Lacrime di coccodrillo”: così la Camusso ha definito il rammarico della
Fornero perché la sua controriforma “non è condivisa da tutti”, cioè
perché qualcuno ancora si ostina a non pensarla come lei. Non sappiamo
se madama Fornero sia un coccodrillo. Ma, se lo è, trattasi di esemplare
nuovo, geneticamente modificato: il coccodrillo che piange prima. Il 18
dicembre, un mese dopo le sue lacrime in favore di telecamera, la
Fornero disse al Corriere: “L’articolo 18 non è un totem” (forse voleva
dire tabù). Poi, di fronte alle prevedibili polemiche, ingranò la
retromarcia: “Non avevo e non ho in mente nulla che riguardi in modo
particolare l’art. 18. Sono stata ingenua, i giornalisti sono bravissimi
a tendere trappole. Vogliamo lasciarlo stare questo art. 18? Io son
pronta a dire che neanche lo conosco, non l’ho mai visto”. L’ 8 gennaio
Monti smentì la retromarcia: “Niente va considerato un tabù. In questo
senso il ministro Fornero ha citato l’art. 18”. Il 30 gennaio la Fornero
smentì la smentita: “L’art. 18 non è preminente, ma non dev’essere un
tabù”. E via a sproloquiare sul “modello tedesco”: quello che prevede
l’intervento del giudice per ogni licenziamento. Invece la controriforma
Fornero esclude dal reintegro giudiziario i licenziamenti per motivi
economici, anche se camuffano quelli disciplinari e discriminatori. È
così, tra una bugia e l’altra, che s’è svolta tutta la trattativa su un
non-problema, “non preminente”, “mai visto”: infatti alla fine l’art. 18
esaurisce praticamente l’intera “riforma del mercato del lavoro”. Il
resto è fuffa, anzi truffa. Monti dice che l’art. 18 frena gli
investimenti esteri. Ma l’ha subito sbugiardato persino il neopresidente
di Confindustria, Squinzi: “In linea generale non credo sia l’art. 18 a
bloccare lo sviluppo del Paese. Le urgenze sono altre: burocrazia,
mancanza di infrastrutture, costi eccessivi dell’energia, criminalità”.
Per Napolitano la “riforma è ineludibile per adeguarsi alla legislazione
dell’Europa”. Monti aggiunge che, se avesse stralciato l’articolo 18
dalla “riforma”, “l’Europa non avrebbe capito”. E allora perché l’Europa
capisce benissimo la Germania, che consente a ogni licenziato, per
qualunque motivo, di appellarsi al giudice che può decidere sempre fra
l’indennizzo e il reintegro? Sul Corriere, Ferruccio de Bortoli trova
“inquietanti” i “toni apocalittici di molti commenti” che “descrivono un
paese irreale”, “tradiscono una visione novecentesca, ideologica e da
lotta di classe, che non corrisponde più alla realtà della stragrande
maggioranza dei luoghi di lavoro. Dipingono gli imprenditori (che hanno
le loro colpe) come un branco i lupi assetati che non aspetta altro se
non licenziare migliaia di dipendenti”. Potrebbe chiedere informazioni
al suo principale azionista, la Fiat, che a Melfi ha cacciato tre
lavoratori solo perché facevano i sindacalisti e a Pomigliano richiama
al lavoro solo i cassintegrati non iscritti alla Cgil, facendo carta
straccia della Costituzione e dello Statuto dei lavoratori. Poi de
Bortoli violenta due volte la logica, usando i numeri bassissimi di
licenziati reintegrati per dimostrare che la controriforma dell’art. 18
non fa male a nessuno. È vero che “solo l’ 1 % delle pratiche di
licenziamento gestite dalla sola Cgil tra il 2007 e il 2011 è sfociato
in riassunzioni o reintegri”: ogni anno i giudici si occupano di 6 mila
licenziati e ne reintegrano solo 60. Ma questo dimostra l’opposto di
quel che vuol sostenere de Bortoli. E cioè: l’art. 18 è un argine
fondamentale contro i licenziamenti ingiusti, che con la controriforma
saranno molti di più; ed è falso che oggi i giudici impediscano alle
aziende di licenziare in caso di necessità. Ergo non c’è alcun motivo di
toccare l’articolo 18. E quanti lo vogliono stravolgere non sono mossi
da ragioni economico-produttive, cioè tecniche. Ma politiche o, come
direbbe de Bortoli, ideologiche. Ecco, per favore: ci risparmino almeno
le balle.
Fonte.
26/03/2012
Derivati: la verità che Monti (e nessun'altro) vuol dire
Lo Stato Italiano ha pagato a Morgan Stanley lo
0,15 per cento del proprio Pil per chiudere un
contratto derivato che era stato sottoscritto nel 1994 dal
ministero del Tesoro, quando
il direttore generale era Mario
Draghi. Di questa esorbitante
spesa sappiamo poco o nulla,
la risposta del governo all’interrogazione parlamentare
presentata dall’Idv chiarisce
un po' il quadro agli addetti ai
lavori, ma insinua il ragionevole dubbio che i conti dello
Stato siano “corretti” da 160
miliardi di contratti derivati.
La composizione complessiva del portafoglio di derivati della Repubblica italiana è uno dei segreti meglio custoditi della storia d’Italia, nessun governo di nessun colore politico ha negli ultimi venti anni comunicato al Parlamento o anche alla sola Commissione bilancio l’esatta esposizione finanziaria del ministero delle Finanze e le perdite o i guadagni relativi.
L’onerosa chiusura del contratto di swap con Morgan Stanley getta un’ombra sulle stesse dichiarazioni del governo in carica secondo il quale “In merito al valore di mercato del ‘portafoglio derivati’ della Repubblica italiana, si precisa che lo stesso è definito come il valore attuale dei flussi futuri scontati al presente e che varia continuamente al variare sia del livello dei tassi di mercato sia della conformazione della curva dei rendimenti. Appare evidente che lo stesso è, quindi, un valore in continuo mutamento, la cui rilevanza per uno Stato sovrano risulta essere limitata”.
La limitata rilevanza per lo Stato sovrano non sarebbe tale se all’interno dei contratti ci fossero clausole che stabiliscono un costo futuro certo che l’Italia si troverà a dover pagare nei prossimi mesi o nei prossimi anni. Spesso i derivati sono stati usati nella contabilità pubblica per aggirare i vincoli di bilancio europei, la Grecia è stato l’esempio più lampante ma i nostri enti locali non sono stati da meno, attraverso complicati contratti sono in molti ad aver posposto l’onere del debito al futuro liberando così risorse finanziarie da spendere nel presente. In sostanza gli enti pubblici occultano un prestito che viene loro erogato dalle banche internazionali e che non è contabilizzato come tale, la restituzione del prestito è scaglionata in un tempo lontano quando il derivato inizia a produrre i suoi effetti e il flusso di cassa relativo non può essere più occultato.
Dati i numerosi casi di questo tipo che coinvolgono Regioni, Province e Comuni italiani è lecito chiedersi se anche la Repubblica Italiana abbia contratto derivati di questo tipo. È inoltre lecito chiedersi se tali derivati non siano stati usati per coprire buchi di bilancio e far quadrare i conti rispetto alle regole imposte dall’Europa . Allo stato delle informazioni in possesso del Parlamento, dell’opinione pubblica e di tutti i cittadini italiani non possiamo sapere quali e quanti oneri saremo costretti a pagare, o stiamo già pagando alle banche internazionali per coprire la cattiva gestione del bilancio pubblico dei governi precedenti.
Il governo attuale sta chiamando tutti noi a sostenere grandi sacrifici in nome di un interesse pubblico superiore, ma la sua reticenza sullo svelare la struttura e la composizione del portafoglio di contratti finanziari della Repubblica italiana ci fa sorgere il dubbio che in realtà la maggior parte delle nostre tasse aggiuntive serviranno solo a coprire i buchi del passato che riemergeranno allo scadere delle clausole inserite dalle banche d’affari e sottoscritte dai governi precedenti. Se già questo non fosse abbastanza grave si aggiunga che il New York Times nel febbraio 2010 ha sostenuto che l’Italia è entrata nell’euro grazie a un massiccio uso di strumenti derivati che le hanno consentito di mascherare il vero deficit che sarebbe stato ben al di sopra di quello stabilito dall’Unione europea.
Il governo Monti dovrebbe sgonfiare sul nascere questa bolla di sospetti, tanto più pericolosa ora che la fiducia è un bene sempre più raro nella finanza internazionale.
Se, come sostiene il Tesoro, i derivati sono solo e tutti di “copertura dal rischio di tasso o dal rischio di cambio” non si vede perché l’opinione pubblica non ne debba conoscere la natura e la composizione. Se di coperture si tratta la speculazione internazionale non potrà beneficiare dell’informazione in quanto, per definizione, a una perdita da una lato dell’operazione dovrebbe corrispondere un simmetrico guadagno.
Se così non fosse sarebbero invece guai seri per il professor Monti. E per tutti i suoi predecessori.
Fonte.
La composizione complessiva del portafoglio di derivati della Repubblica italiana è uno dei segreti meglio custoditi della storia d’Italia, nessun governo di nessun colore politico ha negli ultimi venti anni comunicato al Parlamento o anche alla sola Commissione bilancio l’esatta esposizione finanziaria del ministero delle Finanze e le perdite o i guadagni relativi.
L’onerosa chiusura del contratto di swap con Morgan Stanley getta un’ombra sulle stesse dichiarazioni del governo in carica secondo il quale “In merito al valore di mercato del ‘portafoglio derivati’ della Repubblica italiana, si precisa che lo stesso è definito come il valore attuale dei flussi futuri scontati al presente e che varia continuamente al variare sia del livello dei tassi di mercato sia della conformazione della curva dei rendimenti. Appare evidente che lo stesso è, quindi, un valore in continuo mutamento, la cui rilevanza per uno Stato sovrano risulta essere limitata”.
La limitata rilevanza per lo Stato sovrano non sarebbe tale se all’interno dei contratti ci fossero clausole che stabiliscono un costo futuro certo che l’Italia si troverà a dover pagare nei prossimi mesi o nei prossimi anni. Spesso i derivati sono stati usati nella contabilità pubblica per aggirare i vincoli di bilancio europei, la Grecia è stato l’esempio più lampante ma i nostri enti locali non sono stati da meno, attraverso complicati contratti sono in molti ad aver posposto l’onere del debito al futuro liberando così risorse finanziarie da spendere nel presente. In sostanza gli enti pubblici occultano un prestito che viene loro erogato dalle banche internazionali e che non è contabilizzato come tale, la restituzione del prestito è scaglionata in un tempo lontano quando il derivato inizia a produrre i suoi effetti e il flusso di cassa relativo non può essere più occultato.
Dati i numerosi casi di questo tipo che coinvolgono Regioni, Province e Comuni italiani è lecito chiedersi se anche la Repubblica Italiana abbia contratto derivati di questo tipo. È inoltre lecito chiedersi se tali derivati non siano stati usati per coprire buchi di bilancio e far quadrare i conti rispetto alle regole imposte dall’Europa . Allo stato delle informazioni in possesso del Parlamento, dell’opinione pubblica e di tutti i cittadini italiani non possiamo sapere quali e quanti oneri saremo costretti a pagare, o stiamo già pagando alle banche internazionali per coprire la cattiva gestione del bilancio pubblico dei governi precedenti.
Il governo attuale sta chiamando tutti noi a sostenere grandi sacrifici in nome di un interesse pubblico superiore, ma la sua reticenza sullo svelare la struttura e la composizione del portafoglio di contratti finanziari della Repubblica italiana ci fa sorgere il dubbio che in realtà la maggior parte delle nostre tasse aggiuntive serviranno solo a coprire i buchi del passato che riemergeranno allo scadere delle clausole inserite dalle banche d’affari e sottoscritte dai governi precedenti. Se già questo non fosse abbastanza grave si aggiunga che il New York Times nel febbraio 2010 ha sostenuto che l’Italia è entrata nell’euro grazie a un massiccio uso di strumenti derivati che le hanno consentito di mascherare il vero deficit che sarebbe stato ben al di sopra di quello stabilito dall’Unione europea.
Il governo Monti dovrebbe sgonfiare sul nascere questa bolla di sospetti, tanto più pericolosa ora che la fiducia è un bene sempre più raro nella finanza internazionale.
Se, come sostiene il Tesoro, i derivati sono solo e tutti di “copertura dal rischio di tasso o dal rischio di cambio” non si vede perché l’opinione pubblica non ne debba conoscere la natura e la composizione. Se di coperture si tratta la speculazione internazionale non potrà beneficiare dell’informazione in quanto, per definizione, a una perdita da una lato dell’operazione dovrebbe corrispondere un simmetrico guadagno.
Se così non fosse sarebbero invece guai seri per il professor Monti. E per tutti i suoi predecessori.
Fonte.
L’ultimo viaggio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in Somalia e quell’ombra di Gladio
Un anno d’inchiesta “vecchio stile”, cercando conferme, incrociando fonti, analizzando migliaia di documenti. Un archivio di Gladio che si apre, con nuove esplosive piste su alcuni misteri d’Italia, ad iniziare dall’omicidio Alpi-Hrovatin. Il Fatto quotidiano
ricostruisce oggi in esclusiva la presenza a Bosaso, in Somalia, di
alcuni reparti “informali” della nostra intelligence il 14 marzo del
1994, quando Ilaria Alpi e Miran Hrovatin stavano preparando l’ultima
loro inchiesta. Un messaggio inedito partito dal comando carabinieri
presso il Sios della Marina militare di La Spezia definiva i due giornalisti “presenze anomale”, ordinando un “possibile intervento”.
Ilaria Alpi, l’ombra di Gladio
Sono le tre del pomeriggio a Bosaso, porto strategico del nord della Somalia. E’ un martedì di un mese di marzo che rimarrà scolpito nella storia italiana. E’ il 1994, anno indimenticabile. Il nostro esercito a Mogadiscio stava preparando la smobilitazione, lasciando al proprio destino il Paese che aveva dominato per anni. Prima come colonia, poi come protettorato, quindi come zona di influenza silenziosa, infine con l’Operazione Ibis, inserita nel più ampio intervento Onu “Restore Hope“, riportare la speranza. Mancavano pochi giorni alla fine di una guerra mascherata dall’etichetta dell’intervento umanitario, che per due anni ha accompagnato il periodo più oscuro del nostro Paese, stretto tra le stragi e le trattative sotterranee con il potere mafioso, con l’apparato politico ed economico messo sotto scacco dalle inchieste e dagli arresti. Solo quattro mesi prima di quel marzo del 1994 il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro aveva parlato di “un gioco al massacro”. Stragi, massacri, esecuzioni. Parole che hanno segnato gli anni oscuri della Repubblica, in un momento dove riappare l’ombra delle strutture riservate dei servizi, derivate – secondo alcuni documenti inediti – direttamente da Gladio.
Alle tre del pomeriggio del 15 marzo Ilaria e Miran erano seduti in un albergo non distante dal porto, registrando una delle ultime interviste della loro vita, al Sultano di Bosaso. “Perché questo è un caso particolare”, aveva annotato la giovane reporter del Tg3 su uno dei pochi block notes arrivati in Italia dopo la sua morte a Mogadiscio. Nei pochi minuti rimasti di quella intervista Ilaria parla di navi, chiede di un battello rapito, incalza il sultano cercando di capire i legami tra i traffici somali e l’Italia. Che stava accadendo in quel luogo, sperduto ma strategico? E’ la domanda chiave che potrebbe spiegare l’agguato mortale del 20 marzo 1994, quando i due giornalisti furono uccisi nelle strade di Mogadiscio.
Diciotto anni dopo, forse il muro impenetrabile che ha impedito di capire cosa rappresentava la Somalia per l’Italia nel 1994 inizia a mostrare qualche piccola breccia. Un documento inedito racconta una storia parallela, una trama che potrebbe incrociarsi con quel viaggio a Bosaso di Ilaria e Miran. E’ un messaggio dattiloscritto su un modulo militare, partito il 14 marzo del 1994 dal comando carabinieri del Sios di La Spezia, il servizio segreto della Marina militare sciolto nel 1997 e confluito prima nel Sismi e poi nell’Aise. Una comunicazione diretta a un maggiore in servizio a Balad, sei giorni prima dell’ammaina bandiera e dell’evacuazione delle nostre truppe: “Causa presenze anomale in zona Bos/Lasko (Bosaso Las Korey, nda) ordinasi Jupiter rientro immediato base I Mog”. Presenze anomale, a Bosaso. Quel 14 marzo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano appena arrivati nella città al Nord della Somalia, zona dove i due giornalisti non potevano passare inosservati. E’ di loro che si sta parlando? Con ogni probabilità sì, è difficile formulare altre ipotesi. “Ordinasi spostamento tattico Condor zona operativa Bravo possibile intervento”, prosegue il messaggio. Che stava accadendo in quella città il giorno dell’arrivo di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin? Chi è Jupiter? E chi è Condor? E poi, perché l’intelligence italiana ha sempre assicurato di non avere nulla a che fare con la città di Bosaso?
Il generale Carmine Fiore è stato l’ultimo alto ufficiale a guidare l’operazione Ibis in Somalia. Era lui al comando in quei giorni, quando i nostri reparti si preparavano a ritornare in Italia. Osserva a lungo il documento partito dal Sios. Legge e rilegge quegli ordini, intuendo chi potesse essere quel maggiore che riceve il messaggio, il cui nome è parzialmente coperto da un omissis. “Non ho mai visto questo ordine, nessuno me ne ha mai parlato”, spiega. E aggiunge: “Se questo documento è vero vuol dire che esisteva una struttura occulta, non nota al comando del contingente”. Un gruppo particolare, in grado di svolgere operazioni coperte.
I tanti militari e agenti del Sismi interpellati per capire meglio il senso del messaggio partito da La Spezia non hanno contestato l’autenticità. Qualcuno – chiedendo l’anonimato – si è chiuso dietro l’obbligo del segreto al solo sentir parlare di Somalia. Per tutti appariva chiaro un dato di contesto: quel linguaggio, quel tipo di comunicazione e le strutture coinvolte hanno un marchio di fabbrica ben noto, Gladio, o meglio SB, cioè Stay Behind, come ufficialmente veniva chiamata. Un’organizzazione che nel 1994 in teoria non esisteva più, ma che per un ex agente della Struttura SB (che chiede l’anonimato per ragioni di incolumità personale) ha continuato a operare, cambiando semplicemente nome.
Una storia che non sorprende Felice Casson, oggi senatore del Pd, che da magistrato ha condotto due importanti indagini sul traffico internazionale di armi e su Gladio: “Ricordo che a cavallo di quelle due inchieste mi venne a trovare Ilaria Alpi, voleva più informazioni – racconta – le avevo promesso che ci saremmo rivisti. Avevo conservato il suo biglietto”. Per l’ex magistrato il messaggio sulle “presenze anomale” è sicuramente un documento importante: “Non posso affermare o escludere l’autenticità, servirebbe una perizia, ma posso dire che è compatibile con la struttura Gladio”.
La Somalia di Jupiter
C’è un riscontro immediato e importante del messaggio partito dal comando carabinieri del Sios di La Spezia. Jupiter è l’alias di un italiano, un civile, Giuseppe Cammisa. Era il braccio destro di Francesco Cardella, il guru della comunità Saman, morto lo scorso 7 agosto a Managua, dove si era rifugiato da diversi anni per sfuggire alla giustizia italiana. Cammisa era sicuramente in quella zona, come dimostrano alcuni documenti ritrovati nell’archivio milanese di Saman. C’è una fotocopia del suo passaporto, con il visto per Gibuti; c’è la prenotazione del viaggio aereo, con partenza da Milano il 5 marzo 1994; e c’è un documento molto importante, la lettera di accreditamento per il viaggio fino a Bosaso con un aereo Unosom, il comando Onu della missione Ibis/Restore Hope. Un volo fondamentale per la ricostruzione degli ultimi giorni del viaggio dei due reporter della Rai: quell’aereo, partito da Gibuti il 16 marzo, è lo stesso che avrebbe dovuto riportare a Mogadiscio Ilaria e Miran. I due giornalisti persero quell’opportunità, forse perché secondo fonti della nostra stessa intelligence presente in Somalia, minacciati e trattenuti per il tempo sufficiente a far perdere loro il volo. Un altro dato sicuro è il soprannome di Cammisa, il nomignolo che ancora oggi usa: Jupiter, Giove.
Anche il servizio interno, il Sisde, si era occupato della strana missione di Jupiter nella zona di Bosaso. Un appunto datato 12 marzo 1994, diretto alla “segreteria speciale” del ministero dell’Interno, descrive nei dettagli quanto stava avvenendo nei giorni che precedono l’arrivo di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin: “Come da espressa richiesta, si conferma nelle aree adiacenti il villaggio somalo di Las Quorey, un vasto perimetro recintato già in uso per la lavorazione di prodotti ittici e derivati e adoperato in precedenza dalla Stasi/DDR (il servizio segreto dell’allora Germania orientale, ndr) per operazioni militari non convenzionali nel territorio somalo. In detta area peraltro riutilizzata tutt’oggi da personale italiano è stata notata senza dubbio alcuno nei giorni scorsi la presenza di detto ‘Jupiter’ appartenente alla ben nota struttura della Gladio trapanese”. Jupiter, dunque, era noto come membro di Gladio anche per il Sisde, che – andando oltre i compiti istituzionali – monitorava quanto stava avvenendo in quei giorni attorno alla città di Bosaso.
Secondo la versione ufficiale di Saman, quella missione di Cammisa e del medico somalo Omar Herzi (che in quel periodo collaboarava all’organizzazione di Cardella) serviva a creare un ospedale a Las Korey (nome di un villaggio a cento chilometri da Bosaso, richiamato nel messaggio del 14 marzo). Così lo ricorda Francesco Cardella, intervistato via email pochi giorni prima della sua morte a Managua: “L’idea di base – discussa con il giornalista e profondo conoscitore della Somalia (nonché caro amico mio) Pietro Petrucci - era di produrre una missione umanitaria nella zona dell’ex Somalia britannica. Con questo scopo andammo a Las Korey io, lo stesso Petrucci e il dottor Hersi”. Un primo viaggio realizzato alla fine del 1993. Prosegue il racconto: “Mandai Cammisa e Hersi prima a Dubai – dove avrebbero acquistato un fuoristrada ed altre attrezzature necessarie ad un primo intervento e dove avrebbero ricevuto medicinali inviati da Milano – e da lì – via Gibuti – nella zona di Las Korey”. Dunque la presenza di Cammisa, alias Jupiter, a Bosaso quella settimana prima dell’agguato di Mogadiscio è confermata da più fonti.
C’è di più. Uno degli attuali dirigenti di Saman, Gianni Di Malta, ricorda con precisione un episodio molto importante: “Quando Cammisa tornò dalla Somalia mi raccontò di aver incontrato Ilaria Alpi, in un albergo di Bosaso”. Parole che oggi Jupiter smentisce, assicurando di non aver mai incontrato la giornalista rimasta uccisa a Mogadiscio diciotto anni fa. Per poi aggiungere: “E poi, non so neanche cosa sia questa Gladio”.
Giuseppe Cammisa è uno dei pochi che oggi potrebbe spiegare quello che stava avvenendo a Bosaso in quei giorni, visto che quasi tutti i protagonisti di quella missione di Saman sono morti. Tutti meno uno, l’ex giornalista Pietro Petrucci, esperto fin dagli anni ’80 di questioni somale, che, secondo Francesco Cardella, fu uno degli ideatori del presunto progetto sanitario di Saman. Oggi vive in Francia, dopo aver lavorato per anni come esperto della commissione europea. Di quella vicenda, però, non vuole parlare. Ha evitato di citare il progetto Saman anche davanti a due commissioni parlamentari d’inchiesta, quella sulla cooperazione della fine degli anni ’90 e quella diretta da Carlo Taormina sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Per ben due volte confermò la sua presenza a Bosaso alla fine del 1993, senza però raccontare nulla, neanche un cenno, del progetto Saman. Nulla disse, poi, del viaggio di Cammisa/Jupiter e di Herzi – suo amico – nel marzo del 1994.
Lo stesso Sismi - in una nota del 10 novembre 1997, firmata dall’allora direttore del servizio Gianfranco Battelli – non credeva alla versione ufficiale della missione umanitaria di Saman: “Nulla, invece, è noto circa il suo impegno nella costruzione di un ospedale o di altra struttura a Bosaso”. Un progetto sanitario avviato mentre era in corso un intervento massiccio del nostro esercito, sconosciuto alla nostra intelligence: qualcosa decisamente non torna. Una cosa è in ogni caso sicura: troppi omissis impediscono ancora oggi di ricostruire la verità sull’agguato del 20 marzo 1994, quando un commando uccise Ilaria e Miran, appena tornati da Bosaso.
Quello strano centro Scorpione a Trapani
C’è un secondo messaggio del Sios di La Spezia che cita Jupiter. E’ datato marzo 1989, diretto questa volta ad una struttura di Gladio, il Cas Scorpione di Trapani. Annuncia la visita di un onorevole – il nome non è chiaramente leggibile sulla copia consultata – e chiede la disponibilità di Jupiter e di Vicari, ovvero il nome in codice di Vincenzo Li Causi, l’agente del Sismi che all’epoca dirigeva il centro Scorpione. E’ un passaggio importante, visto che quella base di Gladio utilizzava il campo volo di Trapani Milo, pista dismessa distante appena quattro chilometri dalla comunità Saman, dove Cammisa lavorava come uomo di fiducia di Francesco Cardella; la stessa pista dove di nascosto il giornalista e sociologo Mauro Rostagno, nell’estate del 1988 (una paio di mesi prima di essere assassinato), aveva filmato il caricamento di casse di armi dirette in Somalia su un aereo militare.
Vincenzo Li Causi non era un agente qualsiasi. Maresciallo dell’esercito, era stato addestrato per anni per compiere missioni difficili e riservate, dalla liberazione di Dozier fino a operazioni sotto copertura in Perù. Secondo alcuni fonti aveva conosciuto Ilaria Alpi durante un corso di lingua araba in una scuola di Tunisi. Un nome che riporta di nuovo alla Somalia, terra dove Li Causi verrà ucciso il 12 novembre 1993, quattro mesi prima dell’agguato di Mogadiscio, durante una missione a Balad. Ancora oggi su quella morte rimangono molti dubbi non risolti: un unico colpo lo raggiunse sotto il giubbotto antiproiettile, mentre rientrava verso la base degli incursori. Secondo l’ex appartenente a Stay Behind, Vincenzo Li Causi sarebbe stata la fonte di Ilaria Alpi, che ben sapeva cosa stava avvenendo a Bosaso.
Sul centro Scorpione si sono concentrate diverse inchieste, senza mai definire con chiarezza quale fosse il vero scopo di una base di Gladio in Sicilia. Secondo le deposizioni raccolte dai magistrati l’unico rapporto che sarebbe stato prodotto dagli agenti di Stay Behind tra il 1987 e il 1990 (periodo di funzionamento del gruppo di Trapani) avrebbe riguardato proprio la Saman. Era proprio così? Alcuni documenti provenienti dall’archivio Gladio parlano di operazioni legate al traffico di armi e di esercitazioni con esplosivo e mute di sommozzatori nel giugno del 1989. Ovvero nei giorni del fallito attentato dell’Addaura, che tanto inquietò Giovanni Falcone. Forse solo suggestioni, forse coincidenze, peraltro rimaste racchiuse nei cassetti dei servizi segreti italiani, negando alla magistratura la possibilità di analizzare tutte le piste possibili.
L’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin potrebbe dunque nascondere qualcosa che va al di là di ogni ipotesi immaginata fino ad oggi, traffici che hanno visto il coinvolgimento di apparati dello Stato, coperti per diciotto anni, grazie a silenzi e depistaggi.
Fonte.
Leggere ste cose mi convince che la realtà contingente dell'uomo della strada è nulla confronto a ciò che sì muove dietro, nell'universo degli innominabili.
Ilaria Alpi, l’ombra di Gladio
Sono le tre del pomeriggio a Bosaso, porto strategico del nord della Somalia. E’ un martedì di un mese di marzo che rimarrà scolpito nella storia italiana. E’ il 1994, anno indimenticabile. Il nostro esercito a Mogadiscio stava preparando la smobilitazione, lasciando al proprio destino il Paese che aveva dominato per anni. Prima come colonia, poi come protettorato, quindi come zona di influenza silenziosa, infine con l’Operazione Ibis, inserita nel più ampio intervento Onu “Restore Hope“, riportare la speranza. Mancavano pochi giorni alla fine di una guerra mascherata dall’etichetta dell’intervento umanitario, che per due anni ha accompagnato il periodo più oscuro del nostro Paese, stretto tra le stragi e le trattative sotterranee con il potere mafioso, con l’apparato politico ed economico messo sotto scacco dalle inchieste e dagli arresti. Solo quattro mesi prima di quel marzo del 1994 il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro aveva parlato di “un gioco al massacro”. Stragi, massacri, esecuzioni. Parole che hanno segnato gli anni oscuri della Repubblica, in un momento dove riappare l’ombra delle strutture riservate dei servizi, derivate – secondo alcuni documenti inediti – direttamente da Gladio.
Alle tre del pomeriggio del 15 marzo Ilaria e Miran erano seduti in un albergo non distante dal porto, registrando una delle ultime interviste della loro vita, al Sultano di Bosaso. “Perché questo è un caso particolare”, aveva annotato la giovane reporter del Tg3 su uno dei pochi block notes arrivati in Italia dopo la sua morte a Mogadiscio. Nei pochi minuti rimasti di quella intervista Ilaria parla di navi, chiede di un battello rapito, incalza il sultano cercando di capire i legami tra i traffici somali e l’Italia. Che stava accadendo in quel luogo, sperduto ma strategico? E’ la domanda chiave che potrebbe spiegare l’agguato mortale del 20 marzo 1994, quando i due giornalisti furono uccisi nelle strade di Mogadiscio.
Diciotto anni dopo, forse il muro impenetrabile che ha impedito di capire cosa rappresentava la Somalia per l’Italia nel 1994 inizia a mostrare qualche piccola breccia. Un documento inedito racconta una storia parallela, una trama che potrebbe incrociarsi con quel viaggio a Bosaso di Ilaria e Miran. E’ un messaggio dattiloscritto su un modulo militare, partito il 14 marzo del 1994 dal comando carabinieri del Sios di La Spezia, il servizio segreto della Marina militare sciolto nel 1997 e confluito prima nel Sismi e poi nell’Aise. Una comunicazione diretta a un maggiore in servizio a Balad, sei giorni prima dell’ammaina bandiera e dell’evacuazione delle nostre truppe: “Causa presenze anomale in zona Bos/Lasko (Bosaso Las Korey, nda) ordinasi Jupiter rientro immediato base I Mog”. Presenze anomale, a Bosaso. Quel 14 marzo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano appena arrivati nella città al Nord della Somalia, zona dove i due giornalisti non potevano passare inosservati. E’ di loro che si sta parlando? Con ogni probabilità sì, è difficile formulare altre ipotesi. “Ordinasi spostamento tattico Condor zona operativa Bravo possibile intervento”, prosegue il messaggio. Che stava accadendo in quella città il giorno dell’arrivo di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin? Chi è Jupiter? E chi è Condor? E poi, perché l’intelligence italiana ha sempre assicurato di non avere nulla a che fare con la città di Bosaso?
Il generale Carmine Fiore è stato l’ultimo alto ufficiale a guidare l’operazione Ibis in Somalia. Era lui al comando in quei giorni, quando i nostri reparti si preparavano a ritornare in Italia. Osserva a lungo il documento partito dal Sios. Legge e rilegge quegli ordini, intuendo chi potesse essere quel maggiore che riceve il messaggio, il cui nome è parzialmente coperto da un omissis. “Non ho mai visto questo ordine, nessuno me ne ha mai parlato”, spiega. E aggiunge: “Se questo documento è vero vuol dire che esisteva una struttura occulta, non nota al comando del contingente”. Un gruppo particolare, in grado di svolgere operazioni coperte.
I tanti militari e agenti del Sismi interpellati per capire meglio il senso del messaggio partito da La Spezia non hanno contestato l’autenticità. Qualcuno – chiedendo l’anonimato – si è chiuso dietro l’obbligo del segreto al solo sentir parlare di Somalia. Per tutti appariva chiaro un dato di contesto: quel linguaggio, quel tipo di comunicazione e le strutture coinvolte hanno un marchio di fabbrica ben noto, Gladio, o meglio SB, cioè Stay Behind, come ufficialmente veniva chiamata. Un’organizzazione che nel 1994 in teoria non esisteva più, ma che per un ex agente della Struttura SB (che chiede l’anonimato per ragioni di incolumità personale) ha continuato a operare, cambiando semplicemente nome.
Una storia che non sorprende Felice Casson, oggi senatore del Pd, che da magistrato ha condotto due importanti indagini sul traffico internazionale di armi e su Gladio: “Ricordo che a cavallo di quelle due inchieste mi venne a trovare Ilaria Alpi, voleva più informazioni – racconta – le avevo promesso che ci saremmo rivisti. Avevo conservato il suo biglietto”. Per l’ex magistrato il messaggio sulle “presenze anomale” è sicuramente un documento importante: “Non posso affermare o escludere l’autenticità, servirebbe una perizia, ma posso dire che è compatibile con la struttura Gladio”.
La Somalia di Jupiter
C’è un riscontro immediato e importante del messaggio partito dal comando carabinieri del Sios di La Spezia. Jupiter è l’alias di un italiano, un civile, Giuseppe Cammisa. Era il braccio destro di Francesco Cardella, il guru della comunità Saman, morto lo scorso 7 agosto a Managua, dove si era rifugiato da diversi anni per sfuggire alla giustizia italiana. Cammisa era sicuramente in quella zona, come dimostrano alcuni documenti ritrovati nell’archivio milanese di Saman. C’è una fotocopia del suo passaporto, con il visto per Gibuti; c’è la prenotazione del viaggio aereo, con partenza da Milano il 5 marzo 1994; e c’è un documento molto importante, la lettera di accreditamento per il viaggio fino a Bosaso con un aereo Unosom, il comando Onu della missione Ibis/Restore Hope. Un volo fondamentale per la ricostruzione degli ultimi giorni del viaggio dei due reporter della Rai: quell’aereo, partito da Gibuti il 16 marzo, è lo stesso che avrebbe dovuto riportare a Mogadiscio Ilaria e Miran. I due giornalisti persero quell’opportunità, forse perché secondo fonti della nostra stessa intelligence presente in Somalia, minacciati e trattenuti per il tempo sufficiente a far perdere loro il volo. Un altro dato sicuro è il soprannome di Cammisa, il nomignolo che ancora oggi usa: Jupiter, Giove.
Anche il servizio interno, il Sisde, si era occupato della strana missione di Jupiter nella zona di Bosaso. Un appunto datato 12 marzo 1994, diretto alla “segreteria speciale” del ministero dell’Interno, descrive nei dettagli quanto stava avvenendo nei giorni che precedono l’arrivo di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin: “Come da espressa richiesta, si conferma nelle aree adiacenti il villaggio somalo di Las Quorey, un vasto perimetro recintato già in uso per la lavorazione di prodotti ittici e derivati e adoperato in precedenza dalla Stasi/DDR (il servizio segreto dell’allora Germania orientale, ndr) per operazioni militari non convenzionali nel territorio somalo. In detta area peraltro riutilizzata tutt’oggi da personale italiano è stata notata senza dubbio alcuno nei giorni scorsi la presenza di detto ‘Jupiter’ appartenente alla ben nota struttura della Gladio trapanese”. Jupiter, dunque, era noto come membro di Gladio anche per il Sisde, che – andando oltre i compiti istituzionali – monitorava quanto stava avvenendo in quei giorni attorno alla città di Bosaso.
Secondo la versione ufficiale di Saman, quella missione di Cammisa e del medico somalo Omar Herzi (che in quel periodo collaboarava all’organizzazione di Cardella) serviva a creare un ospedale a Las Korey (nome di un villaggio a cento chilometri da Bosaso, richiamato nel messaggio del 14 marzo). Così lo ricorda Francesco Cardella, intervistato via email pochi giorni prima della sua morte a Managua: “L’idea di base – discussa con il giornalista e profondo conoscitore della Somalia (nonché caro amico mio) Pietro Petrucci - era di produrre una missione umanitaria nella zona dell’ex Somalia britannica. Con questo scopo andammo a Las Korey io, lo stesso Petrucci e il dottor Hersi”. Un primo viaggio realizzato alla fine del 1993. Prosegue il racconto: “Mandai Cammisa e Hersi prima a Dubai – dove avrebbero acquistato un fuoristrada ed altre attrezzature necessarie ad un primo intervento e dove avrebbero ricevuto medicinali inviati da Milano – e da lì – via Gibuti – nella zona di Las Korey”. Dunque la presenza di Cammisa, alias Jupiter, a Bosaso quella settimana prima dell’agguato di Mogadiscio è confermata da più fonti.
C’è di più. Uno degli attuali dirigenti di Saman, Gianni Di Malta, ricorda con precisione un episodio molto importante: “Quando Cammisa tornò dalla Somalia mi raccontò di aver incontrato Ilaria Alpi, in un albergo di Bosaso”. Parole che oggi Jupiter smentisce, assicurando di non aver mai incontrato la giornalista rimasta uccisa a Mogadiscio diciotto anni fa. Per poi aggiungere: “E poi, non so neanche cosa sia questa Gladio”.
Giuseppe Cammisa è uno dei pochi che oggi potrebbe spiegare quello che stava avvenendo a Bosaso in quei giorni, visto che quasi tutti i protagonisti di quella missione di Saman sono morti. Tutti meno uno, l’ex giornalista Pietro Petrucci, esperto fin dagli anni ’80 di questioni somale, che, secondo Francesco Cardella, fu uno degli ideatori del presunto progetto sanitario di Saman. Oggi vive in Francia, dopo aver lavorato per anni come esperto della commissione europea. Di quella vicenda, però, non vuole parlare. Ha evitato di citare il progetto Saman anche davanti a due commissioni parlamentari d’inchiesta, quella sulla cooperazione della fine degli anni ’90 e quella diretta da Carlo Taormina sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Per ben due volte confermò la sua presenza a Bosaso alla fine del 1993, senza però raccontare nulla, neanche un cenno, del progetto Saman. Nulla disse, poi, del viaggio di Cammisa/Jupiter e di Herzi – suo amico – nel marzo del 1994.
Lo stesso Sismi - in una nota del 10 novembre 1997, firmata dall’allora direttore del servizio Gianfranco Battelli – non credeva alla versione ufficiale della missione umanitaria di Saman: “Nulla, invece, è noto circa il suo impegno nella costruzione di un ospedale o di altra struttura a Bosaso”. Un progetto sanitario avviato mentre era in corso un intervento massiccio del nostro esercito, sconosciuto alla nostra intelligence: qualcosa decisamente non torna. Una cosa è in ogni caso sicura: troppi omissis impediscono ancora oggi di ricostruire la verità sull’agguato del 20 marzo 1994, quando un commando uccise Ilaria e Miran, appena tornati da Bosaso.
Quello strano centro Scorpione a Trapani
C’è un secondo messaggio del Sios di La Spezia che cita Jupiter. E’ datato marzo 1989, diretto questa volta ad una struttura di Gladio, il Cas Scorpione di Trapani. Annuncia la visita di un onorevole – il nome non è chiaramente leggibile sulla copia consultata – e chiede la disponibilità di Jupiter e di Vicari, ovvero il nome in codice di Vincenzo Li Causi, l’agente del Sismi che all’epoca dirigeva il centro Scorpione. E’ un passaggio importante, visto che quella base di Gladio utilizzava il campo volo di Trapani Milo, pista dismessa distante appena quattro chilometri dalla comunità Saman, dove Cammisa lavorava come uomo di fiducia di Francesco Cardella; la stessa pista dove di nascosto il giornalista e sociologo Mauro Rostagno, nell’estate del 1988 (una paio di mesi prima di essere assassinato), aveva filmato il caricamento di casse di armi dirette in Somalia su un aereo militare.
Vincenzo Li Causi non era un agente qualsiasi. Maresciallo dell’esercito, era stato addestrato per anni per compiere missioni difficili e riservate, dalla liberazione di Dozier fino a operazioni sotto copertura in Perù. Secondo alcuni fonti aveva conosciuto Ilaria Alpi durante un corso di lingua araba in una scuola di Tunisi. Un nome che riporta di nuovo alla Somalia, terra dove Li Causi verrà ucciso il 12 novembre 1993, quattro mesi prima dell’agguato di Mogadiscio, durante una missione a Balad. Ancora oggi su quella morte rimangono molti dubbi non risolti: un unico colpo lo raggiunse sotto il giubbotto antiproiettile, mentre rientrava verso la base degli incursori. Secondo l’ex appartenente a Stay Behind, Vincenzo Li Causi sarebbe stata la fonte di Ilaria Alpi, che ben sapeva cosa stava avvenendo a Bosaso.
Sul centro Scorpione si sono concentrate diverse inchieste, senza mai definire con chiarezza quale fosse il vero scopo di una base di Gladio in Sicilia. Secondo le deposizioni raccolte dai magistrati l’unico rapporto che sarebbe stato prodotto dagli agenti di Stay Behind tra il 1987 e il 1990 (periodo di funzionamento del gruppo di Trapani) avrebbe riguardato proprio la Saman. Era proprio così? Alcuni documenti provenienti dall’archivio Gladio parlano di operazioni legate al traffico di armi e di esercitazioni con esplosivo e mute di sommozzatori nel giugno del 1989. Ovvero nei giorni del fallito attentato dell’Addaura, che tanto inquietò Giovanni Falcone. Forse solo suggestioni, forse coincidenze, peraltro rimaste racchiuse nei cassetti dei servizi segreti italiani, negando alla magistratura la possibilità di analizzare tutte le piste possibili.
L’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin potrebbe dunque nascondere qualcosa che va al di là di ogni ipotesi immaginata fino ad oggi, traffici che hanno visto il coinvolgimento di apparati dello Stato, coperti per diciotto anni, grazie a silenzi e depistaggi.
Fonte.
Leggere ste cose mi convince che la realtà contingente dell'uomo della strada è nulla confronto a ciò che sì muove dietro, nell'universo degli innominabili.
Il presunto colpevole di via Poma
E' stata depositata qualche giorno fa la perizia super partes ordinata dalla Corte d'Assise d'Appello di Roma nel tentativo, per altro un po' tardivo, di far luce sulle presunte responsabilità di Raniero Busco, ex fidanzato di Simonetta Cesaroni,
la ragazza uccisa negli uffici dell'Aiag in via Poma con 29 coltellate
il 7 agosto del 1990. L'uomo, ricordiamolo è stato condannato in primo
grado a 24 anni di reclusione il 26 gennaio scorso, in base a motivazioni che apparvero più dei teoremi che delle prove concrete.
La perizia, più volte richiesta dalla difesa e mai espletata prima d'ora, ha dato esiti apparentemente sorprendenti.
Cadono come foglie al vento le due "prove" regine, quelle che secondo Ilaria Calò, inesperto pm del giudizio di primo grado, avrebbero inchiodato Busco alle sue responsabilità, come in una puntata di Cold Case.
Non è un morso, tantomeno la firma dell'assassino, quella ferita individuata sul capezzolo sinistro della ragazza.
Ciò che aveva sostenuto ogni medico legale che visionò il corpo e coloro, come il sottoscritto, che videro a suo tempo le foto dettagliate del famoso capezzolo, è dunque vero. Il morso esiste solo nella mente, diciamo impreparata, per usare un eufemismo, dell'accusa e dei giudici di primo grado che, con gravissima leggerezza, hanno condannato un probabilissimo innocente.
Crolla anche la seconda prova quella basata sul totem del dna al quale nei nostri tribunali sempre più spesso si tributa eccessivo onore.
In uno dei campioni di tracce biologiche prelevate sul corpetto di Simonetta Cesaroni risulta "con certezza la presenza di almeno tre soggetti maschili", sostengono i periti dopo aver esaminato 12 campioni di tracce biologiche prelevate sul reggiseno della vittima. Due sono attribuibili all'ex fidanzato Raniero Busco.
Detto in altre parole, sul reggiseno hanno messo le mani tutti e ciò è comprensibile, giacchè nel 1990, l'utilizzo giudiziario del dna riguardava solo i film di fantascienza, rendendo nullo l'elemento probatorio.
Tutto previsto e tutto prevedibile. Così prevedibile che ne scrivevo nel 2011 nel mio libro "Nera. Come la cronaca cambia i delitti": (...) l'accanimento giudiziario sul caso è ben lungi dal terminare. Nel 2007, diciassette anni dopo il delitto, dai magazzini del Ris salta fuori il reggiseno della Cesaroni, tra l'altro pessimamente conservato in una busta non sigillata, nella quale chiunque ha potuto mettere le mani. Sull'indumento i tecnici isolano il dna di Raniero Busco, ex fidanzato di Simonetta.
Tocca all'uomo rilasciare la sua dichiarazione ai microfoni dei giornalisti accorsi sotto la sua abitazione. «Se quella saliva sul reggiseno fosse mia, non proverebbe che sono io l´assassino. Io e Simonetta eravamo fidanzati e, come già in passato ho detto alla polizia, era normale che ci trovassimo in intimità e che dunque mie tracce potessero essere ritrovate su Simonetta».
«La polizia sa benissimo come stanno le cose. Io stesso ho accettato anni fa di farmi prendere il dna. Sono innocente e non ho nulla da nascondere».
Incuranti della mancanza di un movente i magistrati romani proseguono per le loro strade ritenendo di avere un'ulteriore prova della colpevolezza di Busco: una discutibilissima perizia considererebbe la dentatura attuale dell'ex ragazzo compatibile con il segno a V fotografato sul capezzolo sinistro nel 1990 e attribuito, senza alcuna certezza, ad una morsicata. A tanti anni di distanza l'elemento emerso è scientificamente risibile, presupponendo che l'uomo in venti anni non abbia modificato la propria dentatura e che i segni siano così particolari da non essere adattabili a qualche milione di persone. Ciò non impedisce, tuttavia, di ripartire con un rinvio a giudizio per l'ennesimo presunto colpevole.
I colpi di scena non sono finiti. Il 9 marzo 2010, in località Torre Ovo, vicino Marina di Maruggio, a una quarantina di chilometri da Taranto, viene rinvenuto il cadavere di Pietrino Vanacore.
Si sarebbe suicidato legando una lunga fune ad un piede e assicurando l'altra estremità ad un albero sulla scogliera. Poi avrebbe ingerito dell'anticrittogamico che aveva portato con sé in una bottiglietta. L'uomo ha lasciato due biglietti con le stesse parole, uno sul tergicristallo della sua auto e uno all'interno della vettura:«Venti anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio».
Senza alcun rispetto umano né giuridico verso le sentenze che hanno sempre ritenuto l'ex portiere estraneo alla vicenda, il pm del processo a Busco, Ilaria Calò, rilascia, a soli tre giorni dall'evento, durissime accuse contro Vanacore che a suo giudizio avrebbe «depistato per ventanni».
Di prove significative neanche l'ombra.
E allora, chi ha ucciso Simonetta? Dispiace dirlo, ma a volte bisogna accettare un principio semplicissimo. Nell'indagine penale accade che, se le indagini sono fatte male o malissimo, un delitto resti impunito. E' triste ma è così. La ricerca di un colpevole condotta in solo ossequio alla voglia di protagonismo degli inquisitori condita con la mancanza di qualsiasi responsabilità professionale e giuridica, fa più danni dell'omicidio stesso. Provoca nuovi lutti e nuove sofferenze. Ed è altrettanto sconfortante constatare quanto l'inversione dell'onere della prova, passata ormai dai giudici agli inquisiti, stia diventando la norma nei nostri Tribunali; nel silenzio dell'opinione pubblica e in quello ancora più grave di una politica che affronta il problema giustizia solo quando ne è toccata direttamente.
Fonte.
La perizia, più volte richiesta dalla difesa e mai espletata prima d'ora, ha dato esiti apparentemente sorprendenti.
Cadono come foglie al vento le due "prove" regine, quelle che secondo Ilaria Calò, inesperto pm del giudizio di primo grado, avrebbero inchiodato Busco alle sue responsabilità, come in una puntata di Cold Case.
Non è un morso, tantomeno la firma dell'assassino, quella ferita individuata sul capezzolo sinistro della ragazza.
Ciò che aveva sostenuto ogni medico legale che visionò il corpo e coloro, come il sottoscritto, che videro a suo tempo le foto dettagliate del famoso capezzolo, è dunque vero. Il morso esiste solo nella mente, diciamo impreparata, per usare un eufemismo, dell'accusa e dei giudici di primo grado che, con gravissima leggerezza, hanno condannato un probabilissimo innocente.
Crolla anche la seconda prova quella basata sul totem del dna al quale nei nostri tribunali sempre più spesso si tributa eccessivo onore.
In uno dei campioni di tracce biologiche prelevate sul corpetto di Simonetta Cesaroni risulta "con certezza la presenza di almeno tre soggetti maschili", sostengono i periti dopo aver esaminato 12 campioni di tracce biologiche prelevate sul reggiseno della vittima. Due sono attribuibili all'ex fidanzato Raniero Busco.
Detto in altre parole, sul reggiseno hanno messo le mani tutti e ciò è comprensibile, giacchè nel 1990, l'utilizzo giudiziario del dna riguardava solo i film di fantascienza, rendendo nullo l'elemento probatorio.
Tutto previsto e tutto prevedibile. Così prevedibile che ne scrivevo nel 2011 nel mio libro "Nera. Come la cronaca cambia i delitti": (...) l'accanimento giudiziario sul caso è ben lungi dal terminare. Nel 2007, diciassette anni dopo il delitto, dai magazzini del Ris salta fuori il reggiseno della Cesaroni, tra l'altro pessimamente conservato in una busta non sigillata, nella quale chiunque ha potuto mettere le mani. Sull'indumento i tecnici isolano il dna di Raniero Busco, ex fidanzato di Simonetta.
Tocca all'uomo rilasciare la sua dichiarazione ai microfoni dei giornalisti accorsi sotto la sua abitazione. «Se quella saliva sul reggiseno fosse mia, non proverebbe che sono io l´assassino. Io e Simonetta eravamo fidanzati e, come già in passato ho detto alla polizia, era normale che ci trovassimo in intimità e che dunque mie tracce potessero essere ritrovate su Simonetta».
«La polizia sa benissimo come stanno le cose. Io stesso ho accettato anni fa di farmi prendere il dna. Sono innocente e non ho nulla da nascondere».
Incuranti della mancanza di un movente i magistrati romani proseguono per le loro strade ritenendo di avere un'ulteriore prova della colpevolezza di Busco: una discutibilissima perizia considererebbe la dentatura attuale dell'ex ragazzo compatibile con il segno a V fotografato sul capezzolo sinistro nel 1990 e attribuito, senza alcuna certezza, ad una morsicata. A tanti anni di distanza l'elemento emerso è scientificamente risibile, presupponendo che l'uomo in venti anni non abbia modificato la propria dentatura e che i segni siano così particolari da non essere adattabili a qualche milione di persone. Ciò non impedisce, tuttavia, di ripartire con un rinvio a giudizio per l'ennesimo presunto colpevole.
I colpi di scena non sono finiti. Il 9 marzo 2010, in località Torre Ovo, vicino Marina di Maruggio, a una quarantina di chilometri da Taranto, viene rinvenuto il cadavere di Pietrino Vanacore.
Si sarebbe suicidato legando una lunga fune ad un piede e assicurando l'altra estremità ad un albero sulla scogliera. Poi avrebbe ingerito dell'anticrittogamico che aveva portato con sé in una bottiglietta. L'uomo ha lasciato due biglietti con le stesse parole, uno sul tergicristallo della sua auto e uno all'interno della vettura:«Venti anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio».
Senza alcun rispetto umano né giuridico verso le sentenze che hanno sempre ritenuto l'ex portiere estraneo alla vicenda, il pm del processo a Busco, Ilaria Calò, rilascia, a soli tre giorni dall'evento, durissime accuse contro Vanacore che a suo giudizio avrebbe «depistato per ventanni».
Di prove significative neanche l'ombra.
E allora, chi ha ucciso Simonetta? Dispiace dirlo, ma a volte bisogna accettare un principio semplicissimo. Nell'indagine penale accade che, se le indagini sono fatte male o malissimo, un delitto resti impunito. E' triste ma è così. La ricerca di un colpevole condotta in solo ossequio alla voglia di protagonismo degli inquisitori condita con la mancanza di qualsiasi responsabilità professionale e giuridica, fa più danni dell'omicidio stesso. Provoca nuovi lutti e nuove sofferenze. Ed è altrettanto sconfortante constatare quanto l'inversione dell'onere della prova, passata ormai dai giudici agli inquisiti, stia diventando la norma nei nostri Tribunali; nel silenzio dell'opinione pubblica e in quello ancora più grave di una politica che affronta il problema giustizia solo quando ne è toccata direttamente.
Fonte.
Usa, nelle mani delle corporation
Nel mese di febbraio il presidente Usa, Barack Obama, ha raccolto per la sua campagna elettorale
45 milioni di dollari, facendo registrare un netto incremento rispetto
alla somma incassata a gennaio, ovvero 29,1 milioni di dollari. Più
contenute le donazioni agli esponenti repubblicani: a febbraio Mitt
Romney ha ricevuto 11.5 milioni di dollari e Rick Santorum 9 milioni di
dollari. Dietro queste cifre ci sono anche i finanziamenti delle
corporazioni, vero ago della bilancia nel determinare l’esito delle
elezioni presidenziali 2012.
L’assunto di fondo è che, quando una società investe in politica, è sempre per un tornaconto. Non un tornaconto politico, ma economico. Limitazioni legali all’esborso da parte delle corporation furono definitivamente eliminate nel 2010 dalla Corte Suprema, col risultato che oggi chiunque (fondazioni, associazioni, comitati, think tank, e appunto corporazioni) può investire qualsiasi somma in una causa politica.
La storia affonda le sue radici nella vertenza Citizens United-Commissione Elettorale del 2008. Con la sentenza, la Corte suprema volle tutelare il diritto dell’organizzazione conservatrice Citizens United a mandare in onda un documentario critico di Hillary Clinton, durante le elezioni del 2008. L’importanza del pronunciamento si percepì dalla reazione di Obama che, in un messaggio settimanale ai cittadini americani, parlò di un ‘attacco alla democrazia’ da parte dei giudici.
Solo un anno dopo, la spesa di gruppi ‘indipendenti’ come Citizens United crebbe dai 68,9 milioni di dollari del 2006 (mid-term elections) ai 294,2 milioni di dollari del 2010 (sempre midterm).
A causa della cattiva pubblicità guadagnata in passato, tuttavia, la maggior parte delle corporazioni decise di investire in forma anonima, utilizzando dei prestanome, spesso organizzazioni no-profit. Una pratica concessa dalla sezione 501 della legge. La sezione 527, invece, disciplina le donazioni nell’ambito della ‘regolare azione politica’, ovvero quelle dei comitati elettorali che devono rivelare i loro finanziatori.
Spesso, i messaggi televisivi sponsorizzati dalle corporazioni sono di tono negativo: il 75 percento, secondo il difensore civico di New York, Bill de Blasio, di quelli mandati in onda sotto la sezione 501, a fronte del 54 percento di quelli sotto la sezione 527.
Perché le corporazioni vogliono influenzare le elezioni? Perché paga. Il ritorno è sugli investimenti, sugli asset e sugli introiti derivanti dal governo. Secondo uno studio dell’Università del Tennessee, le compagnie che fanno business col governo sono anche quelle che spendono di più in attività di lobbying politico. Il valore economico – spiegano i ricercatori – dell’attività di lobbying è strettamente legato all’attività delle corporation. Alcuni dei maggiori donatori anonimi sono hedge funds e società di equity. Queste società hanno investito colossali somme per contrastare i senatori democratici che sostenevano tassazioni sui redditi finanziari.
Il rischio non è tanto che le elezioni del 2012 vengano comprate dagli interessi delle corporation. Occorrono milioni di dollari per avere un impatto a livello presidenziale (nella campagnia 2008 Obama e McCain raggranellarono un miliardo di dollari ciascuno). Il pericolo sta invece nella possibilità che le corporation più piccole comprino a suon di dollari centinaia, se non migliaia, di elezioni a livello statale e locale.
I proprietari di Casino tenteranno di influenzare le normative sul gioco d’azzardo. Compagnie petrolifere e del gas cercheranno di inserire i loro candidati nelle commissioni delle contee che decidiono le concessioni. Operatori scolastici proveranno a deviare in loro favore le elezioni per i consigli di amministrazione scolastici. E così via via, fino alle circoscrizioni locali. In modo del tutto segreto e anonimo. Good business, ma bad politics.
Fonte.
L’assunto di fondo è che, quando una società investe in politica, è sempre per un tornaconto. Non un tornaconto politico, ma economico. Limitazioni legali all’esborso da parte delle corporation furono definitivamente eliminate nel 2010 dalla Corte Suprema, col risultato che oggi chiunque (fondazioni, associazioni, comitati, think tank, e appunto corporazioni) può investire qualsiasi somma in una causa politica.
La storia affonda le sue radici nella vertenza Citizens United-Commissione Elettorale del 2008. Con la sentenza, la Corte suprema volle tutelare il diritto dell’organizzazione conservatrice Citizens United a mandare in onda un documentario critico di Hillary Clinton, durante le elezioni del 2008. L’importanza del pronunciamento si percepì dalla reazione di Obama che, in un messaggio settimanale ai cittadini americani, parlò di un ‘attacco alla democrazia’ da parte dei giudici.
Solo un anno dopo, la spesa di gruppi ‘indipendenti’ come Citizens United crebbe dai 68,9 milioni di dollari del 2006 (mid-term elections) ai 294,2 milioni di dollari del 2010 (sempre midterm).
A causa della cattiva pubblicità guadagnata in passato, tuttavia, la maggior parte delle corporazioni decise di investire in forma anonima, utilizzando dei prestanome, spesso organizzazioni no-profit. Una pratica concessa dalla sezione 501 della legge. La sezione 527, invece, disciplina le donazioni nell’ambito della ‘regolare azione politica’, ovvero quelle dei comitati elettorali che devono rivelare i loro finanziatori.
Spesso, i messaggi televisivi sponsorizzati dalle corporazioni sono di tono negativo: il 75 percento, secondo il difensore civico di New York, Bill de Blasio, di quelli mandati in onda sotto la sezione 501, a fronte del 54 percento di quelli sotto la sezione 527.
Perché le corporazioni vogliono influenzare le elezioni? Perché paga. Il ritorno è sugli investimenti, sugli asset e sugli introiti derivanti dal governo. Secondo uno studio dell’Università del Tennessee, le compagnie che fanno business col governo sono anche quelle che spendono di più in attività di lobbying politico. Il valore economico – spiegano i ricercatori – dell’attività di lobbying è strettamente legato all’attività delle corporation. Alcuni dei maggiori donatori anonimi sono hedge funds e società di equity. Queste società hanno investito colossali somme per contrastare i senatori democratici che sostenevano tassazioni sui redditi finanziari.
Il rischio non è tanto che le elezioni del 2012 vengano comprate dagli interessi delle corporation. Occorrono milioni di dollari per avere un impatto a livello presidenziale (nella campagnia 2008 Obama e McCain raggranellarono un miliardo di dollari ciascuno). Il pericolo sta invece nella possibilità che le corporation più piccole comprino a suon di dollari centinaia, se non migliaia, di elezioni a livello statale e locale.
I proprietari di Casino tenteranno di influenzare le normative sul gioco d’azzardo. Compagnie petrolifere e del gas cercheranno di inserire i loro candidati nelle commissioni delle contee che decidiono le concessioni. Operatori scolastici proveranno a deviare in loro favore le elezioni per i consigli di amministrazione scolastici. E così via via, fino alle circoscrizioni locali. In modo del tutto segreto e anonimo. Good business, ma bad politics.
Fonte.
Acerra: bruciano le ecoballe
Alla fine, fatalmente, doveva succedere. Attorno alle ore 20,00 del 20 marzo, una piazzola di stoccaggio delle famigerate ecoballe campane, situata proprio nell'area antistante l'ingresso dell'inceneritore di Acerra, è andata a fuoco. Fiamme altissime ed oltre 200 vigili del fuoco impegnati nello spegnimento del rogo più tossico che si sia mai visto in Campania. Con buona pace per chi sostiene che l'emergenza rifiuti sia un ricordo del passato.
Di emergenza campana e di Ecoballe, Altrenotizie.org se ne occupa da circa sei anni con attenzione costante. Le ecoballe prodotte dalla FIBE per anni nei sette impianti di CDR campani, realizzati per risolvere una minima parte dell'emergenza rifiuti, quella relativa ai rifiuti urbani, non sono mai state utilizzabili. Indagini della magistratura, analisi sia pubbliche sia di enti indipendenti, hanno dimostrato la loro irregolarità sia sul piano legale che su quello chimico-fisico.
Sono troppo umide per poter essere incenerite, contengono sostanze ed oggetti che avrebbero dovuto essere eliminati in fase di selezione, e che non possono essere bruciati. Nessun impianto d’incenerimento, e non solo in Italia, è in grado o è disposto a bruciare combustibile derivato dai rifiuti che, nella migliore delle ipotesi, farebbe balzare alle stelle le emissioni nocive, ben oltre i limiti di legge, nonostante filtraggi e attenzioni varie riguardo i fumi. Nella peggiore, potrebbero addirittura danneggiare gli impianti d’incenerimento.
Non possono essere indirizzate verso alcuna discarica, si tratta di rifiuti speciali che hanno bisogno di discariche di tipo II B, e sommando la capacità di tombamento di tutta l'Italia, non si potrebbe smaltire che una piccola parte di CDR, saturando tutto il sistema nazionale di discariche.
Niente discariche, impossibile esportarle poiché sono talmente velenose che nessuno le vuole, niente incenerimento; in pratica al momento - anche da un punto di vista puramente scientifico - il problema non ha soluzione: non si sa cosa fare dei 4 milioni e mezzo di ecoballe (ciascuna pesa 1,4 tonnellate) sparse principalmente sul territorio campano.
Senza soluzione tecnica, ma pesano tutte, una ad una, quelle ecoballe, sul groppone politico di chi è responsabile della loro eliminazione, e della bonifica del territorio martoriato dai veleni. Per questo motivo, non è remota la possibilità, come avvenuto per altri motivi all'Aquila in occasione del terremoto, che stanotte qualcuno abbia brindato: si è liberato di una piccola quantità di quel veleno non eliminabile.
E qui le cose si complicano. Dai primi rilievi effettuati, appare chiaro che l'incendio è di natura dolosa. Ad appiccare il fuoco sarebbe stato un dispositivo a tempo, collocato attraverso due fori sotto il telone protettivo. In due punti, uno verso nord e uno verso ovest. Tecnicamente, si voleva distruggere appositamente il sito: due focolai iniziali, perpendicolari tra loro, per generare due fronti di fiamma. Fiamme e fumo, ma stavolta senza i filtri attivi applicati in fase di post-combustione dagli impianti d’incenerimento, ma a cielo aperto. Paradossalmente, il danno sarebbe stato minore se fossero state incenerite, pertanto è sintomatico che nessun inceneritore abbia voluto procedere alla combustione.
Le fiamme hanno immediatamente superato i 20 metri di altezza, ben visibili anche dai comuni limitrofi, hanno scatenato panico e allarmismo in tutta la zona. I vigili del fuoco sono intervenuti immediatamente con 6 squadre di circa 40 unità ciascuna, e tre autogru per separare le balle del fronte fiamma dal resto della piazzola, la numero 2 dell'area di Pantano ad Acerra.
Non si è potuto procedere immediatamente con lo spegnimento: i Vigili del Fuoco hanno atteso i militari del l nucleo specializzato NBCR, sigla che sta per Nucleo batteriologico e Contaminazioni Radioattive, per la messa in sicurezza del sito.
Gli interrogativi a questo punto si moltiplicano: la zona di Pantano, non solo l'inceneritore ma anche le piazzole per le ecoballe, compresa quella andata a fuoco, sono state dichiarate, all'inizio del governo Berlusconi del 2008, "area di interesse strategico nazionale". In pratica, sono zone militari sottoposte ad un vero e proprio segreto di Stato. L'area dell'inceneritore, ed anche la piazzola numero 2, sono sottoposte ad un controllo perimetrale da parte dell'esercito, 24 ore su 24. Allora la domanda spontanea è: com’è possibile entrare in una zona militare, bucare il telone in due punti, applicare un dispositivo a tempo per accendere l'incendio, e andare via senza essere visti?
Il danno è enorme. La nube tossica è già stata spinta dai venti un po' ovunque, a quest'ora le ceneri sono già ricadute sulla Campania. Impossibile indicare con certezza chi sia il mandante, anche perché sono in parecchi ad avere interesse a far sparire le ecoballe. Probabilmente, nei prossimi giorni s’inizierà a parlare per l'ennesima volta, sui giornali e in TV, di camorra, si userà ancora una volta l'alibi camorristico per seppellire motivazioni politiche.
Sta a chi ha a cuore il problema, provare a smentire l'eventuale depistaggio dell'opinione pubblica. La camorra, se è entrata nella vicenda, al limite ha messo a disposizione della manovalanza per l'esecuzione, ma le responsabilità politiche sono certamente più grandi rispetto a quelle della criminalità organizzata.
Tanto per fare un esempio, nel territorio del comune di Acerra giacciono (o meglio giacevano) 58.000 tonnellate di ecoballe. Il tutto in modo non legale o in deroga alle leggi vigenti, alla luce di un'emergenza che non è mai finita. Quando si dice "in modo non legale" ci si riferisce ad esempio, - ma non solo - al fatto che le piazzole di Pantano sono sprovviste di Valutazione di Impatto Ambientale. Ebbene, le ecoballe di Pantano sono state soggette ad un'ordinanza della Provincia di Napoli, firmata dal presidente Luigi Cesaro, del giugno 2011.
In tale ordinanza, Cesaro ordinava la rimozione delle ecoballe disseminate per Acerra in tanti piccoli terreni, e individuava proprio nella piazzola 2 di Pantano il sito dove stoccarle temporaneamente. Essendo la piazzola priva di VIA, lo stoccaggio non poteva superare i 90 giorni: le ecoballe andavano sgomberate entro 90 giorni.
I 90 giorni sono passati da parecchio, e la presidenza della Provincia di Napoli non è stata in grado di risolvere il problema, reperire un sito adatto e sgomberare le ecoballe. Ora, come per miracolo, il problema è risolto: la piazzola due è stata sgomberata. Dalle fiamme.
Fonte.
C'è vita oltre lo smantellamento dell'articolo 18?
Riportiamo qui la notizia di un rapporto del centro studi della
Confcommercio che sembra più ispirato agli scritti della sinistra
latinoamericana sul "ventennio perduto", quello delle politiche
liberiste Fmi in Sud America, che dall'appello bipartisan con il quale
si conclude.
In sintesi i ricercatori di Confcommercio sostengono: l'Italia ha passato un decennio, forse un quindicennio, perduto e non si intravede l'uscita dal tunnel. Si parlano infatti del calo tendenziale del pil, del crollo dei consumi, e delle ulteriori difficoltà che il fiscal compact (patto fiscale europeo) e l'aumento dell'Iva posso portare al tenore di vita in questo paese.
Non spetta certo alla Confcommercio rimettere in discussione il concetto di Pil e quello di consumi. Ma i ricercatori del centro studi Mariano Bella confermano con la statistica, meglio di tante analisi verbose a sinistra, quello che si capisce da tanti dati empirici. Il neoliberismo in Italia si sviluppa proprio a detrimento del tenore di vita della popolazione. In questo senso il tentativo di smantellamento dell'articolo 18 andrebbe, con i suoi effetti concreti sui licenziamenti, a sovrapporsi ad una dinamica di impoverimento generale già marcata e individuata dalle statistiche. Strana storia quella delle leggi Fornero sull'articolo 18: ha spaccato governo, confindustria, sindacati, centrodestra e centrosinistra. Ma non i media che si sono dimostrati i veri king maker, oltre a Monti e Napolitano, di questo pacchetto di legge.
Ora il contesto è però chiaro: l'eventuale smantellamento dell'articolo 18 sarebbe l'ennesima tappa di un decennio, o quindicennio, perduto.
E' quindi una concezione dell'economia, nello specifico quella che si basa sulla ristrutturazione dell'offerta abbassando il costo del lavoro (Fornero) e sulla concentrazione di capitale (Monti), che mostra tutto il suo logoramento proprio nel momento in cui cerca definitivamente di governare il paese.
Si tratta quindi di dimostrare che c'è vita oltre la ristrutturazione dell'articolo 18. Perchè nella ristrutturazione dell'articolo 18 vita non c'è.
(red) 25 marzo 2012
la fonte
Cernobbio (Como), 23 mar. (Adnkronos/Ign) - "Il salto indietro dell'Italia appare sempre più ampio: i consumi sono ai livelli del 1998, il Pil ai livelli del '99. Non è più un decennio perso, ci avviciniamo al quindicennio". E' quanto afferma l'Ufficio Studi della Confcommercio.
Nel rapporto sulle 'Prospettive economiche dell'Italia nel breve-medio termine', a cura del direttore dell'Ufficio Studi dell'associazione, Mariano Bella, presentato al via della due giorni organizzata a Cernobbio, si legge che sono "urgenti azioni di contenimento della spesa pubblica nell'ambito della spending review e dell'esercizio della delega fiscale per il riordino delle agevolazioni, per sostituire all'aumento dell'Iva qualche più salutare correttivo che non abbia effetti così gravemente recessivi".
Secondo la Confcommercio "in assenza di manovre Iva nel 2011 avremmo osservato un incremento della spesa reale delle famiglie residenti pari allo 0,4%, invece del dato di consuntivo pari a 0,2. Per il 2012 la previsione sarebbe stata di -2,1%, invece dell'attuale -2,7%. Per il 2013 e 2014 avremmo previsto +0,1% e +0,7%, invece di -0,8% e +0,6%. Il 2013 è l'anno più colpito dalle manovre Iva, perché si cumulano gli effetti tanto dell'incremento del 2011 quanto, soprattutto, il pieno dispiegarsi delle conseguenze dell'incremento di ottobre 2012".
Nello studio si afferma poi che senza crescita economica, per l'Italia il "prezzo" del fiscal compact, il trattato intergovernativo firmato da 25 Paesi dell'Ue (restano fuori Gran Bretagna e Repubblica Ceca) che dovrebbe entrare in vigore nel gennaio 2013, previa ratifica da parte di 12 paesi dell'Eurozona, "sarà elevatissimo, forse insopportabile". Il trattato, è il monito, "è perfettamente compatibile con un progressivo impoverimento dei cittadini italiani".
In Europa, si rileva ancora, la pressione fiscale "è oggi mediamente inferiore al valore della fine degli anni '90. In Italia è superiore e si appresta a raggiungere, quest'anno, i massimi di sempre". Eliminando dal Pil la quota derivante dall'economia sommersa, "la pressione fiscale legale, cioè quella gravante sui contribuenti in regola, raggiunge per l'Italia il 55%, portando il Paese al numero uno della classifica europea, e quindi mondiale".
Nel rapporto il direttore Mariano Bella sottolinea inoltre che in Italia "il tasso di investimento per unità di lavoro a tempo pieno è fortemente decrescente, almeno a partire dai primi anni 2000. Questo compromette le possibilità future di crescita". Per la Confcommercio "è necessario invertire tale tendenza e incrementare i livelli di investimento assoluti e per unità di lavoro.
Sull'articolo 18 è intervenuto il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli. ''Riteniamo che si sia giunti ad una soluzione equilibrata'' ha affermato. ''Noi riteniamo - ha sottolineato in particolare - una equilibrata soluzione quella che fa maggiormente leva sugli indennizzi economici. Certo, come ha ricordato il presidente Monti, bisogna combattere e contrastare gli abusi e tutto ciò che va in questa direzione è auspicabile''. "Condividiamo l'impianto della proposta di riforma" del mercato del lavoro, ha poi aggiunto, evidenziando che tale impianto è "maturato sulla base di un confronto reale che, tra l'altro, ha visto riconosciute alcune nostre esigenze, come quella di non penalizzare i contratti stagionali e sostitutivi, e di controllare il costo del lavoro soprattutto per i piccoli".
Quanto alla situazione del Paese, "il piacevole declino dello spread certamente ci fa dire che il governo ha imboccato la strada del Salva Italia, ma non si vede ancora la luce alla fine del tunnel. Ecco perché io dico - insiste Sangalli - facciamo in modo di rilanciare la domanda interna, facciamo in modo di rilanciare i consumi, ecco perché diciamo che bisogna evitare l'aumento dell'Iva, perché esso va totalmente in una direzione contraria". Una "mina" l'aumento dell'Iva "che va disinnescata".
Va inoltre ''urgentemente messo in campo anche un robusto economic compact, cioè un robusto pacchetto di riforme e di scelte per la crescita" e "bisogna fare di tutto affinché la liquidità messa a disposizione dalla Banca centrale europea venga impiegata non sono per acquistare titoli di stato ma anche per finanziare famiglie e imprese".
Il presidente di Confcommercio lancia poi un appello per la "tolleranza zero" nella lotta all'evasione e alla elusione fiscale. "Tolleranza zero - afferma - perché chi evade e chi elude mina le fondamenta del patto di cittadinanza e agisce contro la crescita e lo sviluppo del paese". "Zero - aggiunge - e a 360 gradi, perché, nel 2012, oltre 280 mld di base imponibile evasa confermano che evasione ed elusione sono patologie che tagliano trasversalmente tutta l'economia e la società italiana".
Quindi l'invito alla politica perché "colga l'opportunità del passaggio di una fase del governo Monti per porre le fondamenta di una nuova stagione della Repubblica". E lo faccia, spiega, "attraverso scelte di riforma istituzionale e i riforma elettorale, che consentano di archiviare definitivamente tanto la stagione sterile del bipolarismo muscolare quanto il virus dell'antipolitica".
Fonte.
In sintesi i ricercatori di Confcommercio sostengono: l'Italia ha passato un decennio, forse un quindicennio, perduto e non si intravede l'uscita dal tunnel. Si parlano infatti del calo tendenziale del pil, del crollo dei consumi, e delle ulteriori difficoltà che il fiscal compact (patto fiscale europeo) e l'aumento dell'Iva posso portare al tenore di vita in questo paese.
Non spetta certo alla Confcommercio rimettere in discussione il concetto di Pil e quello di consumi. Ma i ricercatori del centro studi Mariano Bella confermano con la statistica, meglio di tante analisi verbose a sinistra, quello che si capisce da tanti dati empirici. Il neoliberismo in Italia si sviluppa proprio a detrimento del tenore di vita della popolazione. In questo senso il tentativo di smantellamento dell'articolo 18 andrebbe, con i suoi effetti concreti sui licenziamenti, a sovrapporsi ad una dinamica di impoverimento generale già marcata e individuata dalle statistiche. Strana storia quella delle leggi Fornero sull'articolo 18: ha spaccato governo, confindustria, sindacati, centrodestra e centrosinistra. Ma non i media che si sono dimostrati i veri king maker, oltre a Monti e Napolitano, di questo pacchetto di legge.
Ora il contesto è però chiaro: l'eventuale smantellamento dell'articolo 18 sarebbe l'ennesima tappa di un decennio, o quindicennio, perduto.
E' quindi una concezione dell'economia, nello specifico quella che si basa sulla ristrutturazione dell'offerta abbassando il costo del lavoro (Fornero) e sulla concentrazione di capitale (Monti), che mostra tutto il suo logoramento proprio nel momento in cui cerca definitivamente di governare il paese.
Si tratta quindi di dimostrare che c'è vita oltre la ristrutturazione dell'articolo 18. Perchè nella ristrutturazione dell'articolo 18 vita non c'è.
(red) 25 marzo 2012
la fonte
Cernobbio (Como), 23 mar. (Adnkronos/Ign) - "Il salto indietro dell'Italia appare sempre più ampio: i consumi sono ai livelli del 1998, il Pil ai livelli del '99. Non è più un decennio perso, ci avviciniamo al quindicennio". E' quanto afferma l'Ufficio Studi della Confcommercio.
Nel rapporto sulle 'Prospettive economiche dell'Italia nel breve-medio termine', a cura del direttore dell'Ufficio Studi dell'associazione, Mariano Bella, presentato al via della due giorni organizzata a Cernobbio, si legge che sono "urgenti azioni di contenimento della spesa pubblica nell'ambito della spending review e dell'esercizio della delega fiscale per il riordino delle agevolazioni, per sostituire all'aumento dell'Iva qualche più salutare correttivo che non abbia effetti così gravemente recessivi".
Secondo la Confcommercio "in assenza di manovre Iva nel 2011 avremmo osservato un incremento della spesa reale delle famiglie residenti pari allo 0,4%, invece del dato di consuntivo pari a 0,2. Per il 2012 la previsione sarebbe stata di -2,1%, invece dell'attuale -2,7%. Per il 2013 e 2014 avremmo previsto +0,1% e +0,7%, invece di -0,8% e +0,6%. Il 2013 è l'anno più colpito dalle manovre Iva, perché si cumulano gli effetti tanto dell'incremento del 2011 quanto, soprattutto, il pieno dispiegarsi delle conseguenze dell'incremento di ottobre 2012".
Nello studio si afferma poi che senza crescita economica, per l'Italia il "prezzo" del fiscal compact, il trattato intergovernativo firmato da 25 Paesi dell'Ue (restano fuori Gran Bretagna e Repubblica Ceca) che dovrebbe entrare in vigore nel gennaio 2013, previa ratifica da parte di 12 paesi dell'Eurozona, "sarà elevatissimo, forse insopportabile". Il trattato, è il monito, "è perfettamente compatibile con un progressivo impoverimento dei cittadini italiani".
In Europa, si rileva ancora, la pressione fiscale "è oggi mediamente inferiore al valore della fine degli anni '90. In Italia è superiore e si appresta a raggiungere, quest'anno, i massimi di sempre". Eliminando dal Pil la quota derivante dall'economia sommersa, "la pressione fiscale legale, cioè quella gravante sui contribuenti in regola, raggiunge per l'Italia il 55%, portando il Paese al numero uno della classifica europea, e quindi mondiale".
Nel rapporto il direttore Mariano Bella sottolinea inoltre che in Italia "il tasso di investimento per unità di lavoro a tempo pieno è fortemente decrescente, almeno a partire dai primi anni 2000. Questo compromette le possibilità future di crescita". Per la Confcommercio "è necessario invertire tale tendenza e incrementare i livelli di investimento assoluti e per unità di lavoro.
Sull'articolo 18 è intervenuto il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli. ''Riteniamo che si sia giunti ad una soluzione equilibrata'' ha affermato. ''Noi riteniamo - ha sottolineato in particolare - una equilibrata soluzione quella che fa maggiormente leva sugli indennizzi economici. Certo, come ha ricordato il presidente Monti, bisogna combattere e contrastare gli abusi e tutto ciò che va in questa direzione è auspicabile''. "Condividiamo l'impianto della proposta di riforma" del mercato del lavoro, ha poi aggiunto, evidenziando che tale impianto è "maturato sulla base di un confronto reale che, tra l'altro, ha visto riconosciute alcune nostre esigenze, come quella di non penalizzare i contratti stagionali e sostitutivi, e di controllare il costo del lavoro soprattutto per i piccoli".
Quanto alla situazione del Paese, "il piacevole declino dello spread certamente ci fa dire che il governo ha imboccato la strada del Salva Italia, ma non si vede ancora la luce alla fine del tunnel. Ecco perché io dico - insiste Sangalli - facciamo in modo di rilanciare la domanda interna, facciamo in modo di rilanciare i consumi, ecco perché diciamo che bisogna evitare l'aumento dell'Iva, perché esso va totalmente in una direzione contraria". Una "mina" l'aumento dell'Iva "che va disinnescata".
Va inoltre ''urgentemente messo in campo anche un robusto economic compact, cioè un robusto pacchetto di riforme e di scelte per la crescita" e "bisogna fare di tutto affinché la liquidità messa a disposizione dalla Banca centrale europea venga impiegata non sono per acquistare titoli di stato ma anche per finanziare famiglie e imprese".
Il presidente di Confcommercio lancia poi un appello per la "tolleranza zero" nella lotta all'evasione e alla elusione fiscale. "Tolleranza zero - afferma - perché chi evade e chi elude mina le fondamenta del patto di cittadinanza e agisce contro la crescita e lo sviluppo del paese". "Zero - aggiunge - e a 360 gradi, perché, nel 2012, oltre 280 mld di base imponibile evasa confermano che evasione ed elusione sono patologie che tagliano trasversalmente tutta l'economia e la società italiana".
Quindi l'invito alla politica perché "colga l'opportunità del passaggio di una fase del governo Monti per porre le fondamenta di una nuova stagione della Repubblica". E lo faccia, spiega, "attraverso scelte di riforma istituzionale e i riforma elettorale, che consentano di archiviare definitivamente tanto la stagione sterile del bipolarismo muscolare quanto il virus dell'antipolitica".
Fonte.
Sostiene Tabucchi
"Confesso di nutrire scarsa fiducia nelle forme in cui possa
strutturarsi il csx: la nuova strategia. Prima sarebbe necessario
cambiare gli strateghi, perché è ovvio che qualsiasi strategia
assomiglierà agli strateghi che la concepiscono. Ma abbiamo visto che
gli "strateghi" non hanno assolutamente intenzione di lasciare
le leve di manovra, neppure dopo le sconfitte più clamorose (il che è
segno che hanno un concetto curioso del ricambio democratico). Temo che
per aspettare un cambio dovremo attenderne la sparizione per raggiunti
limiti di età vivibile; il che, se Dio me la manda buona, significa
praticamente aspettare la mia, visto che siamo della stessa generazione,
anno più anno meno... La democrazia odierna mostra evidenti ed
allarmanti scricchiolii. Ma avete mai sentito la sinistra italiana che
si sia messa a ridiscutere seriamente la democrazia? Intendo i concetti
portanti della democrazia, ciò che ne è o dovrebbe essere l’essenza: i
diritti dei cittadini, le libertà, la distribuzione del potere, la
distribuzione dei beni materiali, il diritto al lavoro, il controllo sui
singoli e sulle masse eccetera. La sinistra sembra un piccolo gruppo di
imprenditori interessati all’indice delle borse: gli unici problemi che
la interessano sono la produzione, la competitività economica, come "far crescere il paese". "Far crescere il paese" è importante. Ma per chi? Per quali scopi? Per quale tipo di vita?". Antonio Tabucchi
Fonte.
Fonte.
25/03/2012
Brasile, genocidio in Amazzonia
L’appello a fermare “una reale situazione di genocidio” all’interno
dell’Amazzonia brasiliana si fa sempre più forte e corale. A farsene
portavoce è Survival International, la Ong che difende i diritti dei
nativi di ogni parte del pianeta.
“Secondo gli esperti – spiega la Ong – se non si farà qualcosa di più per proteggere i suoi diritti territoriali, violati da taglialegna illegali e allevatori, la tribù brasiliana degli Awá andrà incontro ad estinzione certa”. La Giornata contro ogni discriminazione razziale lanciata dalle Nazioni Unite (21 marzo) è appena trascorsa, e in quell’occasione è stato ribadito con ogni mezzo che la dignità e i diritti degli esseri umani devono venir rispettati, ovunque. Eppure, in tante, troppe, comunità indigene, la gente continua a soffrire proprio per l’odio razziale.
“Gli Awá sono una piccola tribù composta da circa 355 individui – continua Survival - sopravvissuti a brutali massacri. Vivono nell’Amazzonia orientale e sono una delle ultime tribù di cacciatori-raccoglitori rimaste al mondo. Alcuni restano tuttora incontattati”. La loro vita è completamente dipendente dalla foresta, quindi il disboscamento intensivo che sta rapidamente distruggendo il loro territorio, sta uccidendo anche loro.
“La terra degli Awá è soggetta a invasioni sempre più massicce, e se non saranno prese rapide misure d’emergenza, il futuro di questo popolo sarà l’estinzione” ha dichiarato Bruno Franoso del Funai, l’agenzia governativa agli affari indiani, contattato dagli operatori umanitari. E della stessa opinione è anche un giudice brasiliano che ha visitato il territorio awá col fine di conoscere direttamente in che condizioni siano costretti a vivere. Questo il suo commento: “Abbiamo a che fare con un vero e proprio genocidio”. Definizione ribadita anche dall’antropologa Eliane Cantarino O’Dwyer, che da tempo segue le vicende di questa tribù: “Gli Awá stanno affrontando una reale situazione di genocidio”.
E infatti, lo spicchio di foresta appartenente alla terra ancestrale degli Awá è soggetta a uno dei più alti tassi di deforestazione di tutte le aree indigene amazzoniche. “Le immagini scattate dal satellite su uno dei quattro territori abitati dalla tribù – racconta Survival – mostrano la distruzione di oltre il 30 percento della foresta pluviale. Gli esperti temono in particolare l’impatto che queste invasioni territoriali stanno avendo sugli Awá incontattati, estremamente vulnerabili alle malattie”. E secondo il direttore generale della Ong, Stephen Corry, “Gli Awá sono la tribù più minacciata del mondo. Se i loro diritti non saranno protetti, presto questo popolo esisterà solo sulle pagine dei libri di storia. La sollecitazione dell’Onu a sradicare la discriminazione razziale costituisce un passo importante verso un generale cambio d’atteggiamento, necessario per mantenere intatta la foresta natale degli Awá e salvare le loro vite”.
Fonte.
“Secondo gli esperti – spiega la Ong – se non si farà qualcosa di più per proteggere i suoi diritti territoriali, violati da taglialegna illegali e allevatori, la tribù brasiliana degli Awá andrà incontro ad estinzione certa”. La Giornata contro ogni discriminazione razziale lanciata dalle Nazioni Unite (21 marzo) è appena trascorsa, e in quell’occasione è stato ribadito con ogni mezzo che la dignità e i diritti degli esseri umani devono venir rispettati, ovunque. Eppure, in tante, troppe, comunità indigene, la gente continua a soffrire proprio per l’odio razziale.
“Gli Awá sono una piccola tribù composta da circa 355 individui – continua Survival - sopravvissuti a brutali massacri. Vivono nell’Amazzonia orientale e sono una delle ultime tribù di cacciatori-raccoglitori rimaste al mondo. Alcuni restano tuttora incontattati”. La loro vita è completamente dipendente dalla foresta, quindi il disboscamento intensivo che sta rapidamente distruggendo il loro territorio, sta uccidendo anche loro.
“La terra degli Awá è soggetta a invasioni sempre più massicce, e se non saranno prese rapide misure d’emergenza, il futuro di questo popolo sarà l’estinzione” ha dichiarato Bruno Franoso del Funai, l’agenzia governativa agli affari indiani, contattato dagli operatori umanitari. E della stessa opinione è anche un giudice brasiliano che ha visitato il territorio awá col fine di conoscere direttamente in che condizioni siano costretti a vivere. Questo il suo commento: “Abbiamo a che fare con un vero e proprio genocidio”. Definizione ribadita anche dall’antropologa Eliane Cantarino O’Dwyer, che da tempo segue le vicende di questa tribù: “Gli Awá stanno affrontando una reale situazione di genocidio”.
E infatti, lo spicchio di foresta appartenente alla terra ancestrale degli Awá è soggetta a uno dei più alti tassi di deforestazione di tutte le aree indigene amazzoniche. “Le immagini scattate dal satellite su uno dei quattro territori abitati dalla tribù – racconta Survival – mostrano la distruzione di oltre il 30 percento della foresta pluviale. Gli esperti temono in particolare l’impatto che queste invasioni territoriali stanno avendo sugli Awá incontattati, estremamente vulnerabili alle malattie”. E secondo il direttore generale della Ong, Stephen Corry, “Gli Awá sono la tribù più minacciata del mondo. Se i loro diritti non saranno protetti, presto questo popolo esisterà solo sulle pagine dei libri di storia. La sollecitazione dell’Onu a sradicare la discriminazione razziale costituisce un passo importante verso un generale cambio d’atteggiamento, necessario per mantenere intatta la foresta natale degli Awá e salvare le loro vite”.
Fonte.
I poco fantastici anni '60
Erano i fantastici anni Sessanta. Mio padre guadagnava 80 mila lire al
mese, respirando i veleni del “solforico”, alla Montecatini.
Prendeva qualche lira in più grazie al “malsano”: ti pagavano di più se lavoravi nei reparti più tossici.
Aveva sempre mal di stomaco: c’entra?
Ha avuto un cancro alla vescica: c’entra?
Tanti che lavoravano con lui si son fatti cancri a vescica, intestino, fegato: c’entra coi veleni che respiravano? toccavano?
Comunque. Mia madre guadagnava 150 lire l’ora, facendo le pulizie, che le 80mila lire del babbo mica bastavano.
Il boiler lo accendevamo solo la domenica così da avere l’acqua calda per fare il bagno. Gli altri giorni ci si lavava con l’acqua fredda. Se dovevo lavare la testa il mercoledì, mamma riscaldava un po’ d’acqua.
Che poi: quelli che stavano nella case di ringhiera mica le avevano tutte queste comodità.
Non succedeva quasi mai che ci fossero due stanze illuminate, bisognava risparmiare.
La televisione la guardavamo una volta a settimana, a volte due: al bar. Il telefono era una cosa da ricchi.
Però avevamo la radio. Gracchiava, ma almeno i due canali della Rai si sentivano bene (meglio di oggi).
Risparmiavamo su tutto, anche sulla carta igienica.
Ogni tanto aiutavo mia madre a tagliare dei giornale, ne venivano fuori dei ritagli un po’ più grandi di una cartolina. Mettevamo quei rettangoli di carta in una tasca di stoffa, confezionata dalla mamma, sul termosifone, accanto alla tazza. Così nell’attesa si leggevano pezzi di giornale: stravecchio e ritagliato. Tutto fa.
Era la paura che faceva risparmiare i miei vecchi, che allora non avevano quarant’anni: la paura di diventare ancora più poveri.
Appena potevano mettevano 1000 lire nel libretto al portatore, intestato a tutti e tre.
Facevamo una vita appena appena dignitosa: la domenica mi davano 150 lire per andare al cinema. Il giornalino di Tex (120 lire ogni quindici giorni) lo potevo prendere se non prendevo brutti voti (e ne prendevo, ne prendevo).
Nel 1962, grazie ai soldi racimolati dalla mamma, comperammo la Fiat 500.
Ma i miei vecchi, che allora avevano dai 35 ai 40 anni, vivevano nella paura, che respiravo, senza comprendere.
La paura che mio padre potesse perdere il posto di lavoro.
Era comunista, ma non lo diceva, non lo disse per anni.
Non faceva mai un giorno di malattia, eppure si piegava in due per il mal di stomaco, e stava per settimane a mangiare riso in bianco, curandosi con delle pastiglie che si chiamavano Roter (le scioglieva in acqua, avevano un bel colore, di nascosto un paio di volte le ho assaggiate: sapevano di terra e di marcio e, soprattutto, all’ulcera gli facevano il solletico).
I padroni potevano licenziare chi non garbava alle guardie, i ruffiani e le guardie potevano permettersi di deridere ferite profonde. C’erano, per esempio, i reparti maledetti, chiamati “dei cornuti”: lavorare a contatto con certe sostanze chimiche significava diventare impotenti. Mi racconta ancora oggi, il mio vecchio, la paura di allora.
Quando avevi finito di lavorare andavi a timbrare, poi prendevi la bicicletta e via a casa. Qualcuno però quando andava a timbrare non trovava la cartolina: voleva dire che ti avevano licenziato, che dovevi passare dall’ufficio. Una volta un ragazzo, un padre di famiglia, quando vide che la sua cartolina non c’era si gettò per terra, a piangere. Diceva: Come faccio ora a mantenere mia moglie e i miei figli? Una guardia, uno di quelli pagati per controllarci e fare la spia, disse: Mandi la tua donna a battere, no? E rise. Fortuna che quello non sentiva, perché batteva i pugni per terra da farsi male, poveraccio.
Erano i fantastici anni Sessanta, insomma. D’estate, le famiglie operaie potevano andare a prendere il sole a fare il bagno al fiume. C’erano i bagnini, le cabine per cambiarsi. C’erano i salvagenti fatti con le camera d’aria. Che il fiume, poco a poco, si riempisse di veleni poco importava, allora. L’Italia, sorridente, andava in Vespa verso il futuro.
Fonte.
La dolce vita l'hanno vista davvero in pochi.
Prendeva qualche lira in più grazie al “malsano”: ti pagavano di più se lavoravi nei reparti più tossici.
Aveva sempre mal di stomaco: c’entra?
Ha avuto un cancro alla vescica: c’entra?
Tanti che lavoravano con lui si son fatti cancri a vescica, intestino, fegato: c’entra coi veleni che respiravano? toccavano?
Comunque. Mia madre guadagnava 150 lire l’ora, facendo le pulizie, che le 80mila lire del babbo mica bastavano.
Il boiler lo accendevamo solo la domenica così da avere l’acqua calda per fare il bagno. Gli altri giorni ci si lavava con l’acqua fredda. Se dovevo lavare la testa il mercoledì, mamma riscaldava un po’ d’acqua.
Che poi: quelli che stavano nella case di ringhiera mica le avevano tutte queste comodità.
Non succedeva quasi mai che ci fossero due stanze illuminate, bisognava risparmiare.
La televisione la guardavamo una volta a settimana, a volte due: al bar. Il telefono era una cosa da ricchi.
Però avevamo la radio. Gracchiava, ma almeno i due canali della Rai si sentivano bene (meglio di oggi).
Risparmiavamo su tutto, anche sulla carta igienica.
Ogni tanto aiutavo mia madre a tagliare dei giornale, ne venivano fuori dei ritagli un po’ più grandi di una cartolina. Mettevamo quei rettangoli di carta in una tasca di stoffa, confezionata dalla mamma, sul termosifone, accanto alla tazza. Così nell’attesa si leggevano pezzi di giornale: stravecchio e ritagliato. Tutto fa.
Era la paura che faceva risparmiare i miei vecchi, che allora non avevano quarant’anni: la paura di diventare ancora più poveri.
Appena potevano mettevano 1000 lire nel libretto al portatore, intestato a tutti e tre.
Facevamo una vita appena appena dignitosa: la domenica mi davano 150 lire per andare al cinema. Il giornalino di Tex (120 lire ogni quindici giorni) lo potevo prendere se non prendevo brutti voti (e ne prendevo, ne prendevo).
Nel 1962, grazie ai soldi racimolati dalla mamma, comperammo la Fiat 500.
Ma i miei vecchi, che allora avevano dai 35 ai 40 anni, vivevano nella paura, che respiravo, senza comprendere.
La paura che mio padre potesse perdere il posto di lavoro.
Era comunista, ma non lo diceva, non lo disse per anni.
Non faceva mai un giorno di malattia, eppure si piegava in due per il mal di stomaco, e stava per settimane a mangiare riso in bianco, curandosi con delle pastiglie che si chiamavano Roter (le scioglieva in acqua, avevano un bel colore, di nascosto un paio di volte le ho assaggiate: sapevano di terra e di marcio e, soprattutto, all’ulcera gli facevano il solletico).
I padroni potevano licenziare chi non garbava alle guardie, i ruffiani e le guardie potevano permettersi di deridere ferite profonde. C’erano, per esempio, i reparti maledetti, chiamati “dei cornuti”: lavorare a contatto con certe sostanze chimiche significava diventare impotenti. Mi racconta ancora oggi, il mio vecchio, la paura di allora.
Quando avevi finito di lavorare andavi a timbrare, poi prendevi la bicicletta e via a casa. Qualcuno però quando andava a timbrare non trovava la cartolina: voleva dire che ti avevano licenziato, che dovevi passare dall’ufficio. Una volta un ragazzo, un padre di famiglia, quando vide che la sua cartolina non c’era si gettò per terra, a piangere. Diceva: Come faccio ora a mantenere mia moglie e i miei figli? Una guardia, uno di quelli pagati per controllarci e fare la spia, disse: Mandi la tua donna a battere, no? E rise. Fortuna che quello non sentiva, perché batteva i pugni per terra da farsi male, poveraccio.
Erano i fantastici anni Sessanta, insomma. D’estate, le famiglie operaie potevano andare a prendere il sole a fare il bagno al fiume. C’erano i bagnini, le cabine per cambiarsi. C’erano i salvagenti fatti con le camera d’aria. Che il fiume, poco a poco, si riempisse di veleni poco importava, allora. L’Italia, sorridente, andava in Vespa verso il futuro.
Fonte.
La dolce vita l'hanno vista davvero in pochi.
La follia necessaria di una Nazione in cerca d'oblio
C'è nell'aria un sentimento nuovo.
Quello di mollare tutto e inseguire nei
prati le prime farfalle gialle di primavera
con lo sguardo che è dei santi e dei
pazzi. Il punto di rottura è stato superato,
quel punto imprevedibile in cui la fuga
dal mondo diventa lecita. Follia
necessaria. Un atto di amore verso sé
stessi per continuare a vivere. C'è chi
diventa un barbone, felice nella sua
miseria quotidiana. Chi si spara. Chi
stermina la famiglia. Chi va in Australia a
cercar fortuna. Chi brucia ogni bolletta,
avviso, tassa, multa, cartella esattoriale
in un falò in salotto e aspetta con
malcelata ansia che suoni il campanello
di casa un esattore per liberare i suoi
istinti bestiali. C'è chi ti urla per strada.
Chi ti prende a pugni per un posto in un
parcheggio per scaricare la tensione e
scaldarsi i muscoli. Ognuno è una
potenziale pallina antistress per il suo
prossimo. Da schiacciare e da stringere.
Da stritolare. Siamo una nazione nella
sua fase terminale che non vuole
ammetterlo e perciò cerca l'oblio.
Fonte.
Fonte.
Aspettando la rivoluzione
I partiti sono al 4% di fiducia, il minimo storico. Eppure, quando ci
sono le elezioni, gli italiani che vanno a votarli sono ancora la
maggioranza: nonostante astenuti, schede bianche e nulle, il 70%-60%. In
questo divario sta tutta la sindrome di Stoccolma di noi sudditi,
vittime e complici dei neo-feudatari di partito.
Rito cartaceo
Noi? Si fa per dire. Loro. Quelli che si ostinano a fare file sovietiche al mercato delle urne. Noi ribelli, a votare non ci andiamo più da un bel po’. Fatica inutile? No: amor di dignità. Ci teniamo a non farci prendere per il naso, non ci stiamo a dare una mano, una crocetta in più, ad una democrazia di nome ma oligarchia di fatto.
Siamo sudditi pure noi che ci siamo accorti della truffa, o meglio, che ne tiriamo le conseguenze rifiutandoci di partecipare al rito di ratifica della partitocrazia. Ma lo siamo un po’ meno dei sudditi che, pur sapendo o intuendo il giochetto infame (votare=decidere, una balla astrofisica), si ostinano a tenere in piedi il circo per la felicità degli astanti. Li sopportano, li disprezzano, ne sono stufi ma dei giocolieri in scena, i partiti onnipresenti, non sanno farne a meno.
La droga elettorale
Perché? Perché, a mio avviso, scatta il meccanismo psicologico dell’assuefazione. Come con la droga, fin quando non si è già fottuta completamente il cervello di chi la assume: il tossico “se la fa” cosciente di sbagliare, sa che gli fa male ma continua imperterrito, perché non sente di essere abbastanza forte per dire basta, per smettere. Non vede alternativa, non immagina come potrebbe comportarsi diversamente. Una volta in corpo, la sostanza maledetta gli dà sollievo, benché momentaneo e foriero di danni col tempo sempre maggiori. Ha paura dell’ignoto, e così si butta nella certezza piuttosto che rischiare l’incerto, il cambiamento, la nuova disciplina tutta da costruire una volta abbandonata la gabbia sicura dell’abitudine.
Il buon cittadino democratico, ligio al dovere elettorale, è un drogato ideologico. E uno sputato conservatore in psicologicis. Siccome mettere una croce sopra alla visione comune - la destra e la sinistra, la coalizione di qua contro la coalizione di là, Berlusconi o anti-Berlusconi – equivale a perdere i comodi punti di riferimento tanto cari e tanto facili, se li tiene ben stretti e, se non gli piacciono, se li fa piacere. Andare al di là del naturale, umanissimo ma qualunquistico mugugno potrebbe portare addirittura a respingere in blocco l’intero sistema. Scherziamo? Sarebbe un terremoto, la terra franerebbe sotto i piedi, si farebbe buio pesto, e dove sarebbero gli appigli? Fronda sì, opposizione manco per idea. Si deve stare al gioco, non rovesciare il tavolo. Così la vita è tutto sommato più semplice, anche se si sceglie un partito estremo, massimalista. L’importante è restare dentro, mai uscire dai confini accettati e tollerati.
Istinto del gregge
Su questa china il partito unico del 4% si trasforma in una congerie di marchi politici – la politica di oggi? marketing, siore e siori – raggiungendo il picco dei tre quinti della popolazione votante. Dice: quel dato così esiguo riguarda la fiducia nella credibilità dell’universo-partiti, altra cosa è recarsi ai seggi e compiere una scelta per uno di essi dopo che, si spera, si è maturata un’opinione precisa, pensata, calcolata. Ribatto: ma se è il mondo della rappresentanza partitica in quanto tale a non essere considerata degna di credito dalla stragrande maggioranza, che senso logico ha attribuirgliene in proporzioni così massicce al momento del dunque? Logico, nessuno. Irrazionale, figlio della viltà e del conformismo, a iosa. Vedi sopra. Lo scarto è troppo grande perché sia spiegabile razionalmente. Qui siamo soltanto di fronte all’istinto del gregge, niente di più e niente di meno.
Un No (Tav) insufficiente
Il gregge resterà sempre gregge. Il problema è liberarlo dal recinto in cui è costretto. Fuor di metafora: liberarci dei partiti e dell’arco istituzionale del pensiero unico. È troppo presto perché nasca una forza politica con lo scopo costitutivo di abbattere l’edificio nel suo complesso. Per rendersene conto è sufficiente guardare l’encomiabile, radicale fronte dei No Tav. Encomiabile per come si batte per la causa del mostro-simbolo di un modello di sviluppo sbagliato, dogmatico e repressivo. Ma radicale per modo di dire. Perché sarà pur vero che l’idea fondamentale, il no alla paranoia della crescita infinita, si è fatta largo nell’humus della resistenza al treno dei disumani desideri. Ed è altrettanto vero che la galassia antagonista, ambientalista, localista del movimento ha una sovrana sfiducia in qualsiasi partito, e la “morte del padre”, inteso come paternità politica di sinistra, è dimostrata dall’occupazione della sede romana del Pd, dallo sbertucciamento travagliesco dell’inguardabile Bersani e dall’astio verso i sindaci valsusini passati dall’altra parte con la scusa del “dialogo”. Però, oltre al merito tecnico, il mirino del No si ferma, al massimo, e parlo dei centri sociali, ad una generica rivendicazione di un’economia diversa, contestando i lucratori (imprese appaltatrici, banche) e proponendo in positivo il reddito di cittadinanza. Tutto più o meno giusto, ma anche tutto, ancora una volta, all’interno di coordinate note, in questo caso della sinistra altermondialista.
Lo stronzo sei tu
Non ci si pone il problema di una critica totale e di una proposta altrettanto totale al sistema nel suo complesso. Si discute di decrescita economica ma non la si collega col suo corrispondente politico naturale, il federalismo. Si alza la bandiera dell’autonomia e democrazia locale, ma non se ne fa tutt’uno con la negazione di questa Unione Europea dittatoriale e liberticida. Si attaccano le banche, ma non si sa nulla del signoraggio e dell’euro, che ci lega mani e piedi alla cupola finanziaria internazionale. E soprattutto: non c’è neppure un barlume di volontà di lasciarsi alle spalle gli steccati e i pregiudizi del secolo scorso. O, se c’è, sono puramente discorsi, dietro cui restano pietrificati i vecchi compartimenti stagni. E così, invece di elaborare parole d’ordine che tutti possono far proprie (riconquista della sovranità nazionale per una rifondazione europea, un altro paradigma monetario, produzione locale con un vero autonomismo) si fa comunella con la Fiom, altro soggetto meritevole per le sue lotte ma limitato e ancorato ad un operaismo e industrialismo da fabbrica vecchio stampo. Per capirci: la Fiom è per la crescita, altro che decrescita.
Così, le pur sane spinte in direzione di un radicalismo autentico rimangono nel bozzolo. E quando arriva il giorno delle elezioni, anche il più incavolato nero si presenta bel bello con la sua tessera elettorale perché una testimonianza che conta qualcosa deve pur darla a sé stesso. Deve fargliela vedere in qualche modo, agli stronzi. E invece lo stronzo è lui, che si dà la zappa sui piedi da solo aggiungendo il proprio mattoncino alla sfinge della “democrazia” del 4%.
Da ribelli a rivoluzionari
Controcanto: tu proponi idee (quelle che mancherebbero ad una realtà comunque combattiva e coraggiosa, anche idealmente, come i No Tav) e l’astensione dal voto. Tutto qua? Sì, a tutt’oggi, tutto qua. E lo ammetto: è poco. Troppo poco. Ho già scritto su queste colonne che, oltre ad un pensiero lungimirante e strutturato, serve una meta finale, un’immagine del futuro (un mito), degli obbiettivi a lungo termine ma concretizzabili. Serve la politica. È il necessario passaggio dal ribelle al rivoluzionario: il primo è una figura etica, esistenziale, e socialmente si limita al rifiuto; il secondo è un soggetto politico, organizzato, e avanza proposte con una strategia, per quanto di irrevocabile rottura con il presente. Cari ribelli, essere ribelli, adesso, è l’unica condizione possibile, ma non basterà più. Sono, siamo in attesa di una forza rivoluzionaria. Con tutti i rischi che essa comporta. Ma chi non risica non rosica. En attendant Godot? Spero di no. Voglio credere di no.
Fonte.
Questo Alessio Mannino mi garba molto.
Rito cartaceo
Noi? Si fa per dire. Loro. Quelli che si ostinano a fare file sovietiche al mercato delle urne. Noi ribelli, a votare non ci andiamo più da un bel po’. Fatica inutile? No: amor di dignità. Ci teniamo a non farci prendere per il naso, non ci stiamo a dare una mano, una crocetta in più, ad una democrazia di nome ma oligarchia di fatto.
Siamo sudditi pure noi che ci siamo accorti della truffa, o meglio, che ne tiriamo le conseguenze rifiutandoci di partecipare al rito di ratifica della partitocrazia. Ma lo siamo un po’ meno dei sudditi che, pur sapendo o intuendo il giochetto infame (votare=decidere, una balla astrofisica), si ostinano a tenere in piedi il circo per la felicità degli astanti. Li sopportano, li disprezzano, ne sono stufi ma dei giocolieri in scena, i partiti onnipresenti, non sanno farne a meno.
La droga elettorale
Perché? Perché, a mio avviso, scatta il meccanismo psicologico dell’assuefazione. Come con la droga, fin quando non si è già fottuta completamente il cervello di chi la assume: il tossico “se la fa” cosciente di sbagliare, sa che gli fa male ma continua imperterrito, perché non sente di essere abbastanza forte per dire basta, per smettere. Non vede alternativa, non immagina come potrebbe comportarsi diversamente. Una volta in corpo, la sostanza maledetta gli dà sollievo, benché momentaneo e foriero di danni col tempo sempre maggiori. Ha paura dell’ignoto, e così si butta nella certezza piuttosto che rischiare l’incerto, il cambiamento, la nuova disciplina tutta da costruire una volta abbandonata la gabbia sicura dell’abitudine.
Il buon cittadino democratico, ligio al dovere elettorale, è un drogato ideologico. E uno sputato conservatore in psicologicis. Siccome mettere una croce sopra alla visione comune - la destra e la sinistra, la coalizione di qua contro la coalizione di là, Berlusconi o anti-Berlusconi – equivale a perdere i comodi punti di riferimento tanto cari e tanto facili, se li tiene ben stretti e, se non gli piacciono, se li fa piacere. Andare al di là del naturale, umanissimo ma qualunquistico mugugno potrebbe portare addirittura a respingere in blocco l’intero sistema. Scherziamo? Sarebbe un terremoto, la terra franerebbe sotto i piedi, si farebbe buio pesto, e dove sarebbero gli appigli? Fronda sì, opposizione manco per idea. Si deve stare al gioco, non rovesciare il tavolo. Così la vita è tutto sommato più semplice, anche se si sceglie un partito estremo, massimalista. L’importante è restare dentro, mai uscire dai confini accettati e tollerati.
Istinto del gregge
Su questa china il partito unico del 4% si trasforma in una congerie di marchi politici – la politica di oggi? marketing, siore e siori – raggiungendo il picco dei tre quinti della popolazione votante. Dice: quel dato così esiguo riguarda la fiducia nella credibilità dell’universo-partiti, altra cosa è recarsi ai seggi e compiere una scelta per uno di essi dopo che, si spera, si è maturata un’opinione precisa, pensata, calcolata. Ribatto: ma se è il mondo della rappresentanza partitica in quanto tale a non essere considerata degna di credito dalla stragrande maggioranza, che senso logico ha attribuirgliene in proporzioni così massicce al momento del dunque? Logico, nessuno. Irrazionale, figlio della viltà e del conformismo, a iosa. Vedi sopra. Lo scarto è troppo grande perché sia spiegabile razionalmente. Qui siamo soltanto di fronte all’istinto del gregge, niente di più e niente di meno.
Un No (Tav) insufficiente
Il gregge resterà sempre gregge. Il problema è liberarlo dal recinto in cui è costretto. Fuor di metafora: liberarci dei partiti e dell’arco istituzionale del pensiero unico. È troppo presto perché nasca una forza politica con lo scopo costitutivo di abbattere l’edificio nel suo complesso. Per rendersene conto è sufficiente guardare l’encomiabile, radicale fronte dei No Tav. Encomiabile per come si batte per la causa del mostro-simbolo di un modello di sviluppo sbagliato, dogmatico e repressivo. Ma radicale per modo di dire. Perché sarà pur vero che l’idea fondamentale, il no alla paranoia della crescita infinita, si è fatta largo nell’humus della resistenza al treno dei disumani desideri. Ed è altrettanto vero che la galassia antagonista, ambientalista, localista del movimento ha una sovrana sfiducia in qualsiasi partito, e la “morte del padre”, inteso come paternità politica di sinistra, è dimostrata dall’occupazione della sede romana del Pd, dallo sbertucciamento travagliesco dell’inguardabile Bersani e dall’astio verso i sindaci valsusini passati dall’altra parte con la scusa del “dialogo”. Però, oltre al merito tecnico, il mirino del No si ferma, al massimo, e parlo dei centri sociali, ad una generica rivendicazione di un’economia diversa, contestando i lucratori (imprese appaltatrici, banche) e proponendo in positivo il reddito di cittadinanza. Tutto più o meno giusto, ma anche tutto, ancora una volta, all’interno di coordinate note, in questo caso della sinistra altermondialista.
Lo stronzo sei tu
Non ci si pone il problema di una critica totale e di una proposta altrettanto totale al sistema nel suo complesso. Si discute di decrescita economica ma non la si collega col suo corrispondente politico naturale, il federalismo. Si alza la bandiera dell’autonomia e democrazia locale, ma non se ne fa tutt’uno con la negazione di questa Unione Europea dittatoriale e liberticida. Si attaccano le banche, ma non si sa nulla del signoraggio e dell’euro, che ci lega mani e piedi alla cupola finanziaria internazionale. E soprattutto: non c’è neppure un barlume di volontà di lasciarsi alle spalle gli steccati e i pregiudizi del secolo scorso. O, se c’è, sono puramente discorsi, dietro cui restano pietrificati i vecchi compartimenti stagni. E così, invece di elaborare parole d’ordine che tutti possono far proprie (riconquista della sovranità nazionale per una rifondazione europea, un altro paradigma monetario, produzione locale con un vero autonomismo) si fa comunella con la Fiom, altro soggetto meritevole per le sue lotte ma limitato e ancorato ad un operaismo e industrialismo da fabbrica vecchio stampo. Per capirci: la Fiom è per la crescita, altro che decrescita.
Così, le pur sane spinte in direzione di un radicalismo autentico rimangono nel bozzolo. E quando arriva il giorno delle elezioni, anche il più incavolato nero si presenta bel bello con la sua tessera elettorale perché una testimonianza che conta qualcosa deve pur darla a sé stesso. Deve fargliela vedere in qualche modo, agli stronzi. E invece lo stronzo è lui, che si dà la zappa sui piedi da solo aggiungendo il proprio mattoncino alla sfinge della “democrazia” del 4%.
Da ribelli a rivoluzionari
Controcanto: tu proponi idee (quelle che mancherebbero ad una realtà comunque combattiva e coraggiosa, anche idealmente, come i No Tav) e l’astensione dal voto. Tutto qua? Sì, a tutt’oggi, tutto qua. E lo ammetto: è poco. Troppo poco. Ho già scritto su queste colonne che, oltre ad un pensiero lungimirante e strutturato, serve una meta finale, un’immagine del futuro (un mito), degli obbiettivi a lungo termine ma concretizzabili. Serve la politica. È il necessario passaggio dal ribelle al rivoluzionario: il primo è una figura etica, esistenziale, e socialmente si limita al rifiuto; il secondo è un soggetto politico, organizzato, e avanza proposte con una strategia, per quanto di irrevocabile rottura con il presente. Cari ribelli, essere ribelli, adesso, è l’unica condizione possibile, ma non basterà più. Sono, siamo in attesa di una forza rivoluzionaria. Con tutti i rischi che essa comporta. Ma chi non risica non rosica. En attendant Godot? Spero di no. Voglio credere di no.
Fonte.
Questo Alessio Mannino mi garba molto.
Il peggior male d'Italia: l'odio sociale
Qualcuno mi chiede perché non parlo di articolo 18.
Ve lo spiego subito, ma prima una doverosa introduzione.
Negli ultimi giorni, in Rete, si è parlato moltissimo di Devis "Pecoranera": un giovane friulano che ha scelto una vita da contadino-eremita. Era un informatico di città, ha lasciato il lavoro e con i pochi risparmi è andato a vivere in una casetta in montagna, campa vendendo uova e verdure autoprodotte, ha una bici, si scalda con la stufa, non compra praticamente nulla e sta molto da solo.
La sua storia, raccontata dal Corriere, ha scatenato un incredibile diluvio di rabbia e furore: commenti di gente che gli dava del "figlio di papà" (nella foto i suoi immeritati lussi), del "parassita della società", e soprattutto dell'"evasore fiscale". Volgarità tipo "E i soldi per la zappa, chi te li ha dati? E la legna, l'hai rubata?". E la solita lista dei "facile": "Facile non pagare mutuo! Facile fregarsene! Facile scroccare! Facile cambiar vita da giovani!" C'è stato persino chi ha scritto: "Facile campare zappando!".
Colmo dei colmi, in decine hanno invocato con rancore e odio un controllo della Finanza... all'eremita.
La maggior parte dei commentatori, sul Corriere ed altrove, si qualificava come impiegati, gente "che paga tutte le tasse", gente che "ha il mutuo" (come se ciò li rendesse più meritevoli del contadino). Insomma, tra loro probabilmente molti "articoli 18" che non possono/vogliono lasciare il lavoro per una scelta così radicale e libera e se ne sentono infastiditi.
Io, da precaria, non ho mai goduto dell'articolo 18. Ho avuto due contratti a tempo indeterminato, ma in società con meno di 15 dipendenti che hanno cacciato via tutti al primo soffio di vento. In questo blog mi sono però sempre sgolata per sostenere tutte le categorie di lavoratori, dagli statali (guai a chi mi tocca gli insegnanti) agli autonomi, dai precari ai pensionati. Io faccio il tifo per tutti, perché so che la solidarietà è l'unica strada per non farselo mettere in quel posto una categoria alla volta.
Ma ora a dirla tutta sono stufa. Vivo in un Paese di gente meschina obnubilata dall'odio e dal rancore, dalla convinzione che tutti gli altri stiano meglio e stiano loro rubando qualcosa, afflitta da un perenne vittimismo e da un desiderio di vendetta che si sfoga sempre contro gli obiettivi sbagliati e sfigati. Che grida e urla su Internet per mandare la Finanza ad un giovane eremita che vive con 200 euro al mese. Gente che chiede solidarietà per i propri problemi, ma agli altri offre sempre e solo disprezzo. Tutto ciò mi disgusta fin nel profondo.
Io continuerò a non odiare nessuno, e a non parlar male di nessuno. Ma volevate sapere cosa penso dell'articolo 18? Ecco la mia risposta: francamente, miei cari, me ne infischio.
Fonte.
Ve lo spiego subito, ma prima una doverosa introduzione.
Negli ultimi giorni, in Rete, si è parlato moltissimo di Devis "Pecoranera": un giovane friulano che ha scelto una vita da contadino-eremita. Era un informatico di città, ha lasciato il lavoro e con i pochi risparmi è andato a vivere in una casetta in montagna, campa vendendo uova e verdure autoprodotte, ha una bici, si scalda con la stufa, non compra praticamente nulla e sta molto da solo.
La sua storia, raccontata dal Corriere, ha scatenato un incredibile diluvio di rabbia e furore: commenti di gente che gli dava del "figlio di papà" (nella foto i suoi immeritati lussi), del "parassita della società", e soprattutto dell'"evasore fiscale". Volgarità tipo "E i soldi per la zappa, chi te li ha dati? E la legna, l'hai rubata?". E la solita lista dei "facile": "Facile non pagare mutuo! Facile fregarsene! Facile scroccare! Facile cambiar vita da giovani!" C'è stato persino chi ha scritto: "Facile campare zappando!".
Colmo dei colmi, in decine hanno invocato con rancore e odio un controllo della Finanza... all'eremita.
La maggior parte dei commentatori, sul Corriere ed altrove, si qualificava come impiegati, gente "che paga tutte le tasse", gente che "ha il mutuo" (come se ciò li rendesse più meritevoli del contadino). Insomma, tra loro probabilmente molti "articoli 18" che non possono/vogliono lasciare il lavoro per una scelta così radicale e libera e se ne sentono infastiditi.
Io, da precaria, non ho mai goduto dell'articolo 18. Ho avuto due contratti a tempo indeterminato, ma in società con meno di 15 dipendenti che hanno cacciato via tutti al primo soffio di vento. In questo blog mi sono però sempre sgolata per sostenere tutte le categorie di lavoratori, dagli statali (guai a chi mi tocca gli insegnanti) agli autonomi, dai precari ai pensionati. Io faccio il tifo per tutti, perché so che la solidarietà è l'unica strada per non farselo mettere in quel posto una categoria alla volta.
Ma ora a dirla tutta sono stufa. Vivo in un Paese di gente meschina obnubilata dall'odio e dal rancore, dalla convinzione che tutti gli altri stiano meglio e stiano loro rubando qualcosa, afflitta da un perenne vittimismo e da un desiderio di vendetta che si sfoga sempre contro gli obiettivi sbagliati e sfigati. Che grida e urla su Internet per mandare la Finanza ad un giovane eremita che vive con 200 euro al mese. Gente che chiede solidarietà per i propri problemi, ma agli altri offre sempre e solo disprezzo. Tutto ciò mi disgusta fin nel profondo.
Io continuerò a non odiare nessuno, e a non parlar male di nessuno. Ma volevate sapere cosa penso dell'articolo 18? Ecco la mia risposta: francamente, miei cari, me ne infischio.
Fonte.
Lisbona dà l'addio al Tav. Salta il corridoio?
Addio portoghese all’Alta velocità tra Lisbona e Madrid.
E forse al famoso corridoio Kiev-Lisbona di cui fa parte anche la
Torino-Lione. Il progetto era già stato sospeso nel giugno di un anno fa
ma ieri la Corte dei Conti lusitana ha messo la parola fine alla grande
opera annullando il contratto per la tratta principale, 150 km tra
Poceirao e la frontiera con la città spagnola di Badajoz. Un appalto per
1,4 miliardi di euro, aggiudicato nel 2010 dal precedente esecutivo
socialista. Il ministero di Economia ha confermato la priorità data alla
realizzazione di reti ferroviarie transeuropee per i trasporti merci
dai porti di Dines e Aveiro, per stimolare la competitività delle
esportazioni portoghesi. La parte spagnola, fra Madrid e Badajoz, alla
frontiera con il Portogallo, è già in corso di realizzazione. Madrid e
la Ue hanno fatto molte pressioni su Lisbona perché su quel versante
sono a rischio 133 milioni di euro di fondi europei.
«Lo sapevamo da un po’ che in Portogallo tirava un’aria pessima per quel progetto, e per la popolazione sotto l’austerity. Sapevamo anche che non c’era un progetto preciso. Anche a Kiev, l’altro capolinea, d’altronde, non ne sanno quasi nulla. E’ più l’Ue che premeva sul progetto. Sono infinite le prove che non serve a nulla quel corridoio», dice da una Valsusa ormai militarizzata, Nicoletta Dosio.
Ora sarà interessante capire non solo quali saranno le conseguenze sull’erario dell’annullamento, ossia eventuali penali. Ma soprattutto le ricadute sulla compagine europea dove la decisione portoghese è considerata un «problema politico». Anche in Portogallo il progetto Tgv aveva scatenato polemiche sull’utilità di una linea che avrebbe tagliato fuori pezzi di territorio dalle comunicazioni.
Tutto ciò accade proprio mentre i trasporti pubblici in Portogallo sono praticamente paralizzati dal secondo sciopero generale - con manifestazioni di protesta nelle principali città -contro l’austerità del cosiddetto piano di salvataggio da 78 miliardi concordato con Ue e Fmi l’anno scorso. La metropolitana di Lisbona e i traghetti sul Tago sono fermi da questa notte, treni e autobus circolano solo in servizio minimo. Lo sciopero è stato deciso dal principale sindacato del paese, la Cgtp, senza l’appoggio questa volta del secondo sindacato, l’Ugt, che ha invece aderito in gennaio ad un accordo con il governo del premier conservatore Pedro Passos Coelho sulla riforma del lavoro.
Fonte.
«Lo sapevamo da un po’ che in Portogallo tirava un’aria pessima per quel progetto, e per la popolazione sotto l’austerity. Sapevamo anche che non c’era un progetto preciso. Anche a Kiev, l’altro capolinea, d’altronde, non ne sanno quasi nulla. E’ più l’Ue che premeva sul progetto. Sono infinite le prove che non serve a nulla quel corridoio», dice da una Valsusa ormai militarizzata, Nicoletta Dosio.
Ora sarà interessante capire non solo quali saranno le conseguenze sull’erario dell’annullamento, ossia eventuali penali. Ma soprattutto le ricadute sulla compagine europea dove la decisione portoghese è considerata un «problema politico». Anche in Portogallo il progetto Tgv aveva scatenato polemiche sull’utilità di una linea che avrebbe tagliato fuori pezzi di territorio dalle comunicazioni.
Tutto ciò accade proprio mentre i trasporti pubblici in Portogallo sono praticamente paralizzati dal secondo sciopero generale - con manifestazioni di protesta nelle principali città -contro l’austerità del cosiddetto piano di salvataggio da 78 miliardi concordato con Ue e Fmi l’anno scorso. La metropolitana di Lisbona e i traghetti sul Tago sono fermi da questa notte, treni e autobus circolano solo in servizio minimo. Lo sciopero è stato deciso dal principale sindacato del paese, la Cgtp, senza l’appoggio questa volta del secondo sindacato, l’Ugt, che ha invece aderito in gennaio ad un accordo con il governo del premier conservatore Pedro Passos Coelho sulla riforma del lavoro.
Fonte.
L'insostenibile indebitamento dell'essere
Ieri si è suicidato l'ennesimo imprenditore - sono oltre 40 dall'inizio dell'anno - stretto fra le formidabili tenaglie del credit crunch
e impossibilitato a far fronte ai debiti. Per loro, la politica non ha
orecchie. Le loro richieste giacciono inascoltate sugli scaffali
polverosi dei ministeri. Ma se il Presidente dell'Abi reclama il
risanamento di una norma che (normalizzando le banche italiane rispetto a
quelle del resto del mondo) azzera le commissioni sui conti corrente
provocando al sistema bancario 10 miliardi di perdite, allora i politici saltano in piedi tra i banconi delle aule alla disperata ricerca di una soluzione. E la soluzione arriva immediatamente.
Secondo Morgan Stanley, sommando l’asta di dicembre a quella del 29 febbraio, la BCE ha dato a Intesa 36 miliardi di euro, 24 a Unicredit, 15 a Monte dei Paschi, 10 e mezzo a Ubi banca e 7 al Banco Popolare. Soldi buoni, avuti a un tasso privilegiato dell'1% anche per rilanciare l'economia, da restituire in tre anni. Le imprese non hanno visto niente. Perchè? Secondo la spiegazione comune, con quei soldi le banche hanno comprato titoli di stato italiani. Per abbassare lo spread. Per farci un piacere, insomma.
Ma cos'è questo spread? E' un differenziale che esprime confidenza: ovvero la fiducia che gli investitori hanno nel fatto che i titoli italiani a dieci anni, raffrontati a quelli analoghi tedeschi, finiscano per ripagare il loro valore più gli interessi. La misura di questa fiducia arriva dall'osservazione di come questi titoli vengano scambiati sul mercato secondario. Se vengono acquistati, significa che c'è fiducia e lo spread scende. Se vengono venduti, significa che c'è diffidenza e lo spread sale. Capite da soli che acquistare artificialmente titoli di stato, con soldi fabbricati ad hoc dalla BCE, è un'operazione che non può in alcun modo influire sullo spread, perché è evidente a chiunque che tale acquisto ingente non deriva da nessuna nuova confidenza acquisita, bensì da una speculazione in atto per tamponare un'emorragia. Anzi, si può ribaltare il discorso: più le banche acquistano titoli di stato in quantità massicce, su indicazioni della Banca Centrale Europea (e con i suoi soldi), più quel titolo di stato è debole e dunque non rappresenta un buon investimento. Perché dunque non disfarsene?
Inoltre, se è vero che le banche acquistano titoli di stato italiani per salvare la nostra economia, allora perchè, pur avendo ricevuto i soldi ad un tasso di interesse dell'1%, ce li rivendono (acquistando i nostri titoli) ad un tasso medio del 4,8%? Se quei soldi sono stati "fabbricati" per acquistare i nostri titoli di stato, e se la BCE non può acquistare titoli di stato per regolamento interno e per questo li presta alle banche, allora perché queste banche non comprano i titoli italiani, perlomeno quelli fino a 3 anni, ad un tasso nominale e simbolico dell'1%? Caricando il 4% di interessi, le banche non salvano proprio nessuno, se non se stesse, perché non fanno altro che indebitare ulteriormente il popolo e ricapitalizzarsi sulle nostre spalle.
Le banche fabbricano quattrini (la chiamano "immissione di liquidità") per consentire ad altre banche di fare soldi e generare dividendi. La questione non è ininfluente, perché è proprio a causa di quegli interessi maturati che oggi i pensionati, i lavoratori, i cittadini insomma, sono costretti a vendere le case, chiudere le loro imprese e - alcuni di loro - perfino a scegliere la strada del suicidio.
Fino a quando non ci renderemo conto che questo meccanismo perverso è sbagliato e rappresenta un cancro che divora dall'interno il benessere dei popoli, non risolveremo davvero il problema. E non sarà certo un governo di tecnici e di professori di economia, consulenti Goldman Sachs e banchieri, a poter gettare sul piatto soluzioni nuove, in grado di prospettare un futuro diverso nel quale la speculazione finanziaria assuma un assetto meno predatorio. Anzi: loro sono casomai parte del problema, avendo contribuito a costruire e poi ad alimentare questo mastodontico sistema di ingranaggi destinato fatalmente ad incepparsi, non appena il tasso di impoverimento costante che ne alimenta il movimento finirà per lievitare a livelli insostenibili.
Fonte.
Secondo Morgan Stanley, sommando l’asta di dicembre a quella del 29 febbraio, la BCE ha dato a Intesa 36 miliardi di euro, 24 a Unicredit, 15 a Monte dei Paschi, 10 e mezzo a Ubi banca e 7 al Banco Popolare. Soldi buoni, avuti a un tasso privilegiato dell'1% anche per rilanciare l'economia, da restituire in tre anni. Le imprese non hanno visto niente. Perchè? Secondo la spiegazione comune, con quei soldi le banche hanno comprato titoli di stato italiani. Per abbassare lo spread. Per farci un piacere, insomma.
Ma cos'è questo spread? E' un differenziale che esprime confidenza: ovvero la fiducia che gli investitori hanno nel fatto che i titoli italiani a dieci anni, raffrontati a quelli analoghi tedeschi, finiscano per ripagare il loro valore più gli interessi. La misura di questa fiducia arriva dall'osservazione di come questi titoli vengano scambiati sul mercato secondario. Se vengono acquistati, significa che c'è fiducia e lo spread scende. Se vengono venduti, significa che c'è diffidenza e lo spread sale. Capite da soli che acquistare artificialmente titoli di stato, con soldi fabbricati ad hoc dalla BCE, è un'operazione che non può in alcun modo influire sullo spread, perché è evidente a chiunque che tale acquisto ingente non deriva da nessuna nuova confidenza acquisita, bensì da una speculazione in atto per tamponare un'emorragia. Anzi, si può ribaltare il discorso: più le banche acquistano titoli di stato in quantità massicce, su indicazioni della Banca Centrale Europea (e con i suoi soldi), più quel titolo di stato è debole e dunque non rappresenta un buon investimento. Perché dunque non disfarsene?
Inoltre, se è vero che le banche acquistano titoli di stato italiani per salvare la nostra economia, allora perchè, pur avendo ricevuto i soldi ad un tasso di interesse dell'1%, ce li rivendono (acquistando i nostri titoli) ad un tasso medio del 4,8%? Se quei soldi sono stati "fabbricati" per acquistare i nostri titoli di stato, e se la BCE non può acquistare titoli di stato per regolamento interno e per questo li presta alle banche, allora perché queste banche non comprano i titoli italiani, perlomeno quelli fino a 3 anni, ad un tasso nominale e simbolico dell'1%? Caricando il 4% di interessi, le banche non salvano proprio nessuno, se non se stesse, perché non fanno altro che indebitare ulteriormente il popolo e ricapitalizzarsi sulle nostre spalle.
Le banche fabbricano quattrini (la chiamano "immissione di liquidità") per consentire ad altre banche di fare soldi e generare dividendi. La questione non è ininfluente, perché è proprio a causa di quegli interessi maturati che oggi i pensionati, i lavoratori, i cittadini insomma, sono costretti a vendere le case, chiudere le loro imprese e - alcuni di loro - perfino a scegliere la strada del suicidio.
Fino a quando non ci renderemo conto che questo meccanismo perverso è sbagliato e rappresenta un cancro che divora dall'interno il benessere dei popoli, non risolveremo davvero il problema. E non sarà certo un governo di tecnici e di professori di economia, consulenti Goldman Sachs e banchieri, a poter gettare sul piatto soluzioni nuove, in grado di prospettare un futuro diverso nel quale la speculazione finanziaria assuma un assetto meno predatorio. Anzi: loro sono casomai parte del problema, avendo contribuito a costruire e poi ad alimentare questo mastodontico sistema di ingranaggi destinato fatalmente ad incepparsi, non appena il tasso di impoverimento costante che ne alimenta il movimento finirà per lievitare a livelli insostenibili.
Fonte.
Somalia, il nemico alle porte
Il Consiglio Affari esteri ha deciso di prolungare fino alla fine di
dicembre 2014 l’operazione dell’Unione Europea denominata ‘Atalanta’ per
la lotta contro la pirateria. Gli obiettivi principali dell’operazione
sono di proteggere le navi del programma alimentare mondiale che
forniscono gli aiuti alimentari alle popolazioni somale rifugiate e di
lottare contro la pirateria al largo delle coste somale. La decisione
del Consiglio prevede però alcune importanti novità: l’allargamento
delle zone dell’operazione, “alle acque territoriali, alle acque
interne, al territorio costiero della Somalia e al suo spazio aereo”.
“La lotta contro la pirateria e contro le sue ragioni profonde – ha
detto l’Alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue Catherine
Ashton – è una priorità dell’azione che conduciamo nel Corno d’Africa.
L’operazione Atalanta ha portato un contributo importante a questo
sforzo, coordinandolo con i partner internazionali”.
Dietro le parole di circostanza del ministro degli Esteri europeo vi è la richiesta del primo ministro somalo, Abdiweli Mohamed Ali, che nelle scorse settimane ha inviato al Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon una lettera nella quale si chiedeva di consentire l’ampliamento delle prerogative e degli obiettivi della missione navale. Non proprio una invasione della sovranità somala, ma una modifica del mandato con pericolose conseguenze. Il passaggio dalla prevenzione degli atti di pirateria in mare alle operazioni in una zona specifica d’intervento in terra potrebbe essere interpretato come la creazione di una forza d’occupazione. Un’estensione delle prerogative che potrebbe portare a una pericolosa escalation nel territorio, già piagato da un conflitto civile decennale. Il governo di transizione somalo infatti controlla solo la capitale Mogadiscio, metnre il gruppo radicale dei militanti al-Shabab, saldatosi recentemente ad al-Qaeda, mantiene il controllo di large porzioni di territorio.
Abbandonata per anni al suo destino nell’indifferenza internazionale, la regione del Corno d’Africa è tornata a sollecitare l’interesse dei Paesi occidentali dopo che nella regione autonoma del Puntland sono stati scoperti ingenti giacimenti di petrolio. Le esplorazioni della società canadese Africa Oil hanno individuato risorse per 4 miliardi di barili di greggio, ma il sottosuolo dell’intero Puntland potrebbe nascondere ben 10 miliardi di barili. La corsa all’oro nero potrebbe coinvolgere anche vaste aree oceaniche: al largo delle coste somale, negli abissi dell’Oceano Indiano, potrebbero infatti attendere l’estrazione addirittura circa 100 miliardi di barili.
Il ministro degli Esteri britannico William Hague è andato in visita a Mogadiscio meno di un mese fa. L’Observer notava come Londra stia trattando aiuti umanitari e assistenza per la sicurezza del Paese in cambio della sua fetta energetica. Dietro le quinte, il ministro per la cooperazione internazionale del Puntland, confermava al settimanale britannico: “I rappresentanti britannici ci hanno offerto aiuto nella futura gestione degli introiti petroliferi. Ci sosterranno tecnicamente per massimizzare i futuri guadagni dell’industria petrolifera”. Un ‘aiuto’ che potrebbe presto provenire anche dalla missione europea Atalanta, che si sposa perfettamente con il credo degli interventi armati multinazionali degli ultimi decenni: lotta al terrorismo e alla pirateria allo scopo di proteggere la democrazia. Sostituire, anche in questo caso, democrazia con fonti energetiche.
Fonte.
Sempre più convinto che facciamo più schifo che spavento.
Dietro le parole di circostanza del ministro degli Esteri europeo vi è la richiesta del primo ministro somalo, Abdiweli Mohamed Ali, che nelle scorse settimane ha inviato al Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon una lettera nella quale si chiedeva di consentire l’ampliamento delle prerogative e degli obiettivi della missione navale. Non proprio una invasione della sovranità somala, ma una modifica del mandato con pericolose conseguenze. Il passaggio dalla prevenzione degli atti di pirateria in mare alle operazioni in una zona specifica d’intervento in terra potrebbe essere interpretato come la creazione di una forza d’occupazione. Un’estensione delle prerogative che potrebbe portare a una pericolosa escalation nel territorio, già piagato da un conflitto civile decennale. Il governo di transizione somalo infatti controlla solo la capitale Mogadiscio, metnre il gruppo radicale dei militanti al-Shabab, saldatosi recentemente ad al-Qaeda, mantiene il controllo di large porzioni di territorio.
Abbandonata per anni al suo destino nell’indifferenza internazionale, la regione del Corno d’Africa è tornata a sollecitare l’interesse dei Paesi occidentali dopo che nella regione autonoma del Puntland sono stati scoperti ingenti giacimenti di petrolio. Le esplorazioni della società canadese Africa Oil hanno individuato risorse per 4 miliardi di barili di greggio, ma il sottosuolo dell’intero Puntland potrebbe nascondere ben 10 miliardi di barili. La corsa all’oro nero potrebbe coinvolgere anche vaste aree oceaniche: al largo delle coste somale, negli abissi dell’Oceano Indiano, potrebbero infatti attendere l’estrazione addirittura circa 100 miliardi di barili.
Il ministro degli Esteri britannico William Hague è andato in visita a Mogadiscio meno di un mese fa. L’Observer notava come Londra stia trattando aiuti umanitari e assistenza per la sicurezza del Paese in cambio della sua fetta energetica. Dietro le quinte, il ministro per la cooperazione internazionale del Puntland, confermava al settimanale britannico: “I rappresentanti britannici ci hanno offerto aiuto nella futura gestione degli introiti petroliferi. Ci sosterranno tecnicamente per massimizzare i futuri guadagni dell’industria petrolifera”. Un ‘aiuto’ che potrebbe presto provenire anche dalla missione europea Atalanta, che si sposa perfettamente con il credo degli interventi armati multinazionali degli ultimi decenni: lotta al terrorismo e alla pirateria allo scopo di proteggere la democrazia. Sostituire, anche in questo caso, democrazia con fonti energetiche.
Fonte.
Sempre più convinto che facciamo più schifo che spavento.
Da via Fani a via D’Amelio, il filo rosso che unisce le morti di Moro e Borsellino
Quattordici anni lontani, distanti uno dall’altro. Le morti di Aldo Moro e di Paolo Borsellino
sembrano essere legate dal tradimento. Di quella parte di Stato che
entrambi, con ruoli diversi difendevano. E per il quale hanno, alla
fine, dato la vita. Le lettere scritte da Moro durante i 55 giorni della
prigionia sono un potente e implacabile atto d’accusa per la politica
italiana. Le ultime rivelazioni che giungono da Caltanissetta sugli
ultimi giorni di Borsellino rappresentano un colpo micidiale per la
credibilità della lotta alla mafia.
C’è un luogo ben preciso e ricco di significati dove lo Stato e l’anti Stato si incontrano. È il Cafè de Paris, da simbolo della Dolce Vita romana negli Anni Sessanta a emblema dell’infiltrazione criminale nella Capitale nei nostri giorni. A pochi giorni di distanza dal 16 marzo 1978, giorno del sequestro di Aldo Moro, Francesco Fonti – oggi meglio conosciuto come il pentito che ha raccontato le vicende delle navi dei veleni – viene convocato dalla sua cosca, Romeo, a San Luca e gli viene detto di andare a Roma. Dalla Dc calabrese erano venute pressanti richieste alle cosche per attivarsi al fine della liberazione di Moro. Pressioni – ricorda Fonti – erano venute anche dalla segreteria nazionale e dal segretario Benigno Zaccagnini, morto a Ravenna il 5 novembre 1989. Fu proprio nel locale di via Veneto, che Fonti incontrò l’esponente democristiano: «E’ un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico – disse il politico – e non avrei mai potuto pensare che oggi potessi essere seduto davanti a lei in qualità di petulante, ma è così». Fonti ricorda come Zaccagnini non facesse nulla per nascondere il proprio “schifo”: «Non sono mai sceso a compromessi – riprese – ma se sono venuto ad incontrarla significa che il sistema sta cambiando, faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva, ci dia una mano e la Dc di cui mi faccio garante saprà sdebitarsi». Prima di andarsene, disse: «Non ci siamo mai incontrati se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona lo dica all’agente Pino». Quello che Zaccagnini non sapeva era che Fonti, uomo organico all’organizzazione criminale, da nove anni frequentava con profitto le stanze di Forte Braschi. E che già conosceva l’agente Pino. Moro non venne salvato. Certo non per colpa di Fonti che, anzi, tornato in Calabria, riferì delle ricerche avviate. Ma venne bruscamente stoppato: «La vicenda non interessa più», gli fu detto.
Secondo più di una testimonianza, quando le Br rapiscono Aldo Moro, uccidendo i cinque componenti della scorta, in via Fani ci sono due presenze sospette. La prima è quella di un Colonnello del Sismi, Camillo Guglielmi, presenza che non ha mai ricevuto una accettabile spiegazione. Guglielmi riferì di aver ricevuto un invito a pranzo presso un collega; quest’ultimo confermò di averne ricevuto la visita, ma non la circostanza dell’invito a pranzo, che comunque non avrebbe potuto giustificare la presenza del Guglielmi in via Fani alle nove del mattino. La seconda presenza anomala, secondo quanto raccontato dall’ex boss Saverio Morabito, sarebbe quella di un elemento di spicco della ‘ndrangheta calabrese, Antonio Nirta, infiltrato, attraverso i servizi, nelle Brigate rosse.
‘Ndrangheta e servizi. Un mix che Francesco Fonti conosce bene. È il 1966 quando il giovane Ciccio legherà per sempre i suoi destini a quelli della ‘ndrangheta. Lo stesso anno, in altra parte del nostro Paese, un altro giovane iniziava la sua carriera nei servizi segreti. Era Guido Giannettini, giornalista esperto di strategie militari e assiduo frequentatore del Movimento sociale italiano. Uno che di sé diceva: «Io sono contro la democrazia. Sono fascista, da sempre. Meglio, sono nazifascista. Uomini come me lavorano perché in Italia si arrivi a un colpo di Stato militare. O alla guerra civile». Nel 1969, le strade di Giannettini e di Fonti si incontrano. A Roma, nella hall di un albergo, l’allora criminale calabrese viene avvicinato dall’uomo dei servizi, che usava come nome di copertura Mario Francovich (altre volte preferirà quello di Adriano Corso). Nome in codice Z, Giannettini «sapeva tutto di me e delle mie conoscenze con il mondo della ‘ndrangheta – ricorda Fonti – mi disse che era un agente dei servizi segreti e che voleva informazioni che avrebbero portato dei benefici alla ‘ndrangheta. Fonti viene arruolato nei servizi segreti. E regolarmente retribuito. Giannettini non sempre è in Italia e indica al calabrese un suo uomo di fiducia, che all’occorrenza lo aiuterà e dal quale dovrà pure prendere ordini: si tratta dell’agente Pino, lo stesso che nove anni dopo diverrà il suo tramite con Zaccagnini.
A leggere le carte dell’inchiesta di Caltanissetta, quella di via D’Amelio è una tragedia annunciata. Sulla scena si muovono agenti segreti, politici, mafiosi e pentiti. E Borsellino si rende conto di essere rimasto davvero solo diciotto giorni prima di venire ucciso. A Roma, mentre sta interrogando negli uffici della Dia il pentito Gaspare Mutolo, riceve una telefonata dell’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi. L’interrogatorio viene sospeso e Borsellino raggiunge il Viminale dove, è confermato da più testimoni, incontra Parisi, ma anche il prefetto, Luigi Rossi, e il ministro dell’Interno Nicola Mancino. Con lui c’è il magistrato Vittorio Aliquò, che conferma ancora oggi la circostanza: «Entrammo contemporaneamente nello studio del ministro, l’incontro durò pochi minuti, durante i quali furono scambiati alcuni convenevoli, tanto che uscimmo delusi perché era nostra intenzione affrontare il tema del contrasto alla mafia in Sicilia».
Mutolo racconterà che quando il giudice tornò alla Dia, per riprendere il suo interrogatorio, il suo umore era completamente cambiato: «Era molto agitato», aggiungendo di aver appreso che a quell’incontro, insieme a Parisi, c’era anche Bruno Contrada. Secondo le inchieste (e i processi), basati sulle dichiarazioni di quattro pentiti, e tra questi c’è anche Mutolo, Contrada, che per 24 anni prestò servizio a Palermo passando dalla Mobile al Sisde, era colluso con Cosa Nostra. Lo 007 sarà arrestato pochi mesi dopo, il 24 dicembre, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Sentito dalla procura di Caltanissetta, l’11 novembre 2010, Contrada ha negato quell’incontro: «Ribadisco che nel ‘92 io non ebbi mai occasione di incontrare il capo della polizia Parisi. Non può essere che abbia incontrato, anche occasionalmente, il dottor Borsellino presso il ministero, perché mi ricorderei anche gli eventuali argomenti trattati». Per i magistrati di Caltanissetta non è così. Borsellino, nei giorni immediatamente precedenti la strage di via D’Amelio, incontrò a Roma, almeno in due occasioni, Mancino, Parisi, Rossi e intorno al 10 luglio incrociò casualmente nella segreteria di Parisi anche Contrada.
Anche Mancino non ricorda. L’11 marzo scorso, rispondendo alle domande del Corriere, l’ex ministro nega, verosimilmente, di aver mai conosciuto Borsellino, smentendo pure i ricordi di Aliquò. Borsellino, in quelle stesse ore, era certamente a conoscenza che pezzi dello Stato erano giunti a patti con la mafia. La procura di Caltanissetta, pur demolendo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, conferma. E’ certo che percepì «un senso di fastidio trasversale alle varie forze politiche nei confronti della politica antimafia perseguita da lui». Lo stesso capo dello Stato, Scalfaro, gli espresse alcuni dubbi sul decreto Falcone, quello appena approvato che introduceva il 41 bis. Così come era certamente a conoscenza, e sarà l’allora braccio destro di Falcone, Liliana Ferraro, a confermarlo, che i carabinieri del Ros (Mori e De Donno) avevano cominciato a raccogliere le dichiarazioni di Ciancimino per “fermare le stragi”. I ricordi della Ferraro, che aveva inviato il capitano Giuseppe De Donno a riferire tutto a Borsellino, sono confermati dagli appunti del giudice. Per i magistrati di Caltanissetta quest’ultimo elemento «aggiunge un ulteriore tassello all’ipotesi dell’esistenza di un collegamento tra la conoscenza della trattativa da parte di Borsellino, la sua percezione quale “ostacolo” da parte di Riina e la conseguente accelerazione della esecuzione della strage». Borsellino era contrario a trattare con la mafia, e forse è proprio questo ad averlo condannato a morte. Anche Claudio Martelli, allora ministro della Giustizia, apprese le stesse cose dalla Ferraro e giudicò il comportamento degli ufficiali del Ros «non ortodosso e quasi d’insubordinazione».
C’è un racconto, poi, che fa tremare i polsi più di ogni altra cosa, ed è l’immagine più chiara di quell’epoca. A parlare davanti ai magistrati di Caltanisetta, diciassette anni dopo via D’Amelio, è Agnese Borsellino, e sono parole che la moglie del giudice non aveva mai pronunciato prima. «Ricordo un episodio che mi colpì moltissimo e del quale finora non ho mai parlato nel timore di recare pregiudizio all’immagine dell’Arma dei Carabinieri. Mi riferisco a una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992. Mi trovavo a casa con mio marito, verso sera, e conversando con lo stesso nel balcone della nostra abitazione notai Paolo sconvolto e, nell’occasione, mi disse testualmente “ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il Generale Subranni era “pungiutu”». Pungiutu, cioè mafioso. E allora, se così fosse, è naturale domandarsi da che parte erano alcuni pezzi dello Stato.
Fonte.
C’è un luogo ben preciso e ricco di significati dove lo Stato e l’anti Stato si incontrano. È il Cafè de Paris, da simbolo della Dolce Vita romana negli Anni Sessanta a emblema dell’infiltrazione criminale nella Capitale nei nostri giorni. A pochi giorni di distanza dal 16 marzo 1978, giorno del sequestro di Aldo Moro, Francesco Fonti – oggi meglio conosciuto come il pentito che ha raccontato le vicende delle navi dei veleni – viene convocato dalla sua cosca, Romeo, a San Luca e gli viene detto di andare a Roma. Dalla Dc calabrese erano venute pressanti richieste alle cosche per attivarsi al fine della liberazione di Moro. Pressioni – ricorda Fonti – erano venute anche dalla segreteria nazionale e dal segretario Benigno Zaccagnini, morto a Ravenna il 5 novembre 1989. Fu proprio nel locale di via Veneto, che Fonti incontrò l’esponente democristiano: «E’ un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico – disse il politico – e non avrei mai potuto pensare che oggi potessi essere seduto davanti a lei in qualità di petulante, ma è così». Fonti ricorda come Zaccagnini non facesse nulla per nascondere il proprio “schifo”: «Non sono mai sceso a compromessi – riprese – ma se sono venuto ad incontrarla significa che il sistema sta cambiando, faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva, ci dia una mano e la Dc di cui mi faccio garante saprà sdebitarsi». Prima di andarsene, disse: «Non ci siamo mai incontrati se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona lo dica all’agente Pino». Quello che Zaccagnini non sapeva era che Fonti, uomo organico all’organizzazione criminale, da nove anni frequentava con profitto le stanze di Forte Braschi. E che già conosceva l’agente Pino. Moro non venne salvato. Certo non per colpa di Fonti che, anzi, tornato in Calabria, riferì delle ricerche avviate. Ma venne bruscamente stoppato: «La vicenda non interessa più», gli fu detto.
Secondo più di una testimonianza, quando le Br rapiscono Aldo Moro, uccidendo i cinque componenti della scorta, in via Fani ci sono due presenze sospette. La prima è quella di un Colonnello del Sismi, Camillo Guglielmi, presenza che non ha mai ricevuto una accettabile spiegazione. Guglielmi riferì di aver ricevuto un invito a pranzo presso un collega; quest’ultimo confermò di averne ricevuto la visita, ma non la circostanza dell’invito a pranzo, che comunque non avrebbe potuto giustificare la presenza del Guglielmi in via Fani alle nove del mattino. La seconda presenza anomala, secondo quanto raccontato dall’ex boss Saverio Morabito, sarebbe quella di un elemento di spicco della ‘ndrangheta calabrese, Antonio Nirta, infiltrato, attraverso i servizi, nelle Brigate rosse.
‘Ndrangheta e servizi. Un mix che Francesco Fonti conosce bene. È il 1966 quando il giovane Ciccio legherà per sempre i suoi destini a quelli della ‘ndrangheta. Lo stesso anno, in altra parte del nostro Paese, un altro giovane iniziava la sua carriera nei servizi segreti. Era Guido Giannettini, giornalista esperto di strategie militari e assiduo frequentatore del Movimento sociale italiano. Uno che di sé diceva: «Io sono contro la democrazia. Sono fascista, da sempre. Meglio, sono nazifascista. Uomini come me lavorano perché in Italia si arrivi a un colpo di Stato militare. O alla guerra civile». Nel 1969, le strade di Giannettini e di Fonti si incontrano. A Roma, nella hall di un albergo, l’allora criminale calabrese viene avvicinato dall’uomo dei servizi, che usava come nome di copertura Mario Francovich (altre volte preferirà quello di Adriano Corso). Nome in codice Z, Giannettini «sapeva tutto di me e delle mie conoscenze con il mondo della ‘ndrangheta – ricorda Fonti – mi disse che era un agente dei servizi segreti e che voleva informazioni che avrebbero portato dei benefici alla ‘ndrangheta. Fonti viene arruolato nei servizi segreti. E regolarmente retribuito. Giannettini non sempre è in Italia e indica al calabrese un suo uomo di fiducia, che all’occorrenza lo aiuterà e dal quale dovrà pure prendere ordini: si tratta dell’agente Pino, lo stesso che nove anni dopo diverrà il suo tramite con Zaccagnini.
A leggere le carte dell’inchiesta di Caltanissetta, quella di via D’Amelio è una tragedia annunciata. Sulla scena si muovono agenti segreti, politici, mafiosi e pentiti. E Borsellino si rende conto di essere rimasto davvero solo diciotto giorni prima di venire ucciso. A Roma, mentre sta interrogando negli uffici della Dia il pentito Gaspare Mutolo, riceve una telefonata dell’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi. L’interrogatorio viene sospeso e Borsellino raggiunge il Viminale dove, è confermato da più testimoni, incontra Parisi, ma anche il prefetto, Luigi Rossi, e il ministro dell’Interno Nicola Mancino. Con lui c’è il magistrato Vittorio Aliquò, che conferma ancora oggi la circostanza: «Entrammo contemporaneamente nello studio del ministro, l’incontro durò pochi minuti, durante i quali furono scambiati alcuni convenevoli, tanto che uscimmo delusi perché era nostra intenzione affrontare il tema del contrasto alla mafia in Sicilia».
Mutolo racconterà che quando il giudice tornò alla Dia, per riprendere il suo interrogatorio, il suo umore era completamente cambiato: «Era molto agitato», aggiungendo di aver appreso che a quell’incontro, insieme a Parisi, c’era anche Bruno Contrada. Secondo le inchieste (e i processi), basati sulle dichiarazioni di quattro pentiti, e tra questi c’è anche Mutolo, Contrada, che per 24 anni prestò servizio a Palermo passando dalla Mobile al Sisde, era colluso con Cosa Nostra. Lo 007 sarà arrestato pochi mesi dopo, il 24 dicembre, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Sentito dalla procura di Caltanissetta, l’11 novembre 2010, Contrada ha negato quell’incontro: «Ribadisco che nel ‘92 io non ebbi mai occasione di incontrare il capo della polizia Parisi. Non può essere che abbia incontrato, anche occasionalmente, il dottor Borsellino presso il ministero, perché mi ricorderei anche gli eventuali argomenti trattati». Per i magistrati di Caltanissetta non è così. Borsellino, nei giorni immediatamente precedenti la strage di via D’Amelio, incontrò a Roma, almeno in due occasioni, Mancino, Parisi, Rossi e intorno al 10 luglio incrociò casualmente nella segreteria di Parisi anche Contrada.
Anche Mancino non ricorda. L’11 marzo scorso, rispondendo alle domande del Corriere, l’ex ministro nega, verosimilmente, di aver mai conosciuto Borsellino, smentendo pure i ricordi di Aliquò. Borsellino, in quelle stesse ore, era certamente a conoscenza che pezzi dello Stato erano giunti a patti con la mafia. La procura di Caltanissetta, pur demolendo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, conferma. E’ certo che percepì «un senso di fastidio trasversale alle varie forze politiche nei confronti della politica antimafia perseguita da lui». Lo stesso capo dello Stato, Scalfaro, gli espresse alcuni dubbi sul decreto Falcone, quello appena approvato che introduceva il 41 bis. Così come era certamente a conoscenza, e sarà l’allora braccio destro di Falcone, Liliana Ferraro, a confermarlo, che i carabinieri del Ros (Mori e De Donno) avevano cominciato a raccogliere le dichiarazioni di Ciancimino per “fermare le stragi”. I ricordi della Ferraro, che aveva inviato il capitano Giuseppe De Donno a riferire tutto a Borsellino, sono confermati dagli appunti del giudice. Per i magistrati di Caltanissetta quest’ultimo elemento «aggiunge un ulteriore tassello all’ipotesi dell’esistenza di un collegamento tra la conoscenza della trattativa da parte di Borsellino, la sua percezione quale “ostacolo” da parte di Riina e la conseguente accelerazione della esecuzione della strage». Borsellino era contrario a trattare con la mafia, e forse è proprio questo ad averlo condannato a morte. Anche Claudio Martelli, allora ministro della Giustizia, apprese le stesse cose dalla Ferraro e giudicò il comportamento degli ufficiali del Ros «non ortodosso e quasi d’insubordinazione».
C’è un racconto, poi, che fa tremare i polsi più di ogni altra cosa, ed è l’immagine più chiara di quell’epoca. A parlare davanti ai magistrati di Caltanisetta, diciassette anni dopo via D’Amelio, è Agnese Borsellino, e sono parole che la moglie del giudice non aveva mai pronunciato prima. «Ricordo un episodio che mi colpì moltissimo e del quale finora non ho mai parlato nel timore di recare pregiudizio all’immagine dell’Arma dei Carabinieri. Mi riferisco a una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992. Mi trovavo a casa con mio marito, verso sera, e conversando con lo stesso nel balcone della nostra abitazione notai Paolo sconvolto e, nell’occasione, mi disse testualmente “ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il Generale Subranni era “pungiutu”». Pungiutu, cioè mafioso. E allora, se così fosse, è naturale domandarsi da che parte erano alcuni pezzi dello Stato.
Fonte.
Sicilia: il triangolo della morte
In Sicilia,in provincia di Siracusa, gli abitanti di Augusta, Priolo e
Melilli subiscono da anni l’inquinamento prodotto dall’industria
petrolchimica (Esso – gruppo Erg- Polimeri Europa – Sasol – Syndia) e
dall’impianto di gassificazione dell’Isab Energy.
In questo video, appena girato da Prospektiva Video, è riassunto la tragica situazione di questa terra, maltrattata da decenni con danni ambientali irreversibili. Per non parlare dell’impatto fatale sulla salute dei cittadini del “triangolo della morte”.
Fonte.
In questo video, appena girato da Prospektiva Video, è riassunto la tragica situazione di questa terra, maltrattata da decenni con danni ambientali irreversibili. Per non parlare dell’impatto fatale sulla salute dei cittadini del “triangolo della morte”.
Fonte.
I sassolini di Vittorio Cecchi Gori
Principessa e Amore abbaiano. Come il loro padrone, non si fidano più.
Istintive, presidiano l’entrata. Oltre la targa “Senatore Cecchi Gori”,
il tapis roulant nell’ingresso, la porta bianca, i filippini in livrea e
il filtro della fidanzata Philly, bionda, ex ballerina di burlesque,
c’è Vittorio. Dalle finestre affacciate su Palazzo Borghese grida: “Non
mollo”. Intorno il silenzio di chi è rimasto solo. Negli ultimi dieci
anni tra una perquisizione, un sequestro e qualche arresto: “Nel 2001
entrarono in 16, con le armi in pugno” ha sofferto. Il produttore
cinematografico che ebbe un impero, oggi sorveglia cause e macerie di
retroguardia. Gli occhi azzurri smarriti in un dedalo di rughe e
battaglie represse. L’ultima non ha data né calendario. Domani, sempre
domani, finché morte non lo separi: “Vincerò su ogni fronte, ma per
farlo, dovrei vivere ancora mezzo secolo. Chissà se mia madre mi avrà
fatto abbastanza forte?”.
Cecchi Gori, il giudice che si occupò del fallimento della Fiorentina è stato condannato a 15 anni.
Si chiama Puliga. Era accusato di corruzione, peculato, abuso d’ufficio, falso, interesse privato in procedure concorsuali e concorso in bancarotta. Interdetto per sempre dai pubblici uffici. Fagocitò la Fiorentina e mi mandò in malora. Le basta? Avevo ragione e ho fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Lì forse mi ascolteranno e forse avrò finalmente un po’ di giustizia. Poi quel che sarà sarà.
Ne è sicuro?
Ci spero. Con i miei avvocati, trascorro una luna di miele senza pause. Studiamo le carte tutti i giorni. Un magistrato non avrebbe dovuto alterare il quadro per favorire qualcun altro.
Attacca la magistratura?
Al contrario. La rispetto e mi piacerebbe credere che quella piccola percentuale disonesta si possa ravvedere.
Quale percentuale?
È un tumore maligno del nostro paese. Un potere enorme al servizio dei soliti noti che hanno potuto fare tutto ciò che hanno voluto. L’altro giorno ho incontrato Di Pietro e gliel’ho detto.
Era d’accordo?
Totalmente. Ci sono ex presidenti del Consiglio italiani che pur imputati in processi con gravi accuse sulla testa non si sono mai fatti un giorno di galera. Sono mai andati dentro? Se vogliono posso raccontare com’è. In prigione ho trascorso qualche mese.
I suoi ex compagni in Parlamento?
Finte liquidazioni, pesce nelle vasche da bagno, conti all’estero. Il partito degli ignavi in questi anni ha saputo solo rubare e tacere. Rutelli e Marini mi fregarono, mi sbatterono ad Acireale, ma io in politica non sarei mai dovuto entrare. Lo feci per Martinazzoli e per combattere la battaglia sulle tv. Il grande errore della mia vita. Una strada pericolosa che mi ha quasi ucciso.
La politica di oggi?
Noia e disinteresse. Ma Berlusconi non tornerà.
Noiosa e peggiore di quella di ieri?
Ci scopriamo più sporchi e adesso tutti mi danno ragione. È la peggiore offesa che mi potessero fare. All’epoca eseguii le direttive. Ero l’imprenditore prestato alla politica, non il contrario, come nel disegno berlusconiano. Non ho mai dato una lira a nessuno.
Ha seguito l’affaire Margherita?
Certo, ma le dico la verità, non me ne importa nulla. Sesso, soldi facili, droga, che lezione ci ha lasciato la politica?
La droga la trovarono anche da lei.
Una barzelletta. Sapendo che sarei stato perquisito secondo lei, nella cassaforte e in bella vista avrei lasciato 4 grammi di cocaina? Ma non scherziamo. Se l’avessi usata non giocherei a tennis tutte le mattine. Ce la misero. E poi, a cagnara mediatica tramontata, in silenzio, mi assolsero.
Non stima nessuno nel Palazzo?
L’unico è Fini. Le sembrerà puerile, ma fu gentile con mia madre.
Ha mai conosciuto Lusi?
Mai. La politica costa, l’ipocrisia è lo sport nazionale ed è difficile che spariscano milioni nel nulla, ma l’ultima vera partita disputata sul suolo patrio, mi ripeto, fu quella decisiva per il controllo sulle televisioni.
Lei la perse.
Neanche un po’. Me la fecero perdere. Portai Tmc a 13 milioni di spettatori, spaventai, venni lasciato solo. Mi inventai l’Auditel di Stato. Un’idea rivoluzionaria che avrebbe reso il re nudo e messo in difficoltà Mediaset. La presero male. Addirittura ci fu qualcuno che mi minacciò per questo.
Chi la minacciò?
Un pubblicitario molto bene introdotto in certe televisioni. Il nome non lo faccio, eviterei le querele.
Con Berlusconi parla mai?
Sa chi è davvero Berlusconi? Il giorno del funerale di mio padre Mario, Silvio scrisse una bella lettera, venne al funerale e sostenne persino la bara. La mattina dopo, chiuse d’imperio le società Penta che avevamo costruito insieme.
Però.
Le racconto una storia. Un giorno mi telefona Bernasconi, mio caro amico, capo di Retitalia, l’uomo che nel processo Mills secondo l’accusa pagò l’avvocato inglese. Siamo nel 2001. Bernasconi disse: “Sono ricoverato al San Raffaele, ma non mi curano”. Era disperato. Contatto immediatamente Berlusconi: “Guarda che l’amico Carlo non sta bene”. Lo trasferirono al Niguarda e gli misero un cuore elettrico. Dopo tre giorni morì.
Cosa vuole dire?
Niente di particolare. Mi spiegate cosa è successo realmente a Bernasconi?
Almeno con Confalonieri parlava?
Certo. Mi chiamò per dirmi serio: “Tanto non scappi. La Library te la portiamo via. Ti facciamo fallire”. Risposi che era matto. Un paradosso. È la stessa cosa che dissero di me quando avvertii a tempo debito i democristiani nel ’92: “Guardate che di Publitalia Berlusconi farà un partito”. Non mi diedero retta. Ero il coglione in mezzo ai furbi.
I film glieli portarono via davvero.
Una grossa ferita che non si rimarginerà mai. Finché vivrò combatterò per riaverli. La storia del cinema italiano svenduta. Monicelli, Pasolini, Benigni, Risi, Verdone e tanti altri ancora. Gli stessi 800 film che per pochi passaggi tv, anni fa, mi vennero pagati 200 milioni di euro, ceduti a Rti per due spicci. O ero stato bravo o gli altri erano stati stupidi. Lei non può immaginare quello che può rendere la Library, una fortuna letteralmente regalata.
Come?
Con un’asta convocata tramite annuncio sul giornale. All’udienza non si presentò nessuno e se la aggiudicò Rti.
Le hanno tolto anche l’Adriano.
L’hanno dato in gestione a un signore che non paga e che ha licenziato oltre la metà dei miei ragazzi. In tempi non sospetti denunciai alla Procura di Perugia quello che oggi accade puntualmente.
La 7 era sua.
Telecom non mi ha mai pagato. Un altro scandalo. Sa com’è? Quando i poteri forti decidono di schiacciarti sottrarsi è complicato. D’altronde se Telecom avesse pagato, io a mia volta avrei saldato l’unico mio debito reale, quello con Unicredit e sarebbero anche avanzati soldi per altri film.
I poteri forti?
So di cosa parlo.
Adombrano i poteri forti anche i Della Valle. La Fiorentina è a un passo dalla B.
Della Valle fu una pedina di un gioco più grande di lui e approfittò della situazione. I fiorentini l’hanno capito. In ritardo, ma l’hanno capito.
Da presidente della Fiorentina la accusarono di riciclaggio.
Come recita la sentenza: “Assolto per non aver commesso il fatto”. Intanto, per tre anni mi hanno bloccato i conti e fatto pagare in un solo giorno 50 milioni di trattenute.
Il calcio è una storia complicata.
Le scarpe nelle Marche o altrove non sapevo farle, ma in due cose eccellevo. Pallone e cinema. Me li hanno tolti entrambi. Un altro al posto mio sarebbe già diventato pazzo, ma io non mollo.
Non vinse lo scudetto però.
Me lo impedirono, ma dato che, tanto per essere chiari, vivo a Roma dal 1950 tentai di aiutare Sensi a vincere al posto mio: “Mi vogliono fottere, ma se vuoi ti cedo Batistuta”.
Lui accettò.
70 miliardi per un giocatore di 33 anni. Proprio stupido non ero, no?
Lei dice cose molto dure.
Non potermi esprimere rappresenterebbe la più grande sconfitta della mia vita. Vorrebbe dire che siamo in un regime stalinista. Mi rifiuto di crederlo.
Progetti?
Ho in programma un paio di coproduzioni in America, dove mi hanno chiesto di fare un film sulla mia vita.
Prova rancore?
Sono contro la violenza, ma qualche amarezza la provo. Il medico mi ha detto che sto bene, ma ho una nuvola sulla testa. La vendetta sarà tornare a vincere un Oscar. Non è meglio di diventare presidente del Consiglio?
Fonte.
E' dura dover digerire il fatto che il sistema ha riservato per te il ruolo di pedina d'onore perdente.
Cecchi Gori, il giudice che si occupò del fallimento della Fiorentina è stato condannato a 15 anni.
Si chiama Puliga. Era accusato di corruzione, peculato, abuso d’ufficio, falso, interesse privato in procedure concorsuali e concorso in bancarotta. Interdetto per sempre dai pubblici uffici. Fagocitò la Fiorentina e mi mandò in malora. Le basta? Avevo ragione e ho fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Lì forse mi ascolteranno e forse avrò finalmente un po’ di giustizia. Poi quel che sarà sarà.
Ne è sicuro?
Ci spero. Con i miei avvocati, trascorro una luna di miele senza pause. Studiamo le carte tutti i giorni. Un magistrato non avrebbe dovuto alterare il quadro per favorire qualcun altro.
Attacca la magistratura?
Al contrario. La rispetto e mi piacerebbe credere che quella piccola percentuale disonesta si possa ravvedere.
Quale percentuale?
È un tumore maligno del nostro paese. Un potere enorme al servizio dei soliti noti che hanno potuto fare tutto ciò che hanno voluto. L’altro giorno ho incontrato Di Pietro e gliel’ho detto.
Era d’accordo?
Totalmente. Ci sono ex presidenti del Consiglio italiani che pur imputati in processi con gravi accuse sulla testa non si sono mai fatti un giorno di galera. Sono mai andati dentro? Se vogliono posso raccontare com’è. In prigione ho trascorso qualche mese.
I suoi ex compagni in Parlamento?
Finte liquidazioni, pesce nelle vasche da bagno, conti all’estero. Il partito degli ignavi in questi anni ha saputo solo rubare e tacere. Rutelli e Marini mi fregarono, mi sbatterono ad Acireale, ma io in politica non sarei mai dovuto entrare. Lo feci per Martinazzoli e per combattere la battaglia sulle tv. Il grande errore della mia vita. Una strada pericolosa che mi ha quasi ucciso.
La politica di oggi?
Noia e disinteresse. Ma Berlusconi non tornerà.
Noiosa e peggiore di quella di ieri?
Ci scopriamo più sporchi e adesso tutti mi danno ragione. È la peggiore offesa che mi potessero fare. All’epoca eseguii le direttive. Ero l’imprenditore prestato alla politica, non il contrario, come nel disegno berlusconiano. Non ho mai dato una lira a nessuno.
Ha seguito l’affaire Margherita?
Certo, ma le dico la verità, non me ne importa nulla. Sesso, soldi facili, droga, che lezione ci ha lasciato la politica?
La droga la trovarono anche da lei.
Una barzelletta. Sapendo che sarei stato perquisito secondo lei, nella cassaforte e in bella vista avrei lasciato 4 grammi di cocaina? Ma non scherziamo. Se l’avessi usata non giocherei a tennis tutte le mattine. Ce la misero. E poi, a cagnara mediatica tramontata, in silenzio, mi assolsero.
Non stima nessuno nel Palazzo?
L’unico è Fini. Le sembrerà puerile, ma fu gentile con mia madre.
Ha mai conosciuto Lusi?
Mai. La politica costa, l’ipocrisia è lo sport nazionale ed è difficile che spariscano milioni nel nulla, ma l’ultima vera partita disputata sul suolo patrio, mi ripeto, fu quella decisiva per il controllo sulle televisioni.
Lei la perse.
Neanche un po’. Me la fecero perdere. Portai Tmc a 13 milioni di spettatori, spaventai, venni lasciato solo. Mi inventai l’Auditel di Stato. Un’idea rivoluzionaria che avrebbe reso il re nudo e messo in difficoltà Mediaset. La presero male. Addirittura ci fu qualcuno che mi minacciò per questo.
Chi la minacciò?
Un pubblicitario molto bene introdotto in certe televisioni. Il nome non lo faccio, eviterei le querele.
Con Berlusconi parla mai?
Sa chi è davvero Berlusconi? Il giorno del funerale di mio padre Mario, Silvio scrisse una bella lettera, venne al funerale e sostenne persino la bara. La mattina dopo, chiuse d’imperio le società Penta che avevamo costruito insieme.
Però.
Le racconto una storia. Un giorno mi telefona Bernasconi, mio caro amico, capo di Retitalia, l’uomo che nel processo Mills secondo l’accusa pagò l’avvocato inglese. Siamo nel 2001. Bernasconi disse: “Sono ricoverato al San Raffaele, ma non mi curano”. Era disperato. Contatto immediatamente Berlusconi: “Guarda che l’amico Carlo non sta bene”. Lo trasferirono al Niguarda e gli misero un cuore elettrico. Dopo tre giorni morì.
Cosa vuole dire?
Niente di particolare. Mi spiegate cosa è successo realmente a Bernasconi?
Almeno con Confalonieri parlava?
Certo. Mi chiamò per dirmi serio: “Tanto non scappi. La Library te la portiamo via. Ti facciamo fallire”. Risposi che era matto. Un paradosso. È la stessa cosa che dissero di me quando avvertii a tempo debito i democristiani nel ’92: “Guardate che di Publitalia Berlusconi farà un partito”. Non mi diedero retta. Ero il coglione in mezzo ai furbi.
I film glieli portarono via davvero.
Una grossa ferita che non si rimarginerà mai. Finché vivrò combatterò per riaverli. La storia del cinema italiano svenduta. Monicelli, Pasolini, Benigni, Risi, Verdone e tanti altri ancora. Gli stessi 800 film che per pochi passaggi tv, anni fa, mi vennero pagati 200 milioni di euro, ceduti a Rti per due spicci. O ero stato bravo o gli altri erano stati stupidi. Lei non può immaginare quello che può rendere la Library, una fortuna letteralmente regalata.
Come?
Con un’asta convocata tramite annuncio sul giornale. All’udienza non si presentò nessuno e se la aggiudicò Rti.
Le hanno tolto anche l’Adriano.
L’hanno dato in gestione a un signore che non paga e che ha licenziato oltre la metà dei miei ragazzi. In tempi non sospetti denunciai alla Procura di Perugia quello che oggi accade puntualmente.
La 7 era sua.
Telecom non mi ha mai pagato. Un altro scandalo. Sa com’è? Quando i poteri forti decidono di schiacciarti sottrarsi è complicato. D’altronde se Telecom avesse pagato, io a mia volta avrei saldato l’unico mio debito reale, quello con Unicredit e sarebbero anche avanzati soldi per altri film.
I poteri forti?
So di cosa parlo.
Adombrano i poteri forti anche i Della Valle. La Fiorentina è a un passo dalla B.
Della Valle fu una pedina di un gioco più grande di lui e approfittò della situazione. I fiorentini l’hanno capito. In ritardo, ma l’hanno capito.
Da presidente della Fiorentina la accusarono di riciclaggio.
Come recita la sentenza: “Assolto per non aver commesso il fatto”. Intanto, per tre anni mi hanno bloccato i conti e fatto pagare in un solo giorno 50 milioni di trattenute.
Il calcio è una storia complicata.
Le scarpe nelle Marche o altrove non sapevo farle, ma in due cose eccellevo. Pallone e cinema. Me li hanno tolti entrambi. Un altro al posto mio sarebbe già diventato pazzo, ma io non mollo.
Non vinse lo scudetto però.
Me lo impedirono, ma dato che, tanto per essere chiari, vivo a Roma dal 1950 tentai di aiutare Sensi a vincere al posto mio: “Mi vogliono fottere, ma se vuoi ti cedo Batistuta”.
Lui accettò.
70 miliardi per un giocatore di 33 anni. Proprio stupido non ero, no?
Lei dice cose molto dure.
Non potermi esprimere rappresenterebbe la più grande sconfitta della mia vita. Vorrebbe dire che siamo in un regime stalinista. Mi rifiuto di crederlo.
Progetti?
Ho in programma un paio di coproduzioni in America, dove mi hanno chiesto di fare un film sulla mia vita.
Prova rancore?
Sono contro la violenza, ma qualche amarezza la provo. Il medico mi ha detto che sto bene, ma ho una nuvola sulla testa. La vendetta sarà tornare a vincere un Oscar. Non è meglio di diventare presidente del Consiglio?
Fonte.
E' dura dover digerire il fatto che il sistema ha riservato per te il ruolo di pedina d'onore perdente.
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