Si potrà andare in pensione anticipata rispetto alla vecchiaia solo se si sono maturati almeno 42 anni e 5 mesi di contributi se uomini e 41 anni e 5 mesi se donne.

La stangata sulle donne
Per le donne si tratta di un aumento significativo dell'età che aumenterà ancora gradualmente fino al 2018 (quando sarà equiparata a quella degli uomini). Fino a fine 2012 sono andate in pensione di vecchiaia donne dipendenti con 61 anni (60 più uno di finestra mobile) e lavoratrici autonome con 61 anni e mezzo (60 anni più 18 mesi di finestra mobile) mentre dal 2013 bisognerà attendere per le dipendenti i 62 anni e tre mesi e per le autonome 63 anni e 9 mesi. Dal 2014 ci vorranno 63 anni e 9 mesi per le dipendenti e 64 anni e 9 mesi per le lavoratrici autonome.

Il "salvagente" per chi è nata nel 1952
Per evitare il salto repentino previsto per gli anni successivi è previsto che le dipendenti che abbiano compiuto 60 anni entro il 2012 possano andare in pensione a 64 anni e 7 mesi (quindi nel 2016 senza rischiare l'ulteriore scalino a 65 anni e tre mesi). Un piccolo salvagente per le donne della seconda parte del 1952 che rischiavano di rincorrere la pensione fino al 2018 con cinque anni di lavoro in più rispetto alle colleghe del 1951.

La situazione per gli uomini
Per gli uomini la stangata riguarda soprattutto la pensione anticipata (che sostituisce la pensione di anzianità). L'abolizione delle quote e l'incremento di un anno per gli anni di contributi necessari per l'uscita (oltre l'aspettativa di vita) terrà ancora in ufficio e in fabbrica un piccolo esercito di lavoratori che si sentiva in dirittura di arrivo. Se infatti per la pensione di vecchiaia basteranno nel 2013 66 anni e 3 mesi (a fronte dei 66 anni con cui si è usciti fino a fine 2012) per la pensione anticipata ci vorranno 42 anni e 5 mesi di contributi (41 anni e 5 mesi per le donne). In pratica se si è nati dopo il 1946 per ritirarsi dal lavoro bisognerà aver cominciato a lavorare almeno nel 1972 (se si è cominciato nel 1971 è stato possibile uscire nel 2012 grazie a 40 anni di contributi più uno di finestra mobile). Anche per gli uomini dipendenti è prevista una eccezione con la possibilità di andare in pensione a 64 anni se si sono maturati entro il 2012 60 anni di età e 35 di contributi (quindi per i lavoratori del 1952 sarà possibile andare in pensione nel 2016 a 64 anni e 7 mesi pur avendone di contributi solo 39).




La «stretta» Fornero sul popolo delle partite Iva non ci sarà (per ora)
Francesca Milano

Il ministero del Lavoro sceglie una partenza morbida per l'azione di contrasto alle false partite Iva, cioé per quei lavoratori che vengono di fatto costretti ad aprire una posizione Iva per mascherare da lavoro autonomo posizioni di lavoro che sono in realtà di collaborazione coordinata e continuativa o anche di lavoro subordinato.

Decreto e circolare
Con un decreto ministeriale e una circolare diramata dall'Ufficio ispettivo dello stesso ministero del Lavoro - illustrati sul Sole 24 Ore oggi in edicola, si precisa infatti che la presunzione di "falsa partita Iva" non si applica:

- se la prestazione è svolta da un iscritto a un Ordine professionale

- e neppure se il lavoratore è in possesso di una specifica "competenza", che (secondo la circolare) può derivare anche dal possesso di una laurea o di un diploma di scuola superiore (liceo o istituto professionale).


In ogni caso, precisa ancora la circolare, i controlli potranno avviarsi dal 18 luglio 2014, trascorsi cioé due anni dall'entrata in vigore della riforma del lavoro (la legge 92/2012). Questo perché la stessa riforma - nel modificare l'articolo 69 bis del decreto legislativo 276/2003 - prevede un tempo di due anni per verificare l'eventuale presenza di una prestazione di eccessiva prevalenza, resa cioé a un solo committente in esclusiva o in larghissima parte.

La riforma e la sua applicazione
Le indicazioni attuative e interpretative del ministero delineano quindi un quadro decisamente meno restrittivo per il 2013, che dovrebbe anche far venir meno i timori di una drastica riduzione di queste attività. La posizione ministeriale, di fatto, sembra voler tracciare un percorso di progressivo adeguamento al dettato della norma, evitando però bruschi passaggi al nuovo regime. Sulle pagine di Norme e tributi del Sole 24 Ore di oggi gli esperti precisano la portata applicativa delle nuove istruzioni.

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Finalmente arriva un contentino anche per gli ex fan di Berlusconi, si vede che ormai Monti è lanciato nella competizione elettorale.

Il Vaticano e l'uomo della Provvidenza

Quando il cavalier Benito Mussolini firmò i Patti Lateranensi con il Vaticano nel 1929, papa Pio XI lo ribattezzò in un discorso pubblico "Uomo della Provvidenza": "E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi". Sono passati 83 anni e Rigor Montis, un altro uomo della Provvidenza, gesuita di educazione, cattolico praticante, che ha seguito durante il suo governo la massima di togliere ai poveri per dare ai ricchi, si è manifestato. E' salito tra noi. Porta in dono l'IMU e le scuole private al Vaticano al posto di oro, mirra e argento. L'Osservatore Romano ha così spiegato l'entusiasmo del Vaticano "Salire in politica è in sintesi l'espressione di un appello a recuperare il senso più alto e nobile della politica che è pur sempre, anche etimologicamente, cura del bene comune". L'Osservatore continua "Napolitano... al quale tutti riconoscono il merito di aver individuato proprio nel senatore a vita l'uomo adatto a traghettare l'Italia fuori dai marosi della tempesta finanziaria" A cui il Vaticano è rimasto immune... Un IMU val bene una messa. Bagnasco ha elogiato Rigor Montis "Non si possono mandare in malora i sacrifici di un anno". Parla ovviamente dei sacrifici degli italiani, non risultano infatti sacrifici del Vaticano. Se Agnelli spiegò che la Fiat è sempre governativa, il Vaticano è qualcosa di più, si fa esso stesso governo di uno Stato estero. Vanno distinti Chiesa e Vaticano, la prima è la casa di tutti i cattolici, il secondo è uno Stato che fa i suoi interessi terreni. Il Vaticano non può ingerirsi negli affari della Repubblica Italiana, così come lo Stato Italiano non deve influenzare, ad esempio, la nomina del prossimo Papa o del Segretario di Stato. Cavour usò la frase "Libera Chiesa in libero Stato" per affermare il principio della divisione tra il potere spirituale della Chiesa da quello temporale, rappresentato dai Savoia. Non aveva previsto Mussolini, il Vaticano, Bagnasco, Bertone e Rigor Montis. Forse è il caso di rivedere i Patti Lateranensi.

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“Scuola a pagamento e sanità privata”: il piano segreto di Margaret Thatcher

Niente più scuole pubbliche, niente più sanità aperta a tutti. Il giorno cruciale fu il 9 settembre 1982, quando nel cabinet, più o meno il nostro consiglio dei ministri, quasi scoppiò una rissa. A trent’anni da quel giorno, ora, nel Regno Unito vengono resi noti documenti tenuti a lungo secretati. Ed emerge che le tensioni all’interno del governo guidato da Margaret Thatcher erano tutte dovute a una proposta semplice, rivoluzionaria, che se si fosse avverata avrebbe cambiato per sempre la storia della Gran Bretagna e forse dell’Europa. La “Lady di Ferro” aveva un’idea: smantellare quasi completamente lo stato sociale britannico, molto più di quanto non abbia fatto realmente, partendo dal sistema scolastico e dalla sanità pubblica. Thatcher e il suo cancelliere Geoffrey Howe, in quell’ormai lontano 1982, lo dissero più volte: “Si potrà andare a scuola solo pagando una quota di iscrizione e il sistema sanitario dovrà essere reso accessibile tramite assicurazione privata, così come avviene negli Stati Uniti”. I ministri, tuttavia, si ribellarono, il primo ministro iniziò a temere gli effetti di una possibile campagna mediatica di tabloid e stampa impegnata e, nelle successive riunioni, questi propositi di guerra – ma qualcuno ora li chiama di “macelleria sociale” – sparirono quasi del tutto.

In questi giorni, quindi, nel Regno Unito, si sta scrivendo una storia dei “se”. Che cosa sarebbe successo, sarebbe stata una decisione “apripista” per il futuro dello stato sociale in tutta Europa? Difficile dirlo, ora, dopo che le intenzione di Thatcher e dei suoi sodali non si sono avverate, ma la stampa britannica, oggi, non lesina aggettivi allarmistici e arriva a definire quel piano del primo ministro “tossico” e “potenzialmente mortale”. Ora che questi documenti sono stati resi noti dall’Archivio nazionale, si viene a scoprire, appunto, la forza dello scontro che si ebbe all’interno del governo. Il Central Policy Review Staff, un comitato governativo per l’analisi delle proposte dei ministri, scrisse: “Le intenzioni del primo ministro porterebbero a una scomparsa del National Health Service”, cioè del sistema sanitario nazionale. Poco importa se la stessa Thatcher, nelle sue memorie, scrisse che quelle proposte, in realtà, erano solo delle boutade e che nessuno le aveva mai prese seriamente in considerazione. Ora, secondo gli analisti politici, la presa di distanza del primo ministro servì solo a “rassicurare” la stampa britannica in un momento in cui le prime informazioni su quel piano stavano iniziando a trapelare. Thatcher, insomma, temeva più la titolazione e gli editoriali dei tabloid popolari piuttosto che gli scioperi e il malcontento dei britannici. Questo dicono ora commentatori e giornalisti, ma rimane comunque una storia dei “se” che la Lady di Ferro, ormai poco presente a se stessa, non potrà mai più confermare o smentire.

Il primo mandato governativo dei tre fu quindi, si arriva a scoprire ora, il più potenzialmente esplosivo. Gli scioperi nelle miniere, con lo scontro fra polizia e minatori, le grandi manifestazioni di massa e la guerra coi sindacati dovevano ancora arrivare e si sarebbero avuti solo due anni più tardi. Ma rendere scuole pubbliche e servizio sanitario sempre pubblico a pagamento avrebbe forse fatto sollevare la popolazione britannica come mai forse si era visto al di qua della Manica. Questo temevano ministri e sottosegretari di quel governo ed è per questo che quel 9 settembre, in consiglio dei ministri, ci fu quasi un “riot”, come scrive ora la stampa, e cioè un “tumulto”. Che Thatcher e il suo cancelliere fossero affascinati dagli Stati Uniti d’America era cosa ormai nota. Ma che gli stessi avessero proposto di rendere il Regno Unito un avamposto statunitense in Europa, questo era ancora ignoto ai più. Il cancelliere dello scacchiere, nel luglio del 1982, scrisse al primo ministro: “Non dobbiamo farci spaventare da certe idee, come ad esempio quella di una impossibilità del cambiamento. Dobbiamo prendere decisioni strategiche, che cambieranno il corso del prossimo mandato parlamentare e della storia britannica”. Oggi, nel Regno Unito, molti tirano un sospiro di sollievo. E scuole pubbliche e sanità “universale” continuano a essere un vanto di molti britannici.

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Qualche considerazione:
1) Margaret Thatcher è l'incarnazione vivente della peggio politica del continente europeo, la morte di quella puttana verrà sempre troppo in ritardo sui tempi;
2) Il Regno Unito non è avamposto statunitense in Europa, ma baluardo capitalista nel mondo (la cultura inglese è corroborata d'imperialismo e classismo, sarebbe bello che la stampa una volta ogni tanto ne prendesse limpidamente atto);
3) il taglio viscidamente borghese con cui il giornalista del Fatto ha intavolato l'articolo, oltre che vomitare mi fa pensare malissimo, perché questi sono i medesimi strumenti comunicativi che tanto piacciono ai tecnici del rigore e dell'austerità. Guarda caso Monti s'è espresso negativamente sulla sostenibilità economica del sistema sanitario nazionale giusto qualche giorno fa (raccontando per altro l'ennesima sola come ho avuto modo di riportare qui).

Internet, gli Usa contro le regole

Di solito non sono mai d'accordo su niente, ma stavolta si sono prodotti in una votazione alla bulgara. Nel Congresso degli Stati Uniti, Democratici e Repubblicani hanno votato all'unanimità contro il progetto di affidare alle Nazioni Unite il controllo di internet. La Camera (repubblicana) si è espressa con 397 voti contrari e nessuno favorevole. Un verdetto analogo era arrivato a settembre dal Senato (democratico).

Che i due rami del Congresso raggiungano un accordo di proporzioni simili è davvero un evento prodigioso, soprattutto perché in questi giorni Washington è paralizzata da una delle crisi politiche più gravi degli ultimi anni (quella sul "fiscal cliff", il precipizio fiscale, che rischia di mandare in rosso il Pil americano del 2013).

Quale straordinario evento può aver mai prodotto un simile livello di concordia? In realtà il verdetto della politica americana ha essenzialmente un valore simbolico e politico, dato che le stesse Nazioni Unite riconoscono di non poter imporre unilateralmente ai singoli Paesi regole o procedure sull'uso di internet. Prima del voto, tuttavia, il repubblicano Greg Walden ha ribadito la "necessità d'inviare un segnale forte del Congresso sull’impegno americano per un web non regolamentato", contro gli interessi di Paesi come Russia e Cina, che "cercano di manipolare il controllo della rete".

La questione però è spinosa, perché chiama in causa interessi contrastanti. I fronti sono almeno tre: gli utenti del web, che hanno diritto a navigare nel modo più libero possibile; i mastini delle corporation telematiche, che vedono qualsiasi regolamentazione del mercato come un possibile ostacolo alla loro capacità di produrre utili; i paesi (più o meno) autoritari, interessati a favorire accordi che consentano un maggior controllo sulle attività della rete.

La proposta bocciata dagli Stati Uniti prevedeva di affidare la gestione del web all’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu, nell'acronimo inglese), ovvero l’agenzia dell’Onu che si occupa di tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Non è un caso che proprio negli ultimi giorni sia andato in scena a Dubai un gigantesco summit dell'Itu, che per la prima volta doveva aggiornare il trattato internazionale sulle regole in materia di telecomunicazioni (testo siglato ormai nella preistoria del 1988).

Erano presenti i delegati di tutti i 193 Stati membri dell'Onu (un conteggio da cui rimane esclusa la Palestina, da poco assurta allo status di "osservatore"). Per tenere sotto controllo la situazione, gli americani avevano inviato anche rappresentanti del Congresso e della Federal Communications Commission. Non poteva mancare, naturalmente, un avamposto di Google e degli altri colossi internettiani, compresi alcuni padri della rete come Vinton Cerf e Bob Kahn.

In sostanza, la contrapposizione fondamentale è fra due schieramenti: da una parte chi si oppone a qualsiasi regolamentazione nel nome della libertà assoluta; dall'altra i Paesi favorevoli alla centralizzazione della gestione, la quale, pur facilitando la prevenzione di abusi e malfunzionamenti, favorisce inevitabilmente anche chi punta al controllo delle comunicazioni. Com'è ovvio, Hamadoun Toure, direttore dell'Itu, ha negato che ad essere in discussione fosse il principio di libertà che da sempre caratterizza la rete.

Il problema è che l'Unione non ha il potere di centrare il vero obiettivo della questione. Non è infatti internet in quanto tale ad aver bisogno di nuove regole, ma il mercato multimiliardario che su di essa si è generato. Se davvero la comunità internazionale avesse a cuore la libertà degli utenti, cercherebbe di arginare il potere assoluto dei pochi giganti che dominano il campo da gioco.

Si potrebbe iniziare stabilendo delle regole per evitare i cartelli e gli abusi di posizione dominante, per poi passare a una regolamentazione della pubblicità. In particolar modo di quella "personalizzata", che si fonda su una sistematica e impunita violazione della privacy di milioni di utenti, la cui attività in rete viene tracciata ogni giorno a loro insaputa.

L'Itu invece ha approvato un nuovo standard unico e vincolante per la Dpi, ossia la Deep Packet Inspection (ispezione profonda dei pacchetti), una tecnica per analizzare nel dettaglio il traffico in circolazione.

L'obiettivo ufficiale è di migliorare la gestione e quindi i servizi offerti agli utenti. Lodevole proposito. Peccato che da oggi i magnati delle telecomunicazioni potranno usare la Dpi per suddividere il traffico e imporre prezzi variabili a proprio piacimento.

Secondo il Center For Democracy and Technology, inoltre, l’impiego diffuso della Dpi consentirà d'ispezionare qualsiasi genere d'informazioni, il tutto senza che nessuno si sia preoccupato di accompagnare a questa innovazione una più stringente politica sulla privacy. E indovinate un po' da chi è partita l'idea? Nemmeno a dirlo, da Pechino.

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28/12/2012

Gli arancioni: che fare?

A quanto pare la lista arancione ci sarà, ma le cose non sono affatto semplici. Conosco molti dei promotori della lista, a cominciare da Antonio Ingroia di cui sono stato consulente e con il quale ho sempre mantenuto un ottimo rapporto personale; per di più, nella lista confluiscono gruppi e forze politiche che sono una parte significativa della mia vita militante, la cultura politica di molte componenti è sicuramente quella più vicina a me, per cui  ho ottime ragioni per guardare con simpatia a questa aggregazione ed augurarle il miglior successo possibile. Sfortunatamente temo che i miei auguri siano destinati ad essere disattesi: spero che la lista riesca ad entrare in Parlamento ma temo fortemente  che la partita sia gravemente compromessa.
In primo luogo mi pare una sorta di adunata dei refrattari, che mette insieme genuini tentativi di rinnovamento politico con il riciclaggio di vecchi apparati, il tutto nel segno della massima disomogeneità politica, salvo l’atto di fede nel condottiero. Messa così, sembra che anche gli arancioni abbiamo trovato il loro Uomo della Provvidenza…

Capisco che quando si assembla una cosa così confusa ed affrettata ci voglia un nome di richiamo per attirare gli elettori, ma qui il rischio è che il nome faccia da foglia di fico alla nudità programmatica dell’operazione. Ingroia, peraltro, ci mette del suo. Proprio perché gli sono amico mi permetto di parlare in questo modo (che peraltro è l’unico che conosco, non essendo abituato a fare sconti a nessuno): sta esagerando a fare il prezioso. Ha già perso troppo tempo a dire “forse si forse no. Ora mi consulto”. A questo punto, peraltro, che altra scelta avrebbe? Tornare a fare il magistrato, come se niente fosse, dopo essere stato il quasi candidato alla Presidenza del Consiglio di uno schieramento politico? La vedo un po’ dura. Poi, personalmente non sono d’accordo con la sua tesi del diritto del magistrato a fare politica militante e candidarsi. Beninteso: Ingroia e De Magistris sono solo gli ultimi di una lunghissima serie diventata alluvione dopo il 1994 sia a sinistra sia a destra. So che la Costituzione non prevede nulla in proposito, ma a me non farebbe nessun piacere essere indagato da un Pm che è stato capolista di Forza Nuova o del partito di La Russa, ed allora perché  un cittadino con simpatie di destra dovrebbe gradire un pm che ha capeggiato una lista di sinistra? Non è una cosa contra legem ma un minimo di senso dell’opportunità suggerirebbe un comportamento diverso.

E meno che mai mi convince che un quasi candidato che ancora non sa se si o no, proponga un suo decalogo. Come dire “Se mi volete, questa è la vostra linea politica”, cos’è? L’Agenda Ingroia?!

Però è anche vero che questo melange di relitti di naufragio (Rifondazione, Pdci, Idv, forse Verdi ecc.), di micro movimenti ed associazioni di Lilliput, politicamente non esprime nulla. Che idea di società ha? Che analisi della crisi? Che proposte sull’economia e la finanza? Zero, più Zero, più Zero, nella speranza che la somma faccia qualcosa.

Insomma quando Fassina dice “non abbiamo capito che pesci siete”, non è che abbia tutti i torti. E così l’unica cosa che mette d’accordo tutti è la lotta alla Mafia. Non che il tema non sia importante (e non credo che nessuno possa accusarmi di essere poco sensibile alla questione), ma non è l’unico e nemmeno il primo in ordine di importanza, vogliamo dircelo?

Poi questa cosa così abborracciata, all’ultimo momento non promette bene: siamo a 59 giorni dal voto e non sappiamo né che nome avrà, né che simbolo, né quale è il programma, né chi saranno i candidati e tantomeno come saranno scelti o come funzionerà questo polpettone il giorno dopo le elezioni. Non sappiamo neppure se il polo sarà indipendente da quello del Pd per propria scelta o perché è il Pd a non volere arancioni fra i piedi.

Mi sembra una riedizione minoritaria e peggiorata dell’Arcobaleno anzi, per essere sincero, mi ricorda troppo da vicino l’infelicissima esperienza di Nuova Sinistra Unita (e chi ha vissuto quell'esperienza sa cosa sto dicendo). Per di più, con questo sistema elettorale, l’operazione è molto ardua: se gli arancioni si apparentano con la coalizione Pd, gli basterebbe il 2% per entrare in Parlamento, ma rischierebbero di perdersi per strada la metà dei già radi consensi, se stanno fuori, fanno il pieno, ma devono raggiungere il 4%.

Insomma: probabilmente li voterò, ma con molto scetticismo sulla riuscita.

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Non so chi legge, ma io con ste premesse scricchiolanti sotto i piedi (arancioni, Movimento 5 Stelle ecc.) mi sento sempre più attratto dall'astensione.
Perché la domanda, alla fine dei giochi, è una sola: a che pro votare sta gente? La risposta "per il voto utile" ovviamente non è contemplata.

Usa. L'abisso incombe

Il presidente americano Obama ha convocato per oggi pomeriggio alla Casa Bianca i leader del Congresso, tra cui lo speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, nel nuovo tentativo di trovare un accordo sul piano di riduzione del deficit entro il prossimo 31 dicembre ed evitare il cosiddetto "fiscal cliff", vale a dire l'aumento automatico di tasse e tagli alla spesa pubblica che scatterà a gennaio salvo un accordo sul debito.
L'espressione fiscal cliff, ovvero “abisso fiscale”, è entrato nel linguaggio economico e politico dalla fine del 2010 ed è stata rilanciata con forza a fine febbraio 2012 da Ben Bernanke presidente della Federal Reserve. Parlando alla Camera, Bernanke affermò che «un profondo baratro fiscale fatto di grossi tagli di spesa e aumenti di tasse» avrebbe colpito il paese se la politica non disinnescava il rischio, accordandosi dove tagliare la spesa e dove aumentare le imposte. Il fiscal cliff era stato allora inserito da pochi mesi nel sistema in base al Budget Control Act dell'agosto 2011. Il trattato prevedeva che se una commissione mista del Congresso non fosse riuscita a ridurre il deficit di 1.200 miliardi in dieci anni entro il novembre 2011, sarebbero scattati a partire dal 1° gennaio 2013 tagli automatici di spesa e aumenti automatici di tasse, con la fine delle riduzioni fiscali introdotte da Bush junior del 2001-2003 e varie altre misure. Se ciò dovesse realizzarsi salterebbero, tra più tasse e meno spesa, 600 miliardi per l'economia statunitense nell'anno fiscale 2013, un pratica una recessione assicurata.

Proprio ieri Obama era rientrato a Washington con qualche giorno d'anticipo dalla sua vacanza natalizia alle Hawaii per mettersi al lavoro e cercare di trovare un'intesa che eviti il baratro fiscale: a gennaio.

Il Segretario del Tesoro Usa Tim Geithner, in una missiva inviata in questi giorni al Campidoglio ha già annunciato che il Dipartimento attuerà presto delle ''misure straordinarie'' per arginare il default economico.
La mossa, che prevede tra l'altro la sospensione del reinvestimento dei contributi pensionistici dei lavoratori federali, consentirebbe di rinviare per un breve periodo il rischio di un collasso assicurando un margine di manovra di 200 miliardi extra. Il 21 dicembre scorso lo speaker della Camera, John Boehner,è stato costretto a ritirare il suo cosiddetto piano di riserva contro il fiscal cliff in seguito al mancato sostegno alla manovra degli stessi parlamentari repubblicani. La mossa prevedeva un aumento della pressione fiscale soltanto per gli americani che guadagnano oltre un milione di dollari l'anno (in pratica solo lo 0,3% della popolazione), una concessione notevole visto che il piano originario prevedeva di aumentare le tasse a quelli che guadagnavano più di 250mila dollari l'anno.
Il Dipartimento del Tesoro americano sta preparando misure ''straordinarie'' per evitare che il debito pubblico superi il livello di 16.394 miliardi di dollari (più di otto volte il debito pubblico italiano), una quota che potrebbe far precipitare il paese nel default. Per domenica prossima è stata convocata una sessione straordinaria del Congresso Usa.

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Siria. Grandi manovre sulla sorte di Assad

La Russia invita i ribelli e Brahimi a colloquio. I giornali turchi e israeliani parlano di una richiesta di asilo politico avanzata da Assad al Venezuela.

Il ministero degli esteri russo ha invitato il capo della Coalizione dei ribelli siriani, Ahmad Muaz al Khatib, a partecipare a negoziati per risolvere il conflitto siriano. Lo ha annunciato questa mattina all'agenzia russa Ria-Novostoi il vice ministro degli Esteri russo, Mikhail Bogdanov, precisando che l'incontro potrebbe tenersi direttamente a Mosca o fuori dalla Russia, per esempio a Ginevra o al Cairo. Mosca avrebbe invitato a colloquio anche il negoziatore speciale dell'Onu sulla Siria, Brahimi. La Russia invece ha smentito le indiscrezioni, circolate nei giorni scorsi sulla stampa internazionale, sull'esistenza di un accordo tra Russia e Stati Uniti che avrebbe consentito ad Assad di restare al potere fino al termine del suo mandato nel 2014, ma senza la possibilità di ricandidarsi. Secondo il giornale turco Aksam, il presidente siriano Assad e i suoi familiari avrebbero chiesto asilo politico al Venezuela. Il quotidiano turco ha rivelato che funzionari di Ankara hanno recentemente visitato il ministero degli Esteri venezuelano, confermando l'esistenza di una lettera da Damasco per chiedere asilo politico per i familiari del dittatore. Nelle settimane precedenti era stato il giornale israeliano Haaretz a sostenere che Assad si stava muovendo per cercare rifugio in Venezuela, dopo un viaggio in diversi Paesi sudamericani del viceministro degli Esteri al Mokdad, che avrebbe portato a Chavez una lettera del suo presidente.
L'Iran intanto ha cominciato oggi sei giorni di esercitazioni navali nello stretto di Hormuz, volte a dimostrare le sue capacità militari nella strategica rotta di passaggio di gas e petrolio. Lo riferisce l'agenzia ufficiale iraniana Irna.

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L'agenda Grillo

Un non eletto, che non partecipa alle elezioni con l'obiettivo di farsi rieleggere, lascia, da assoluto impunito, la sua Agenda in eredità al prossimo governo, nel caso non sia ancora lui presidente del Consiglio. Non scende in campo, ma sale in politica, ascende al Cielo. Non è stato sfiduciato dal Parlamento, ma si è sfiduciato da solo. E' un fenomeno della autoreferenzialità estrema, un energumeno anticostituzionale, un presuntuoso che non ammette lo sfascio economico di cui è diretto responsabile. Non si è mai visto in una democrazia che ci si candidi alla guida di una Nazione con la pretesa di non partecipare alle elezioni e che si imponga il programma ai successori al pari delle Tavole della Legge di Mosè. Il programma di Rigor Montis, nel caso il M5S riesca a partecipare alle elezioni e le vinca (perché porsi limiti?) diventerà carta straccia con buona pace dei suoi sostenitori Casini e Fini. Del doman non v'è certezza, ma con altri cinque anni di montismo e della sua agenda c'è l'assoluta sicurezza del fallimento economico senza ritorno dell'Italia. L'Agenda Grillo (un estratto dal Programma del M5S e delle proposte discusse nel forum e nel blog) dà molta più fiducia:

1 - Legge anticorruzione
2 - Reddito di cittadinanza
3 - Abolizione dei contributi pubblici ai partiti (retroattivi da queste elezioni)
4 - Abolizione immediata dei finanziamenti diretti e indiretti ai giornali
5 - Introduzione del referendum propositivo e senza quorum
6 - Referendum sulla permanenza nell'euro
7 - Obbligatorietà della discussione di ogni legge di iniziativa popolare in Parlamento con voto palese
8 - Una sola rete televisiva pubblica, senza pubblicità, indipendente dai partiti
9 - Elezione diretta dei candidati alla Camera o al Senato
10 - Istituzione di un politometro per la verifica di arricchimenti illeciti da parte della classe politica negli ultimi vent'anni
11 - Massimo di due mandati elettivi
12 - Legge sul conflitto di interesse
13 - Misure immediate per il rilancio della piccola e media impresa sul modello francese
14 - Ripristino dei fondi tagliati alla Sanità e alla Scuola pubblica con tagli alle Grandi Opere Inutili come la Tav
15 - Informatizzazione e semplificazione dello Stato
16 - Accesso gratuito alla Rete per cittadinanza
Questo e altro ancora nel futuro degli italiani. Si volta pagina. Loro non si arrenderanno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.

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Lo scrivo con amarezza ma è davvero poca, pochissima roba e soprattutto idealmente abbozzata e priva di qualsivoglia pragmatismo politico.
Così non ci siamo.

Pd, Bersani presenta il candidato Piero Grasso: “Per una riscossa civica”

“Moralità e legalità per una riscossa civica. Queste due linee guida per il nostro futuro hanno convinto Piero Grasso a correre con noi”. Così Pierluigi Bersani esordisce nella conferenza stampa di presentazione della candidatura del procuratore antimafia per le prossime elezioni politiche nella sede romana del Pd, spiegando che ha convinto il magistrato durante un colloquio del 17 dicembre, durante l’incontro istituzionale per gli auguri di Natale al Capo dello Stato.

Grasso ha poi preso la parola per spiegare le ragioni della sua scelta: “Ho detto no, in passato, a molti incarichi e ho continuato a fare il magistrato per 43 anni. Ma nel corso degli anni, soprattutto dopo gli incontri sulla legalità con i giovani, ho capito che bisogna dare delle risposte, che è necessario rappresentare le proprie idee. Potevo restare nella magistratura fino al 2020, ma volevo entrare in politica da cittadino, non da magistrato. E, per coerenza, ho dato le dimissioni. Il Pd mi ha offerto un’occasione democraticamente valida, anche perché questo partito con le primarie supera una legge elettorale che tutti criticano ma nessuno cambia. Questa è la mia nuova casa, qui mi trovo bene”.

Nella seconda parte del suo intervento Grasso è entrato nello specifico delle sue idee: “Non voglio usare espressioni come ‘salite’ o discese’. Il mio impegno è prendere la mia esperienza e portarla in politica. Il mio progetto è rivoluzionare il sistema della giustizia. Non ci può essere un illusionista che tira fuori dal cilindro promesse che non possono essere mantenute”.

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Dopo Ingroia ci voleva anche Grasso...
Trovo che la corsa alle elezioni stia assumendo sempre più i connotati della Wacky Races, ovvero roda da circolo dei buffoni.
In questo ridicolo carosello diventa facile comprendere come Berlusconi sti agendo da cartina di tornasole per la ri-aggregazione del sistema politico italiano intorno a un modello rimasticato di bipolarismo, che contempla lo schieramento dei rigoristi che hanno trovato in Monti il proprio messia (da Fini a Casini passando per Ichino) e una sinistra ormai appittita sul modello socio economico dominante la cui carta elettorale prevalente è quella d'una legalità che ben si guarda dal porre in cima ai propri obiettivi la giustizia sociale.

27/12/2012

Don't care


Lo sviluppo, un'allucinazione di massa


evoluzione3Lʼimpronta ecologica è un elemento importante che da una misura dellʼinterferenza umana su un processo biologico che nel tempo compie dei mutamenti, quindi si trasforma. Lʼuomo che vive d'idee, contrariamente al resto della materia, ha la libertà di gestirla e negli ultimi secoli l'ha fatto in maniera massiccia. Con lʼuso del fuoco iniziarono le prime fusioni e visto che la materia prendeva altre forme, con la stessa concezione lʼuomo ha proceduto cambiando però le quantità e le applicazioni.
Sviluppo, consumo, materiali di scarto. 
Molti bisogni materiali sono stati soddisfatti e nel tempo il lavoro si è specializzato con effetti positivi incredibili che effettivamente dobbiamo riconoscere migliorativi della nostra condizione iniziale, dove lʼidea s'esprimeva semplicemente attraverso comportamenti che appena si distinguevano da quelli dei nostri compagni animali. Poi, col tempo la nostra strada si è allontanata sempre più, portandoci spesso a demonizzare la natura dalla quale volevamo difenderci. Abbiamo dato modo a molti di noi di usufruire di questi vantaggi spesso scordandoci di alcuni miliardi di nostri simili che come un tempo tentano fusioni e cercano lʼacqua con un fiuto animale. Noi che abbiamo superato velocità di spostamento oltre i mille chilometri orari ci ritroviamo annoiati, sovrappeso e non vogliamo condividere con gli altri la nostra ricchezza. Abbiamo speso tante energie per arredare in maniera sempre migliore le nostre case dimenticandoci che la casa è un rifugio notturno più che un mondo che si autonomizza. Abbiamo ricercato un contatto filtrato con il resto dei nostri simili attraverso tv e radio che possiamo accendere e spegnere o cambiare nei relativi canali a secondo del nostro stato dʼanimo.

Va bene ci siamo divertiti ma quanto ci è costato? Siamo felici? Lo sviluppo cosa dovrà essere? 

Iniziamo dal valutare i rifiuti che ormai è un aspetto che tutti conoscono, non ci sono più alibi. Tutti noi sappiamo che la spazzatura dopo il cassonetto segue delle linee di gestione particolari per cui è arrivato il tempo di capire se di quella spazzatura ce ne liberiamo veramente. Lo stesso per il rilascio di inquinanti del sistema industriale e della mobilità. Molti di noi sanno che una buona parte di quegli elementi non costitutivi per il nostro corpo pian piano ritornano dentro di noi e dentro le nostre case.
Pensiamo poi alla nostra felicità. Siamo contenti e se non lo siamo cosa possiamo fare? Un uomo che non è contento e soddisfatto, a cui nessuno ha mai chiesto cosa gli piacesse fare, come può contribuire al miglioramento della propria condizione e quindi della sua specie?
Siamo ugualmente molto bravi perché tra guerre e contrasti razziali cʼè sempre chi antepone lʼamore ad ogni altro interesse. Cʼé chi lavora specializzando il proprio lavoro con una mentalità che continua a tener conto di tutto il resto. Cʼè appunto chi riesce a collocarsi dandosi ancora più coraggio e trovando stimoli migliori.
Lʼimpronta ecologica dovrà divenire un riferimento importante sostituendo spread e pil nellʼarco di un breve periodo altrimenti saremmo in una fase temporale troppo avanzata per risvegliarci da un'allucinazione di massa che è durata oltre il dovuto.

per Senza Soste, Jack RR

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Templi dello shopping o nuove fabbriche metropolitane?

Un'interessante analisi-inchiesta della Usb sui centri commerciali e sul come la grande distribuzione ridisegna modelli urbani, relazioni sociali e sindacali.


I centri commerciali hanno ridisegnato, in pochi anni, i costumi sociali, le condizioni di lavoro e la struttura architettonica della nostre città. Hanno di fatto sostituito le piazze attraverso le quali si  connetteva il tessuto sociale di un quartiere disgregando le relazioni umane e la protezione sociale che una piazza favorisce. Nell’antica Grecia la piazza – Agorà – era il luogo simbolo della democrazia del paese, dove si riuniva l’assemblea della polis per discutere e prendere le decisioni politiche. I centri commerciali sostituiscono il senso delle piazze con una traduzione consumistica priva di qualsiasi scambio umano che non sia mediato dal denaro. Si tratta di autentici non luoghi dove i soggetti sociali si incontrano senza interagire, dove il prossimo è visto come colui che ti sottrae un parcheggio o ti scavalca nella fila alla cassa, dove vigono regole non scritte che trasformano questi ecomostri in strane “repubbliche” del consumo, video sorvegliate, transennate, con guardie private armate ad ogni angolo e dove ogni cittadino può ingannevolmente sentirsi ricco consumatore, ma dove in realtà è prigioniero inconsapevole.

Un esempio, il più recente nella città di Roma, è EUROMA2, gigantesco centro commerciale edificato all’EUR nell’area del Castellaccio (una delle centralità urbane previste dal piano regolatore), sessanta ettari di terreno di proprietà del costruttore Parnasi. Il centro commerciale è solo una parte della pianificazione urbanistica di quest’area; nel 2003 il Comune di Roma ha assegnato il Castellaccio alla Parsitalia S.p.A. come compensazione edilizia del parco Volusia (nel parco Veio) e Pratone delle Valli a Montesacro. Il progetto urbanistico è il frutto avvelenato di un “accordo di programma” che porta la firma congiunta di Veltroni e Storace, allora rispettivamente sindaco di Roma e presidente della Regione Lazio. Il “Business Park” prevede inoltre, per un totale di 800 mila metri cubi, due grattacieli progettati dall’architetto Purini. Tra le due torri, una piazza sul modello della Défense di Parigi che dovrebbe ospitare sculture, ristoranti, bar e negozi. Infine 70 mila metri cubi di case private, verso Spinaceto. Ovviamente la società che ha realizzato EUROMA2, Imef S.p.A., è sempre del gruppo Parnasi, mentre la gestione è affidata alla Scci, Sociètè del centres commerciaux Italia S.r.l. Qualche mese prima dell’inaugurazione la ex Presidente del Municipio XII, Patrizia Prestipino, annunciava il programma “Obiettivo occupazione”, un protocollo d’intesa che prevedeva le priorità d’assunzione per i disoccupati residenti nel Municipio XII: nel giro di pochi mesi, decine di esercizi commerciali hanno sospeso le attività per irregolarità nella gestione del personale.

Dietro questo proliferare di centri commerciali si nasconde spesso l’attività speculativa di grandi gruppi finanziari e la presunta infiltrazione del potere mafioso. La Corte dei Conti ha pubblicato una relazione dedicata alla criminalità organizzata che non ha avuto la dovuta rilevanza sui giornali e in televisione. Tale relazione rileva che centri commerciali e case sono le nuove frontiere della mafia. Infatti, le attività economiche in cui la criminalità organizzata investe con maggior frequenza sono quelle “edilizie, immobiliari, commerciali e la grande distribuzione”. Il commercio, in particolare il franchising che coinvolge le grandi marche, consente alle organizzazioni criminali di procedere all’apertura di esercizi commerciali spesso a nome di soggetti terzi compiacenti non immediatamente riconducibili ad esponenti della criminalità. In questo modo, le mafie riescono a controllare l’intero processo che va dalla costruzione delle strutture al loro sfruttamento con la vendita dei beni, permettendo il riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite. L’infiltrazione della criminalità organizzata nell’attività edilizia e commerciale è favorita anche da una scorretta progettazione urbanistica che si fonda su un modello di sviluppo incontrollato. Frutto di questo genere di progettazione è anche il piano regolatore della nostra città che, ad esempio, per quello che riguarda le attività commerciali oltre a consentire già adesso l’edificazione di nuove strutture commerciali, prevede che altre ampie aree possano essere utilizzate nello stesso modo.

Non di secondo piano è il problema del reddito: le grandi centrali di acquisto che riforniscono le catene della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) dovrebbero fungere da strumento di «razionalizzazione e programmazione delle forniture», in realtà sono un vero e proprio cartello dei prezzi che scarica i suoi effetti sul salario e sulle condizioni di lavoro (in tutto il ciclo dalla produzione, al trasporto fino alla distribuzione) e sui prezzi al consumo. A conferma di ciò l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha deciso di volerci vedere più chiaro sulla dinamica di formazione dei prezzi come sui rapporti e le condizioni contrattuali praticate dalle centrali di acquisto nei confronti delle imprese che forniscono i prodotti. Semplificando: la distorsione all’interno della filiera agroalimentare crea sperequazione e aberrazioni tangibili con un sicuro beneficio economico solo per le multinazionali, mentre gli agricoltori hanno visto diminuire i loro margini al punto tale che sempre più spesso non gli conviene più raccogliere ad esempio la frutta, dal momento che il costo del lavoro della sola raccolta è già superiore per unità di prodotto al prezzo pagato loro dalle centrali di acquisto; si sviluppano forme di caporalato che portano ai casi di Rosarno in Calabria o di Nardò in Puglia, dove migliaia di migranti sono resi schiavi negli agrumeti. Il risultato di questa filiera agroalimentare dominata dalla GDO è un prezzo d'cquisto al consumo portato alle stelle, con ripercussioni sui cittadini che pagano l’ennesimo inaccettabile prezzo della crisi.

Altro problema rilevante è la completa deregolamentazione degli orari delle attività commerciali che non porterà alla crescita economica, ma solo all’inasprirsi di una crisi che già da diverso tempo sta affliggendo il commercio, aggiungendo un ennesimo tassello al puzzle di precarietà, basso salario, difficoltà nella vita di relazione e degli ormai pochissimi diritti per oltre due milioni di lavoratori del settore. L’aumento delle grandi superfici commerciali sommato all’apertura ventiquattro ore al giorno e per tutto l’anno non sarà sostenibile per le piccole e medie imprese, che capitoleranno nei confronti della GDO e l’innalzamento dei costi di gestione delle strutture sarà inevitabilmente scaricato sul costo del lavoro e sui consumatori, visto che gli altri costi (come l’energia, le merci, i trasporti), sono più o meno uguali per tutti. In sostanza a pagare saranno, come al solito, i lavoratori del settore e i cittadini in favore dei profitti delle grandi multinazionali del commercio e della lega delle cooperative che, come se non bastasse, puntano a fare ulteriore profitto non più solo sul lavoro, ma sul cliente finale, attraverso ad esempio le pesature di prodotti fatte dal cliente stesso o l’automatizzazione delle casse, che sottraggono ulteriori posti di lavoro.

La repressione del dissenso sindacale nei centri commerciali del terzo millennio ricalca quella del secolo scorso nelle fabbriche, ha la stessa natura violenta ma dispone di tecnologie di controllo evolute. L’organizzazione del lavoro rispecchia quella delle istituzioni totali (carceri, manicomi, caserme), passa cioè per l’organizzazione formale e centralmente amministrata del luogo e delle sue dinamiche interne ed il controllo operato dall’alto sui soggetti-membri.

Di seguito alcune testimonianze che completano la nostra analisi:

Lavoratrici Coop scrivono a Luciana Littizzetto nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne

Intervista a Beatrice (nome di fantasia), cassiera Ipercoop in provincia di Torino

Leroy Merlin: "Storia di una cassiera ferita"

La cassiera di Panorama ed il «diritto alla pipì»

Carrefour, per le cassiere pipì solo ogni quattro ore

Il lavoro violato nella multinazionale Lidl

Un'addetta alle vendite ci racconta una catena di discount tedeschi

Un caporeparto denuncia condizioni da medioevo

Lettera di un dipendente DOC* Roma (UNICOOP FIRENZE): "DOC* Roma: la vergogna di Unicoop Firenze"

"La solitudine delle cassiere". Intervista a Dorothée Ramaut, medico del lavoro in un ipermercato di Parigi

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