Tra quelli che non stati invitati e quelli che hanno detto che non ci
saranno, il negoziato sulla Siria patrocinato dalle Nazioni Unite, che
riprende oggi a Ginevra, è segnato dalle assenze.
Non ci sono i curdi, alla cui partecipazione si è opposta la
Turchia, membro Nato che vuole a tutti i costi la caduta dell’odiato
presidente siriano Assad. Né si siederà al tavolo l’opposizione
sostenuta dai sauditi. Ieri l’High Negotiations Committee, nato
a dicembre dall’accordo tra alcuni dei maggiori gruppi dell’opposizione
siriana, ha annunciato che non parteciperà ai colloqui, poiché non sono
state soddisfatte le condizioni che aveva posto, tra cui il
raggiungimento di un accordo per far entrare aiuti nelle città sotto
assedio. In Siria sono una quindicina i centri abitati assediati sia
dalle truppe di Assad sia dai ribelli. Ci dovrebbe essere, invece, una
delegazione inviata dal presidente siriano.
Per l’inviato Onu Staffan de Mistura la strada è tutta in salita.
Ieri ha inviato un videomessaggio speranzoso ai siriani (“il negoziato
non può fallire”), stritolati da una guerra che ha fatto oltre 260mila
morti e milioni di sfollati e rifugiati. La lista dei partecipanti non è
stata resa nota e, forse, potrebbe cambiare nel corso dei colloqui che
dureranno sei mesi. Sono parte del piano Onu licenziato un anno fa a
Vienna, che prevede che i negoziati portino a un governo di transizione,
al varo di una nuova Costituzione e alle elezioni.
Paiono obiettivi davvero lontani, questi, guardando al campo di
battaglia che forse deciderà più della diplomazia le sorti della Siria.
In seguito all’intervento russo, la posizione di Assad si è rafforzata
ed è assai improbabile che possa essere estromesso dal potere, come
vorrebbero Ankara e Riad. Non è neanche chiaro quale sia l’opposizione
legittimata a trattare. Per non parlare dell’Isis e anche dei
qaedisti di Al Nusra che, ovviamente, non sono a Ginevra, ma in Siria
occupano ampi territori. Mosca e Washington in parte collaborano
(sostengono i curdi siriani contro l’Isis) in parte sono su fronti
opposti (i russi al fianco di Assad, gli americani con i turchi e i
sauditi).
A Ginevra i colloqui si terranno in stanze separate, con de Mistrura
che farà la spola tra le diverse delegazioni. L’obiettivo più immediato
potrebbe essere quello del raggiungimento di qualche tregua o l’apertura
di qualche corridoio umanitario, che potrebbero ridurre il numero dei
morti. Magari anche il numero dei profughi, aspetto che preme molto ai
Paesi europei poco propensi ad accogliere il flusso di rifugiati che sta
producendo il conflitto siriano.
Fonte
31/01/2016
Usa, giochi di guerra in Asia
di Michele Paris
Le iniziative del regime nordcoreano, tornate a occupare le prime pagine dei giornali in queste prime settimane dell’anno, continuano a essere sfruttate dagli Stati Uniti per esercitare pressioni sulla Cina, nel quadro del riallineamento strategico americano nel continente asiatico. L’esempio più recente si è avuto questa settimana durante la visita di due giorni a Pechino del segretario di Stato USA, John Kerry, impegnato a sollecitare pubblicamente il governo cinese a fare di più per contenere la minaccia rappresentata dal vicino indisciplinato.
La presunta detonazione da parte di Pyongyang di un ordigno all’idrogeno il 6 gennaio scorso è stata l’occasione per la nuova offensiva diplomatica internazionale contro il regime di Kim Jong-un, guidata come al solito da Washington.
Le preoccupazioni americane sono state espresse proprio da Kerry, il quale ne ha parlato apertamente mercoledì nel corso di una tesa conferenza stampa con il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi. L’ex senatore Democratico ha assicurato che il suo paese considera in maniera “estremamente seria” il programma nucleare nordcoreano ed è disposto ad “adottare qualsiasi misura necessaria per proteggere il nostro popolo e i nostri alleati”.
Kerry ha poi aggiunto che gli Stati Uniti “non intendono escludere alcuna opzione” nel contrastare la minaccia del regime “comunista”, pur non avendo intenzione di “alimentare le tensioni”. In realtà, il governo americano utilizza le mosse, spesso sconsiderate, di un regime al limite della disperazione precisamente per aumentare le tensioni nel nord-est asiatico, così da giustificare le pressioni sulla Cina e rafforzare la propria presenza militare.
Infatti, subito dopo il quarto test nucleare di Pyongyang a inizio gennaio, gli USA e la Corea del Sud hanno fatto sapere di avere avviato discussioni per posizionare sul territorio della penisola altre “risorse strategiche”, ovvero equipaggiamenti militari destinati a far fronte alla minaccia nordcoreana e non solo. A riprova delle intenzioni americane, qualche giorno dopo l’esperimento nucleare il Pentagono aveva provocatoriamente fatto volare sulla penisola di Corea un bombardiere B-52, in grado di trasportare armi atomiche.
Il segretario di Stato americano, in ogni caso, ha espresso in maniera chiara ciò che il suo governo si attende dalla Cina in merito alla questione della Corea del Nord. Dal momento che l’approccio di Pechino verso l’alleato “non ha funzionato”, non è più possibile continuare allo stesso modo. Washington chiede perciò ai cinesi non solo di assecondare una nuova risoluzione ONU, verosimilmente fatta di ulteriori sanzioni, ma di agire “unilateralmente” alla luce dell’influenza che Pechino può avere su Pyongyang.
Lo stesso Kerry ha elencato gli ambiti interessati da possibili iniziative restrittive, considerando che ci sono “alcuni tipi di merci e servizi che vengono scambiati tra la Corea del Nord e la Cina”, così come avvengono “movimenti di navi” e aerei, ma anche “scambi di… carbone e benzina”.
Gli Stati Uniti vorrebbero in sostanza assistere allo strangolamento dell’economia nordcoreana, visto che il regime, essendo di fatto tagliato fuori dai circuiti commerciali e finanziari internazionali per via delle sanzioni, ottiene praticamente solo dalla Cina gli approvvigionamenti necessari alla propria sopravvivenza e, in buona parte, a quella della popolazione.
Tutt’altro che sorprendentemente, gli inviti americani in questo senso continuano però a essere respinti da Pechino. Un blocco totale della Corea del Nord comporterebbe infatti una più che probabile implosione del regime, aprendo una crisi che verrebbe tempestivamente sfruttata da Stati Uniti e Corea del Sud. La Cina, sostanzialmente, rischierebbe di ritrovarsi con un regime filo-americano o, nella peggiore delle ipotesi, un’occupazione militare di forze ostili in tutta la penisola di Corea.
A Pechino vi è comunque una forte irritazione per il comportamento dell’alleato, poiché azioni come il recente test nucleare non fanno che offrire agli Stati Uniti l’occasione per mettere alle strette la Cina, facendo leva sulle ansie della comunità internazionale.
La Cina ha così condannato l’esperimento con la bomba all’idrogeno, ma ha nuovamente invitato Washington e i suoi alleati a tornare al tavolo delle trattative per risolvere pacificamente la questione nordcoreana. Allo stesso modo, Pechino non esclude l’appoggio a una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza, anche se, come ha spiegato il ministro degli Esteri Wang, essa “non dovrà causare altre tensioni… o destabilizzare la penisola coreana”.
L’iniziativa diplomatica nata attorno alla crisi nordcoreana coinvolge, oltre alle due Coree, gli Stati Uniti, la Cina, la Russia e il Giappone ed è ferma dal 2008 in seguito all’irrigidimento della posizione americana sotto l’amministrazione Bush. Il presidente Obama, da parte sua, non ha mai fatto nulla di serio per riaprire i negoziati, chiedendo invece a Pyongyang come condizione preliminare di rinunciare al proprio arsenale nucleare.
Grazie alla Corea del Nord, d’altra parte, gli USA in questi anni hanno potuto avanzare la propria agenda in Estremo Oriente. Dopo ogni crisi scoppiata con il regime dei Kim, Washington ha infatti ottenuto o avviato negoziati con i propri alleati – a cominciare dalla Corea del Sud – per espandere la propria presenza militare nella regione.
Ad esempio, in seguito al test nucleare nordcoreano del 2013, il Pentagono aveva annunciato il posizionamento di un sistema di missili balistici (THAAD) in Giappone. Questo stesso sistema è attualmente in fase di discussione con le autorità di Seoul per espanderlo alla Corea del Sud. Come si rendono perfettamente conto a Pechino, il vero obiettivo di questa escalation militare USA non è tanto la Corea del Nord e il suo relativamente rudimentale sistema difensivo, quanto la Cina, in previsione di un futuro conflitto provocato dalla crescente rivalità tra le prime due potenze economiche del pianeta.
La Corea del Nord – assieme principalmente alle contese territoriali tra la Cina e svariati paesi nel Mar Cinese Orientale e in quello Meridionale – rimarrà dunque al centro di questo confronto, mentre anche altri paesi della regione ne sono già coinvolti, come il Giappone. Proprio dalla stampa nipponica giovedì è stata diffusa la notizia che il regime di Kim si starebbe preparando a testare un missile balistico a lungo raggio, anche se ciò è vietato dalle sanzioni ONU.
La rivelazione dell’agenzia di stampa Kyodo ha innescato subito la risposta di Seoul, da dove il ministero della Difesa ha manifestato estrema preoccupazione, lasciando intendere che potrebbero essere prese nuove iniziative in conseguenza di un eventuale esperimento, con il risultato di inasprire lo scontro tra le parti contrapposte.
Fonte
Le iniziative del regime nordcoreano, tornate a occupare le prime pagine dei giornali in queste prime settimane dell’anno, continuano a essere sfruttate dagli Stati Uniti per esercitare pressioni sulla Cina, nel quadro del riallineamento strategico americano nel continente asiatico. L’esempio più recente si è avuto questa settimana durante la visita di due giorni a Pechino del segretario di Stato USA, John Kerry, impegnato a sollecitare pubblicamente il governo cinese a fare di più per contenere la minaccia rappresentata dal vicino indisciplinato.
La presunta detonazione da parte di Pyongyang di un ordigno all’idrogeno il 6 gennaio scorso è stata l’occasione per la nuova offensiva diplomatica internazionale contro il regime di Kim Jong-un, guidata come al solito da Washington.
Le preoccupazioni americane sono state espresse proprio da Kerry, il quale ne ha parlato apertamente mercoledì nel corso di una tesa conferenza stampa con il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi. L’ex senatore Democratico ha assicurato che il suo paese considera in maniera “estremamente seria” il programma nucleare nordcoreano ed è disposto ad “adottare qualsiasi misura necessaria per proteggere il nostro popolo e i nostri alleati”.
Kerry ha poi aggiunto che gli Stati Uniti “non intendono escludere alcuna opzione” nel contrastare la minaccia del regime “comunista”, pur non avendo intenzione di “alimentare le tensioni”. In realtà, il governo americano utilizza le mosse, spesso sconsiderate, di un regime al limite della disperazione precisamente per aumentare le tensioni nel nord-est asiatico, così da giustificare le pressioni sulla Cina e rafforzare la propria presenza militare.
Infatti, subito dopo il quarto test nucleare di Pyongyang a inizio gennaio, gli USA e la Corea del Sud hanno fatto sapere di avere avviato discussioni per posizionare sul territorio della penisola altre “risorse strategiche”, ovvero equipaggiamenti militari destinati a far fronte alla minaccia nordcoreana e non solo. A riprova delle intenzioni americane, qualche giorno dopo l’esperimento nucleare il Pentagono aveva provocatoriamente fatto volare sulla penisola di Corea un bombardiere B-52, in grado di trasportare armi atomiche.
Il segretario di Stato americano, in ogni caso, ha espresso in maniera chiara ciò che il suo governo si attende dalla Cina in merito alla questione della Corea del Nord. Dal momento che l’approccio di Pechino verso l’alleato “non ha funzionato”, non è più possibile continuare allo stesso modo. Washington chiede perciò ai cinesi non solo di assecondare una nuova risoluzione ONU, verosimilmente fatta di ulteriori sanzioni, ma di agire “unilateralmente” alla luce dell’influenza che Pechino può avere su Pyongyang.
Lo stesso Kerry ha elencato gli ambiti interessati da possibili iniziative restrittive, considerando che ci sono “alcuni tipi di merci e servizi che vengono scambiati tra la Corea del Nord e la Cina”, così come avvengono “movimenti di navi” e aerei, ma anche “scambi di… carbone e benzina”.
Gli Stati Uniti vorrebbero in sostanza assistere allo strangolamento dell’economia nordcoreana, visto che il regime, essendo di fatto tagliato fuori dai circuiti commerciali e finanziari internazionali per via delle sanzioni, ottiene praticamente solo dalla Cina gli approvvigionamenti necessari alla propria sopravvivenza e, in buona parte, a quella della popolazione.
Tutt’altro che sorprendentemente, gli inviti americani in questo senso continuano però a essere respinti da Pechino. Un blocco totale della Corea del Nord comporterebbe infatti una più che probabile implosione del regime, aprendo una crisi che verrebbe tempestivamente sfruttata da Stati Uniti e Corea del Sud. La Cina, sostanzialmente, rischierebbe di ritrovarsi con un regime filo-americano o, nella peggiore delle ipotesi, un’occupazione militare di forze ostili in tutta la penisola di Corea.
A Pechino vi è comunque una forte irritazione per il comportamento dell’alleato, poiché azioni come il recente test nucleare non fanno che offrire agli Stati Uniti l’occasione per mettere alle strette la Cina, facendo leva sulle ansie della comunità internazionale.
La Cina ha così condannato l’esperimento con la bomba all’idrogeno, ma ha nuovamente invitato Washington e i suoi alleati a tornare al tavolo delle trattative per risolvere pacificamente la questione nordcoreana. Allo stesso modo, Pechino non esclude l’appoggio a una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza, anche se, come ha spiegato il ministro degli Esteri Wang, essa “non dovrà causare altre tensioni… o destabilizzare la penisola coreana”.
L’iniziativa diplomatica nata attorno alla crisi nordcoreana coinvolge, oltre alle due Coree, gli Stati Uniti, la Cina, la Russia e il Giappone ed è ferma dal 2008 in seguito all’irrigidimento della posizione americana sotto l’amministrazione Bush. Il presidente Obama, da parte sua, non ha mai fatto nulla di serio per riaprire i negoziati, chiedendo invece a Pyongyang come condizione preliminare di rinunciare al proprio arsenale nucleare.
Grazie alla Corea del Nord, d’altra parte, gli USA in questi anni hanno potuto avanzare la propria agenda in Estremo Oriente. Dopo ogni crisi scoppiata con il regime dei Kim, Washington ha infatti ottenuto o avviato negoziati con i propri alleati – a cominciare dalla Corea del Sud – per espandere la propria presenza militare nella regione.
Ad esempio, in seguito al test nucleare nordcoreano del 2013, il Pentagono aveva annunciato il posizionamento di un sistema di missili balistici (THAAD) in Giappone. Questo stesso sistema è attualmente in fase di discussione con le autorità di Seoul per espanderlo alla Corea del Sud. Come si rendono perfettamente conto a Pechino, il vero obiettivo di questa escalation militare USA non è tanto la Corea del Nord e il suo relativamente rudimentale sistema difensivo, quanto la Cina, in previsione di un futuro conflitto provocato dalla crescente rivalità tra le prime due potenze economiche del pianeta.
La Corea del Nord – assieme principalmente alle contese territoriali tra la Cina e svariati paesi nel Mar Cinese Orientale e in quello Meridionale – rimarrà dunque al centro di questo confronto, mentre anche altri paesi della regione ne sono già coinvolti, come il Giappone. Proprio dalla stampa nipponica giovedì è stata diffusa la notizia che il regime di Kim si starebbe preparando a testare un missile balistico a lungo raggio, anche se ciò è vietato dalle sanzioni ONU.
La rivelazione dell’agenzia di stampa Kyodo ha innescato subito la risposta di Seoul, da dove il ministero della Difesa ha manifestato estrema preoccupazione, lasciando intendere che potrebbero essere prese nuove iniziative in conseguenza di un eventuale esperimento, con il risultato di inasprire lo scontro tra le parti contrapposte.
Fonte
Francesco Boschi non era il nonno di Elena, però alcune cose meritano una riflessione
Il Boschi di cui parlava il generale Siro Rossetti, nella sua audizione davanti alla Commissione Anselmi, è il padre dell’ex vice Presidente della Banca Popolare dell’Etruria – e quindi nonno del ministro – o è un omonimo? No, ad un approfondimento successivo è emerso che si tratta di un omonimo.
Io non ho mai detto con certezza che lo sia e, infatti, il titolo aveva un vistoso punto interrogativo e nel pezzo si accennava alla possibile omonimia che, però ritenevo “improbabile” sulla base dei seguenti elementi:
- c’è un signore che si chiama Francesco Boschi (esattamente come il suo eventuale nipote);
- questo signore, nel 1971-72 era nel Consiglio di amministrazione della Banca popolare dell’Etruria, appena costituita dalla fusione di banche precedenti e presso questa banca saranno assunti e faranno carriera tanto il padre quanto il fratello della Boschi;
- come anni, è possibilissimo che il Francesco di cui ci occupiamo fosse il padre del Luigi a sua volta padre di Elena e Francesco;
- sono tutti residenti ad Arezzo o nei dintorni.
Dunque, le probabilità di una omonimia sembravano molto scarse, dato che ci sono 4 punti di contatto e le apparenze indirizzavano vigorosamente in questa direzione. Inoltre, da poco, era emerso lo strano contatto fra Pier Luigi Boschi e Corona, che pure sembrava un ulteriore elemento in questo senso. E, invece, a quanto pare, si tratta proprio di una omonimia: capita ed è giusto ammettere di aver avuto un dubbio errato.
D’altra parte nel mio pezzo volevo sollevare il problema nell’auspicio di un chiarimento ed è utile che questo ci sia stato.
Detto questo, però, restano un po’ di cose strane da capire: come mai Francesco Boschi non risultava negli elenchi della P2?
Ieri l’anagrafe di Arezzo ha rifiutato i dati richiestigli sulla famiglia di questo Francesco Boschi asserendo che c’era una direttiva in questo senso (per inciso, una direttiva illegale perché quelli sono atti pubblici. Ne dà notizia il Fatto di giovedì 28), la cosa sembra essere rientrata ma chi ha dato una direttiva così stramba e perché?
Resta invece una conferma, è questo è il dato più rilevante ai fini della nostra curiosità, che un altro uomo della P2 sedeva nel primo consiglio di amministrazione della Banca Etruria appena istituita. Il che fa sorgere molti interrogativi su cosa è stata questa banca e quale la sua storia.
Con questo rispondo anche a qualche critica che mi è stata fatta del tipo: “ma i motivi di contrasto politico con Boschi e Renzi sono altro e questa non è una cosa seria”.
Allora: certo i motivi di contrasto politico sono altri, certo non avevo intenzione (e nell’articolo si dice esplicitamente) di delegittimare il ministro, perché, ripeto “Le (eventuali) colpe di padri e di nonni non ricadono su figli e nipoti”. Non era quello il punto, ma la formazione della Banca dell’Etruria si, quella credo che sia una cosa degna di attenzione che può spiegare anche qualche pagina del presente. Perché gli assetti di potere, in questo paese non sono solo quelli politici ma anche finanziari e, meglio ancora, quando le due cose si intrecciano. Dunque, è di questo che parliamo e su cui penso valga la pena tornarci su.
Fonte
Io non ho mai detto con certezza che lo sia e, infatti, il titolo aveva un vistoso punto interrogativo e nel pezzo si accennava alla possibile omonimia che, però ritenevo “improbabile” sulla base dei seguenti elementi:
- c’è un signore che si chiama Francesco Boschi (esattamente come il suo eventuale nipote);
- questo signore, nel 1971-72 era nel Consiglio di amministrazione della Banca popolare dell’Etruria, appena costituita dalla fusione di banche precedenti e presso questa banca saranno assunti e faranno carriera tanto il padre quanto il fratello della Boschi;
- come anni, è possibilissimo che il Francesco di cui ci occupiamo fosse il padre del Luigi a sua volta padre di Elena e Francesco;
- sono tutti residenti ad Arezzo o nei dintorni.
Dunque, le probabilità di una omonimia sembravano molto scarse, dato che ci sono 4 punti di contatto e le apparenze indirizzavano vigorosamente in questa direzione. Inoltre, da poco, era emerso lo strano contatto fra Pier Luigi Boschi e Corona, che pure sembrava un ulteriore elemento in questo senso. E, invece, a quanto pare, si tratta proprio di una omonimia: capita ed è giusto ammettere di aver avuto un dubbio errato.
D’altra parte nel mio pezzo volevo sollevare il problema nell’auspicio di un chiarimento ed è utile che questo ci sia stato.
Detto questo, però, restano un po’ di cose strane da capire: come mai Francesco Boschi non risultava negli elenchi della P2?
Ieri l’anagrafe di Arezzo ha rifiutato i dati richiestigli sulla famiglia di questo Francesco Boschi asserendo che c’era una direttiva in questo senso (per inciso, una direttiva illegale perché quelli sono atti pubblici. Ne dà notizia il Fatto di giovedì 28), la cosa sembra essere rientrata ma chi ha dato una direttiva così stramba e perché?
Resta invece una conferma, è questo è il dato più rilevante ai fini della nostra curiosità, che un altro uomo della P2 sedeva nel primo consiglio di amministrazione della Banca Etruria appena istituita. Il che fa sorgere molti interrogativi su cosa è stata questa banca e quale la sua storia.
Con questo rispondo anche a qualche critica che mi è stata fatta del tipo: “ma i motivi di contrasto politico con Boschi e Renzi sono altro e questa non è una cosa seria”.
Allora: certo i motivi di contrasto politico sono altri, certo non avevo intenzione (e nell’articolo si dice esplicitamente) di delegittimare il ministro, perché, ripeto “Le (eventuali) colpe di padri e di nonni non ricadono su figli e nipoti”. Non era quello il punto, ma la formazione della Banca dell’Etruria si, quella credo che sia una cosa degna di attenzione che può spiegare anche qualche pagina del presente. Perché gli assetti di potere, in questo paese non sono solo quelli politici ma anche finanziari e, meglio ancora, quando le due cose si intrecciano. Dunque, è di questo che parliamo e su cui penso valga la pena tornarci su.
Fonte
Armi di distrazione di massa
Ci capita sempre più di frequente di cominciare i nostri articoli con la
classica locuzione “credevamo di essere arrivati al fondo e invece
continuiamo a scavare nella merda”. O qualcosa di simile. Riprodotta
troppe volte diventa fastidiosa, eppure non sapremmo davvero come
diavolo iniziare un ragionamento riguardo alla polemica che imperversa
su ogni media sulle stramaledette statue coperte per la visita del
presidente iraniano Rouhani. L’inutile, strumentale, marginalissima
vicenda campeggia da due giorni su ogni quotidiano nazionale, ogni
telegiornale, ieri addirittura al centro di due talk show nazionali in prime time, protagonista
di polemiche, richieste di dimissioni, articolesse imbizzarrite, che
ribadiscono la sacralità (e la superiorità) dei nostri valori su quelli
del profugo iraniano, capitato per caso e utile solo in vista dello
spoglio controllato delle risorse energetiche e umane del paese
mediorientale da parte delle multinazionali occidentali.
Descrive meglio questa vicenda lo schifo di mondo in cui viviamo e in
cui lentamente ci incattiviamo che le fredde analisi di un sistema
produttivo incapace di generare profitti per eccesso di produttività.
Fosse solo il piano economico il terreno dello scontro, avremmo già il
comunismo da un secolo e mezzo! Viviamo evidentemente in un paradosso di questo tipo.
Anche noi cadiamo nel tranello di commentare una non-notizia. Eppure,
se lo facciamo, è per smascherare il riflesso pavloviano di una certa sinistra
prontamente accorsa in difesa del sistema dirittoumanista ordoliberale
(con Sel in prima fila: “Renzi spieghi questa vergogna!”). Il tranello
qui sarebbe entrare nel merito della vicenda, una vicenda che
non ha alcun merito. Roma è devastata da migliaia di palazzi inscatolati
da pubblicità privata per finti restauri che durano anni; da costanti e
decennali tagli alla cultura e alla manutenzione del patrimonio
artistico del paese; ad un dibattito sulle “unioni civili” fermo al
dopoguerra (il primo, mica il secondo); ad un controllo religioso sulla
vita politica del paese anch’esso fermo più o meno ai patti lateranensi; ma il problema sono quattro inutili statue coperte per presunto rispetto ad un ospite che, peraltro, non aveva chiesto niente.
Stiamo parlando del nulla, eppure questo nulla produce da una parte
l’ideologia della propria superiorità culturale, da rivendicare ogni
qual volta popolazioni primitive si affacciano nel bacino della
superiorità occidentale; dall’altra, lo sviamento della concentrazione
pubblica da eventi rilevanti a questioni irrilevanti, su cui però
accanire l’opinione generale reiterando la falsa narrazione dello
“scontro di civiltà”. Il sistema neoliberale fa evidentemente il proprio
lavoro anche (soprattutto) sul piano culturale. Il problema, come
sempre, è quella sinistra prontamente prona al guinzaglio ideologico
imposto dal mainstream. Che ha da anni abdicato al proprio
ruolo sociale per mobilitarsi unicamente sulla presunta violazione di
ancora più presunti diritti umani, o “valori” e via delirando. La
questione ha da anni preso una piega irreversibile. E proprio qui sembra
situarsi la faglia che dovrebbe costituire lo spartiacque decisivo tra
la sinistra compatibile e quella antagonista o comunque incompatibile
allo stato di cose presenti. Come ricordava ieri Raffaele Sciortino alla
nostra iniziativa a La Sapienza sul caos mediorientale, la resa dei
conti dovrebbe avvenire con quella sinistra liberale accecata dal dogma
dirittoumanista, grimaldello ideologico attraverso cui veicolare le
peggiori controriforme sociali da un secolo a questa parte. La storiella
delle statue coperte serve esclusivamente a legittimare un sistema di
pensiero in cui ci autonarriamo come in guerra di civiltà e di valori
con il nostro vicino arretrato. È questa la visione da disarticolare,
destrutturare nelle sue fondamenta. Non agevolare il compito del
pensiero neoliberale.
Fonte
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Sulla indimenticabile visita di Renzi a Berlino
La visita di Renzi a Berlino può restare in memoria come una di quelle indimenticabili. A patto che sia chiaro di cosa si sta parlando. Non farebbe male, ad esempio, registrare la differenza di attenzione dedicata all’evento nei due paesi: dopo il colloquio, tra la cancelliera tedesca e il presidente del consiglio italiano, i siti mainstream italiani erano affollati di foto e di commenti. Mentre nel mainstream tedesco lo spazio toccava quota zero. E non siamo andati a monitorare qualche sito distrattamente: abbiamo guardato, nell’ordine, i siti di Die Welt, Der Spiegel, della Frankfuter Allgemeine, del Tagesspiegel, della Handelsblatt e del telegiornale della Ard. Spazio a Renzi: zero. Dall’Italia abbiamo trovato un servizio sulla mafia (brand nazionale che non tradisce mai) e una foto della torre di Pisa (e per un periodico livornese non è il massimo). Su una rete all news tedesca abbiamo trovato un lungo servizio sulle tecniche di fabbricazione delle motoseghe, con tanto di intervista ai tester, ma di Renzi nessuna traccia. Se si voleva trovare qualche commento bisognava fare una ricerca su Google News tedesco perché nella schermata delle notizie principali, anche lì, Renzi non c’era. Andando, grazie a Google News, nelle pagine interne dei siti dei giornali abbiamo trovato articoli e commenti che parlano di un Renzi in accordo con la Merkel e un non proprio lusinghiero pezzo delle pagine economiche della Frankfurter Allgemeine su Renzi (o meglio sulle amicizie da Carrai alla Boschi). Insomma il tutto è stato rappresentato come la visita a Berlino di un minore, che si trova alla fine d’accordo con la sorella maggiore e che pensa soprattutto alle clientele della bottega sotto casa. Non è propriamente così, l’Italia ha una bomba di debito pubblico da far sembrare, in caso di crisi, la vicenda del debito sovrano europeo del 2011-12 un refolo di vento primaverile.
Ma guardiamola dal punto di vista di Berlino: Renzi è un signore che si agita per pochi decimi di punto di manovra sul Pil da farsi scontare da Bruxelles, la famosa flessibilità di bilancio, esprime un potere che conta, quello bancario-finanziario, piuttosto ridotto (specie se si pensa alle sole banche) e nei momenti topici è sempre docile (vedi la crisi Tsipras). Infatti alla Germania preme più la crisi polacca, che rischia di far perdere un alleato importante ad est, o consolidare l’alleanza con la Turchia che deve portare questo paese ad essere un immenso hotspot, leggi campo profughi di dimensioni inedite, per i prossimi flussi di migranti. E sicuramente teme più la Brexit, possibile uscita della Gran Bretagna dall’Ue che in Italia si trascura seriamente, cosa che comunque porterà certo Berlino a fare concessioni, semmai, prima a Londra e poi, se necessario, a Roma. Poi che la strategia di Renzi risulti aggressiva è vero: ma solo nelle fantasie delle riunioni redazionali di Repubblica o dell’Unità. Se poi sulla stampa italiana si fantastica di partnership a tre tra Francia, Germania e il nostro paese bisogna dire che sognare, per chi ha questo genere di onirico, non costa nulla. Renzi continuerà a dire nei tg che “L’Italia è un grande paese” e gli altri paesi continueranno a considerarlo il giusto. Come è accaduto con l’ultima visita di Renzi a Parigi, relegata tra le notizie francobollo su Le Monde.
E qui qualche considerazione politica: Renzi si gonfia come una rana solo sui media italiani. Media che non solo sono pettegoli, provinciali e autoreferenziali. Ma soprattutto in grado di fare sistema, un format militarizzato attorno al presidente del consiglio, senza alcuna reale opposizione politica a tutto questo. Davvero c’è da rimpiangere Berlusconi, la cui presenza sopra le righe almeno faceva scattare proteste e interrogativi sul livello di democrazia presente nei media italiani. Renzi non si è nemmeno risparmiato la gestione da Minculpop e da telegiornale Luce dei dati Istat (e, a quanto sappiamo, dell’Istat stessa), sul presunto stato di ripresa dell’economia, ed ha raggiunto nel corso dell’anno precedente livelli di conclamata parodia. Tanto che gli indici di fiducia dei consumatori non sono mai stati così alti negli ultimi 5 anni. Ma non perché circolino soldi o solide garanzie di ripresa ma perché la rilevazione, diciamo creativa, degli indici di fiducia, specie se aggregata nelle notizie assieme a dati reali gonfiati oltre l’inverosimile, fa molto “effetto ripartenza economica” sui media. C’è quindi da chiedersi sul serio perché non ci siano reazioni serie nei confronti di una propaganda blindata e sfacciata. In un paese dove pullulano i maestri di retorica barocca della democrazia deliberativa (dal basso, procedurale, orizzontale...) l’assenza della minima reazione nei confronti della democrazia nella comunicazione non è problema da poco.
L’altro elemento da considerare è cosa l’Italia porti a casa da questi summit mediatizzati (solo dalle nostre parti, come si vede). Padoan al vertice sulle banche, per ora, l’unico effetto che ha realizzato è quello di far crollare, di nuovo, i titoli bancari. E quella dei crediti non esigibili è una bomba che, in caso di esplosione, può portare grossi danni economici, politici e finanziari. Renzi, a Berlino, non solo non ha ottenuto nulla ma si è dovuto spendere in una dichiarazione congiunta sulla Turchia dalla quale si capisce che sicuramente andranno fondi ad Ankara, strategica per la prossima crisi dei migranti, mentre invece sono incerti ruolo e destini di Roma per le prossime ondate di profughi nel Mediterraneo. E il problema non è di poco conto visto che sulla gestione dei flussi di migranti si gioca una complessa partita economica e politica tale da mettere in discussione, come è stato detto pubblicamente anche a Bruxelles, la stessa integrità della Ue.
Insomma l’Italia sta fallendo, o bluffando, nella rappresentazione della più classica politica di potenza, leggi sbattere i pugni sul tavolo a Bruxelles, ed è sostanzialmente presa nella gabbia della governance Ue. Decimi di punto più decimi di punto meno. I contenziosi tra Italia e Germania restano quindi corposi:
1) sulla questione banche dove la Germania può concedere poco visto anche lo stato di Deutsche Bank, che ha registrato nel 2015 un passivo superiore persino ai tempi della crisi Lehman, che impone di tener deboli i sistemi concorrenti e di mantenere fondi ben finanziati in patria in caso di emergenza;
b) sulla flessibilità di bilancio tanto più invisa a Berlino di fronte a una situazione economia di rallentamento globale e di rischio bolla finanziaria a maggior ragione globale;
c) sulla gestione delle prossime emergenze flussi migratori dove la Germania, non da sola, intende sganciare quanto possibile a sud tutte le contraddizioni sociali del fenomeno. Sempre considerando che ci sono crisi internazionali in cui il peso di Roma è destinato a decrescere quanto più aumenta quello del partner grosso, ovvero Berlino (Siria, Libia, da non dimenticare Afghanistan).
Questa visita di Renzi costellata di nulla di fatto può però, come scrivevamo all’inizio, risultare indimenticabile. Specie se nel prossimo futuro scatteranno due dispositivi della governance europea. Il primo che guarda alle banche il relativo controllo della Bce, che ha rafforzati poteri di vigilanza e indirizzo dopo l’unione bancaria del 2015, in caso di grossa crisi degli istituti bancari nazionali. Il secondo riguarda sanzioni e possibile commissariamento di parte del bilancio italiano, modalità presenti nel two e nel six pack firmati pochi anni fa dal nostro paese, in caso di mancata capacità di rientro dai pochi decimi di punto di flessibilità di bilancio strappati dal governo italiano. E’ bene essere chiari: ad oggi l’Italia non è in grado di rientrare neanche di questi decimi di punto. E qui se scattasse il terzo meccanismo, il MES votato pure dall’Italia, in caso di crisi grossa potremmo davvero parlare di occupazione del paese con altri mezzi. Il viaggio di Renzi come quell’ultimo nulla di fatto, quindi indimenticabile prima della tempesta? Vedremo. Di sicuro le crisi globali, economiche e finanziarie, ci sono. Quelle geopolitiche, dalla Libia alla Siria, pure. Nel frattempo il Matteo Renzi show, genere minore della politica spettacolo, continua nel silenzio di un paese stordito che pensa solo a sopravvivere.
Redazione, 30 gennaio 2016
Fonte
Ma guardiamola dal punto di vista di Berlino: Renzi è un signore che si agita per pochi decimi di punto di manovra sul Pil da farsi scontare da Bruxelles, la famosa flessibilità di bilancio, esprime un potere che conta, quello bancario-finanziario, piuttosto ridotto (specie se si pensa alle sole banche) e nei momenti topici è sempre docile (vedi la crisi Tsipras). Infatti alla Germania preme più la crisi polacca, che rischia di far perdere un alleato importante ad est, o consolidare l’alleanza con la Turchia che deve portare questo paese ad essere un immenso hotspot, leggi campo profughi di dimensioni inedite, per i prossimi flussi di migranti. E sicuramente teme più la Brexit, possibile uscita della Gran Bretagna dall’Ue che in Italia si trascura seriamente, cosa che comunque porterà certo Berlino a fare concessioni, semmai, prima a Londra e poi, se necessario, a Roma. Poi che la strategia di Renzi risulti aggressiva è vero: ma solo nelle fantasie delle riunioni redazionali di Repubblica o dell’Unità. Se poi sulla stampa italiana si fantastica di partnership a tre tra Francia, Germania e il nostro paese bisogna dire che sognare, per chi ha questo genere di onirico, non costa nulla. Renzi continuerà a dire nei tg che “L’Italia è un grande paese” e gli altri paesi continueranno a considerarlo il giusto. Come è accaduto con l’ultima visita di Renzi a Parigi, relegata tra le notizie francobollo su Le Monde.
E qui qualche considerazione politica: Renzi si gonfia come una rana solo sui media italiani. Media che non solo sono pettegoli, provinciali e autoreferenziali. Ma soprattutto in grado di fare sistema, un format militarizzato attorno al presidente del consiglio, senza alcuna reale opposizione politica a tutto questo. Davvero c’è da rimpiangere Berlusconi, la cui presenza sopra le righe almeno faceva scattare proteste e interrogativi sul livello di democrazia presente nei media italiani. Renzi non si è nemmeno risparmiato la gestione da Minculpop e da telegiornale Luce dei dati Istat (e, a quanto sappiamo, dell’Istat stessa), sul presunto stato di ripresa dell’economia, ed ha raggiunto nel corso dell’anno precedente livelli di conclamata parodia. Tanto che gli indici di fiducia dei consumatori non sono mai stati così alti negli ultimi 5 anni. Ma non perché circolino soldi o solide garanzie di ripresa ma perché la rilevazione, diciamo creativa, degli indici di fiducia, specie se aggregata nelle notizie assieme a dati reali gonfiati oltre l’inverosimile, fa molto “effetto ripartenza economica” sui media. C’è quindi da chiedersi sul serio perché non ci siano reazioni serie nei confronti di una propaganda blindata e sfacciata. In un paese dove pullulano i maestri di retorica barocca della democrazia deliberativa (dal basso, procedurale, orizzontale...) l’assenza della minima reazione nei confronti della democrazia nella comunicazione non è problema da poco.
L’altro elemento da considerare è cosa l’Italia porti a casa da questi summit mediatizzati (solo dalle nostre parti, come si vede). Padoan al vertice sulle banche, per ora, l’unico effetto che ha realizzato è quello di far crollare, di nuovo, i titoli bancari. E quella dei crediti non esigibili è una bomba che, in caso di esplosione, può portare grossi danni economici, politici e finanziari. Renzi, a Berlino, non solo non ha ottenuto nulla ma si è dovuto spendere in una dichiarazione congiunta sulla Turchia dalla quale si capisce che sicuramente andranno fondi ad Ankara, strategica per la prossima crisi dei migranti, mentre invece sono incerti ruolo e destini di Roma per le prossime ondate di profughi nel Mediterraneo. E il problema non è di poco conto visto che sulla gestione dei flussi di migranti si gioca una complessa partita economica e politica tale da mettere in discussione, come è stato detto pubblicamente anche a Bruxelles, la stessa integrità della Ue.
Insomma l’Italia sta fallendo, o bluffando, nella rappresentazione della più classica politica di potenza, leggi sbattere i pugni sul tavolo a Bruxelles, ed è sostanzialmente presa nella gabbia della governance Ue. Decimi di punto più decimi di punto meno. I contenziosi tra Italia e Germania restano quindi corposi:
1) sulla questione banche dove la Germania può concedere poco visto anche lo stato di Deutsche Bank, che ha registrato nel 2015 un passivo superiore persino ai tempi della crisi Lehman, che impone di tener deboli i sistemi concorrenti e di mantenere fondi ben finanziati in patria in caso di emergenza;
b) sulla flessibilità di bilancio tanto più invisa a Berlino di fronte a una situazione economia di rallentamento globale e di rischio bolla finanziaria a maggior ragione globale;
c) sulla gestione delle prossime emergenze flussi migratori dove la Germania, non da sola, intende sganciare quanto possibile a sud tutte le contraddizioni sociali del fenomeno. Sempre considerando che ci sono crisi internazionali in cui il peso di Roma è destinato a decrescere quanto più aumenta quello del partner grosso, ovvero Berlino (Siria, Libia, da non dimenticare Afghanistan).
Questa visita di Renzi costellata di nulla di fatto può però, come scrivevamo all’inizio, risultare indimenticabile. Specie se nel prossimo futuro scatteranno due dispositivi della governance europea. Il primo che guarda alle banche il relativo controllo della Bce, che ha rafforzati poteri di vigilanza e indirizzo dopo l’unione bancaria del 2015, in caso di grossa crisi degli istituti bancari nazionali. Il secondo riguarda sanzioni e possibile commissariamento di parte del bilancio italiano, modalità presenti nel two e nel six pack firmati pochi anni fa dal nostro paese, in caso di mancata capacità di rientro dai pochi decimi di punto di flessibilità di bilancio strappati dal governo italiano. E’ bene essere chiari: ad oggi l’Italia non è in grado di rientrare neanche di questi decimi di punto. E qui se scattasse il terzo meccanismo, il MES votato pure dall’Italia, in caso di crisi grossa potremmo davvero parlare di occupazione del paese con altri mezzi. Il viaggio di Renzi come quell’ultimo nulla di fatto, quindi indimenticabile prima della tempesta? Vedremo. Di sicuro le crisi globali, economiche e finanziarie, ci sono. Quelle geopolitiche, dalla Libia alla Siria, pure. Nel frattempo il Matteo Renzi show, genere minore della politica spettacolo, continua nel silenzio di un paese stordito che pensa solo a sopravvivere.
Redazione, 30 gennaio 2016
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28/01/2016
«Non ci lasceremo intimidire» La piccola guerra di Renzi all’Europa
Un articolo di Angelo D'Orsi, storico e docente dell'università di Torino su Il manifesto di oggi.
«Non arretro!», «L’Italia va avanti...», «Non andremo più col cappello in mano», «Ci vorrebbero deboli e invece siamo tornati forti». E via seguitando in un repertorio di detti (troppi) e fatti (pochi), attribuibili al nostro presidente del Consiglio, che richiamano altri “capi”, in particolare uno, di parecchi decenni or sono. Se scrivo il suo nome, mi attiro insulti. A stupire non è Matteo Renzi, la cautela con cui le sue esternazioni da bullo verso l’Unione europea, vengono commentate, o peggio il silenzio imbarazzato in cui risuonano.
Possibile che non si colga negli accenti, nei toni, nei modi, oltre che negli argomenti, usate dal bullo di Rignano sull’Arno un sentore di fascismo? O forse è che davvero, come si insinua in un libro appena uscito (di Tommaso Cerno, “A noi!”, Rizzoli), in fondo noi italiani siamo avvezzi a quei toni, a quel lessico, a quei modi? In fondo non abbiamo mai fatto i conti con il fascismo, ed esso riemerge, non solo e non tanto nelle Case Pound et similia, ma proprio per queste vie. Si palesa nel disprezzo delle regole e delle forme della democrazia, nelle spocchiose alzate di sopraccigli verso chi esprime dubbi, nelle sussiegose finzioni di rispetto verso gli altri poteri che nascondono arroganza e disprezzo, nelle arroganti risposte a chi dissente, nello sbrigativo impiego di manganelli verso chi protesta. E, soprattutto, il fascismo affiora in prese di posizione all’insegna di un nazionalismo ridicolo, nella prosopopea dell’Italia “Grande Paese”, nel ritornello del “primato degli italiani”, nella retorica del “ve la facciamo vedere noi”, nel mostrare muscoli (che non si hanno) e nell’agitare pugni (che in vero son quelli di un bamboccio).
E più si fa la faccia feroce più si suscita commiserazione, anziché rispetto, fastidio anziché attenzione, insofferenza invece che apprezzamento. Con questo non dico che Matteo Renzi sia un fascista, ma dico che nei suoi comportamenti, nel suo stile, nelle sue parole richiama direttamente una stagione che in qualche modo persiste, e che, riveduto e lustrato, oggi proprio lui possa essere visto come il legittimo titolare di un nuovo regime in costruzione, autoritario, populista e plebiscitario. Il referendum che sta invocando e proclamando da giorni, è il primo plebiscito della storia italiana, che assomiglia precisamente a quello del marzo 1929: siete con il duce o siete contro? La differenza è che allora alla porta del seggio c’erano i militi fascisti, e che l’elettore si trovava davanti due schede, una col Sì e una col No, in bella mostra.
Anche chi abbia a cuore, da un punto di vista liberaldemocratico, la dignità del Paese, non dovrebbe sottovalutare quello che sta accadendo. Come sempre, ci facciamo ridere dietro: emblematica l’ormai famosa conferenza stampa con il presidente del Parlamento europeo Martin Schultz, trasmessa alla televisione francese con i salaci commenti del giornalista in studio, con il nostro premier che sbadiglia, giochicchia col cellulare, manda messaggini, guarda in alto, quando parla Schultz, mentre, al contrario, questi è attentissimo e interloquisce opportunamente quando la parola è al collega italiano. Un video diventato giustamente virale. Ma non è solo questo. Non è solo l’eterna rappresentazione della commedia italiana. La parodia della politica stile Alberto Sordi, o, considerato l’epoca e i personaggi, nello stile di una modesta imitazione del grande Sordi.
Dicevo, non è solo questo, tuttavia. È proprio ricorrendo a tal genere di comportamenti, che si innescano processi che non si sono in grado di controllare, e di cui, soprattutto, non si possono prevedere gli esiti. Se si vuole perseguire la rottura dell’Unione, o la fuoruscita dall’euro – obiettivi pesanti, discutibili, rischiosi, ma indubbiamente leciti –, non è certo questa la via maestra. Né sono scelte che possano essere demandate al governo e neppure al solo Parlamento.
Sono scelte che concernono tutta la popolazione ed essa nella sua interezza dovrebbe essere posta in grado di dire la sua. In ogni caso, la strada su cui si è incamminato il premier, con il suo partito piegato ai suoi voleri, invece è irrituale, come si dice in linguaggio diplomatico, tortuosa, piena di inganni e di disonestà. Ed è una via che non è consentita, in particolare, ad una nazione che nel Parlamento di Bruxelles-Strasburgo, non ha fatto proprio una gran figura, con i nostri deputati di solito personaggi trombati nel Parlamento nazionale, o tratti dai grandi vivai della radiotelevisione, da Iva Zanicchi a Gerry Scotti, notoriamente assenteisti, o vistosamente disinteressati al ruolo che hanno conquistato.
Ma non siamo ancora al punto cruciale, che invece mi pare un altro, e si tratta di una domanda: come mai Renzi “sfida l’Europa” (così alcuni titoli roboanti sui giornali), con tanta disinvoltura? Magari per ottenere consenso popolare in patria. Esattamente come il suo lontano, ma non dimenticato e sin qui innominato predecessore. Alzare il tiro, inventarsi dei nemici, per giustificare i mancati risultati, per rinsaldare il proprio potere, per annullare ogni dissenso. Nemici interni (i “gufi”, quelli che remano contro, gli “sfascisti”…), o esterni: la Germania, o l’Unione tutta. “Molti nemici, molto onore”? Il consenso, uno statista lo cerca e lo ottiene, per vie democratiche (mi tocca ricordare che stiamo aspettando che il sig. Matteo Renzi venga legittimato da una votazione ai sensi di legge, non dai gazebo del suo partito), sulla base dei risultati ottenuti, concreti, verificabili; il leader autoritario-populista lo cerca per altra via, che è precisamente quella perseguita con tanta sfrontatezza da Matteo Renzi. «Roma non è nuova a questi scenari», scriveva Antonio Gramsci nel 1924, e li definiva «polverosi». «Ha visto», continuava «Romolo, ha visto Cesare Augusto, e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo». E, possiamo rivelarlo, si riferiva a chi allora sedeva nelle stanze del potere, tal Benito Mussolini.
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«Non arretro!», «L’Italia va avanti...», «Non andremo più col cappello in mano», «Ci vorrebbero deboli e invece siamo tornati forti». E via seguitando in un repertorio di detti (troppi) e fatti (pochi), attribuibili al nostro presidente del Consiglio, che richiamano altri “capi”, in particolare uno, di parecchi decenni or sono. Se scrivo il suo nome, mi attiro insulti. A stupire non è Matteo Renzi, la cautela con cui le sue esternazioni da bullo verso l’Unione europea, vengono commentate, o peggio il silenzio imbarazzato in cui risuonano.
Possibile che non si colga negli accenti, nei toni, nei modi, oltre che negli argomenti, usate dal bullo di Rignano sull’Arno un sentore di fascismo? O forse è che davvero, come si insinua in un libro appena uscito (di Tommaso Cerno, “A noi!”, Rizzoli), in fondo noi italiani siamo avvezzi a quei toni, a quel lessico, a quei modi? In fondo non abbiamo mai fatto i conti con il fascismo, ed esso riemerge, non solo e non tanto nelle Case Pound et similia, ma proprio per queste vie. Si palesa nel disprezzo delle regole e delle forme della democrazia, nelle spocchiose alzate di sopraccigli verso chi esprime dubbi, nelle sussiegose finzioni di rispetto verso gli altri poteri che nascondono arroganza e disprezzo, nelle arroganti risposte a chi dissente, nello sbrigativo impiego di manganelli verso chi protesta. E, soprattutto, il fascismo affiora in prese di posizione all’insegna di un nazionalismo ridicolo, nella prosopopea dell’Italia “Grande Paese”, nel ritornello del “primato degli italiani”, nella retorica del “ve la facciamo vedere noi”, nel mostrare muscoli (che non si hanno) e nell’agitare pugni (che in vero son quelli di un bamboccio).
E più si fa la faccia feroce più si suscita commiserazione, anziché rispetto, fastidio anziché attenzione, insofferenza invece che apprezzamento. Con questo non dico che Matteo Renzi sia un fascista, ma dico che nei suoi comportamenti, nel suo stile, nelle sue parole richiama direttamente una stagione che in qualche modo persiste, e che, riveduto e lustrato, oggi proprio lui possa essere visto come il legittimo titolare di un nuovo regime in costruzione, autoritario, populista e plebiscitario. Il referendum che sta invocando e proclamando da giorni, è il primo plebiscito della storia italiana, che assomiglia precisamente a quello del marzo 1929: siete con il duce o siete contro? La differenza è che allora alla porta del seggio c’erano i militi fascisti, e che l’elettore si trovava davanti due schede, una col Sì e una col No, in bella mostra.
Anche chi abbia a cuore, da un punto di vista liberaldemocratico, la dignità del Paese, non dovrebbe sottovalutare quello che sta accadendo. Come sempre, ci facciamo ridere dietro: emblematica l’ormai famosa conferenza stampa con il presidente del Parlamento europeo Martin Schultz, trasmessa alla televisione francese con i salaci commenti del giornalista in studio, con il nostro premier che sbadiglia, giochicchia col cellulare, manda messaggini, guarda in alto, quando parla Schultz, mentre, al contrario, questi è attentissimo e interloquisce opportunamente quando la parola è al collega italiano. Un video diventato giustamente virale. Ma non è solo questo. Non è solo l’eterna rappresentazione della commedia italiana. La parodia della politica stile Alberto Sordi, o, considerato l’epoca e i personaggi, nello stile di una modesta imitazione del grande Sordi.
Dicevo, non è solo questo, tuttavia. È proprio ricorrendo a tal genere di comportamenti, che si innescano processi che non si sono in grado di controllare, e di cui, soprattutto, non si possono prevedere gli esiti. Se si vuole perseguire la rottura dell’Unione, o la fuoruscita dall’euro – obiettivi pesanti, discutibili, rischiosi, ma indubbiamente leciti –, non è certo questa la via maestra. Né sono scelte che possano essere demandate al governo e neppure al solo Parlamento.
Sono scelte che concernono tutta la popolazione ed essa nella sua interezza dovrebbe essere posta in grado di dire la sua. In ogni caso, la strada su cui si è incamminato il premier, con il suo partito piegato ai suoi voleri, invece è irrituale, come si dice in linguaggio diplomatico, tortuosa, piena di inganni e di disonestà. Ed è una via che non è consentita, in particolare, ad una nazione che nel Parlamento di Bruxelles-Strasburgo, non ha fatto proprio una gran figura, con i nostri deputati di solito personaggi trombati nel Parlamento nazionale, o tratti dai grandi vivai della radiotelevisione, da Iva Zanicchi a Gerry Scotti, notoriamente assenteisti, o vistosamente disinteressati al ruolo che hanno conquistato.
Ma non siamo ancora al punto cruciale, che invece mi pare un altro, e si tratta di una domanda: come mai Renzi “sfida l’Europa” (così alcuni titoli roboanti sui giornali), con tanta disinvoltura? Magari per ottenere consenso popolare in patria. Esattamente come il suo lontano, ma non dimenticato e sin qui innominato predecessore. Alzare il tiro, inventarsi dei nemici, per giustificare i mancati risultati, per rinsaldare il proprio potere, per annullare ogni dissenso. Nemici interni (i “gufi”, quelli che remano contro, gli “sfascisti”…), o esterni: la Germania, o l’Unione tutta. “Molti nemici, molto onore”? Il consenso, uno statista lo cerca e lo ottiene, per vie democratiche (mi tocca ricordare che stiamo aspettando che il sig. Matteo Renzi venga legittimato da una votazione ai sensi di legge, non dai gazebo del suo partito), sulla base dei risultati ottenuti, concreti, verificabili; il leader autoritario-populista lo cerca per altra via, che è precisamente quella perseguita con tanta sfrontatezza da Matteo Renzi. «Roma non è nuova a questi scenari», scriveva Antonio Gramsci nel 1924, e li definiva «polverosi». «Ha visto», continuava «Romolo, ha visto Cesare Augusto, e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo». E, possiamo rivelarlo, si riferiva a chi allora sedeva nelle stanze del potere, tal Benito Mussolini.
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27 gennaio - Il giorno della cattiva memoria
di Giorgio Cremaschi
Il 27 gennaio 1945 l'Armata Rossa liberava Auschwitz. L'Unione Sovietica ha dato un contributo decisivo alla sconfitta del nazismo, pagato con 20 milioni di morti. Oggi questa realtà è in corso di rimozione da parte di una Unione Europea che in Ucraina arma e sostiene un governo con forze neonaziste al suo interno. Forze e bande militari che esaltano le immagini e i simboli dei collaborazionisti degli sterminatori di Auschwitz.
Il Fatto Quotidiano denuncia l'accordo tra governo italiano e governo parafascista polacco per rimuovere il memoriale italiano nel campo di concentramento: per i polacchi è inaccettabile che siano citati Gramsci e i comunisti tra le forze combattenti e vittime del nazifascismo. Quando le SS rastrellavano un villaggio o un quartiere urlavano: fuori gli ebrei e i comunisti. Ma questi ultimi oggi vengono cancellati dalla cosiddetta memoria condivisa.
Shoah è il nome dell'Olocausto ebraico, Porrajmos quello del popolo Rom. Che viene costantemente ignorato o rimosso, eppure lo sterminio degli "zingari" da parte dei nazisti fu il secondo per dimensione dopo quello degli ebrei.
Ad Auschwitz c'era un distintivo particolare anche per i prigionieri omosessuali, anch'essi colpiti dallo sterminio nazista.
Alla base dello sterminio nazista c'era l'idea della razza e del popolo superiore e il rifiuto assoluto dell'eguaglianza. Per questo lo sterminio di ebrei e rom, degli omosessuali e dei comunisti. Era lo stesso progetto mostruoso e inseparabile. Per questo ogni rimozione in questa memoria alimenta i mostri. Ricordiamolo.
Il 27 gennaio 1945 l'Armata Rossa liberava Auschwitz. L'Unione Sovietica ha dato un contributo decisivo alla sconfitta del nazismo, pagato con 20 milioni di morti. Oggi questa realtà è in corso di rimozione da parte di una Unione Europea che in Ucraina arma e sostiene un governo con forze neonaziste al suo interno. Forze e bande militari che esaltano le immagini e i simboli dei collaborazionisti degli sterminatori di Auschwitz.
Il Fatto Quotidiano denuncia l'accordo tra governo italiano e governo parafascista polacco per rimuovere il memoriale italiano nel campo di concentramento: per i polacchi è inaccettabile che siano citati Gramsci e i comunisti tra le forze combattenti e vittime del nazifascismo. Quando le SS rastrellavano un villaggio o un quartiere urlavano: fuori gli ebrei e i comunisti. Ma questi ultimi oggi vengono cancellati dalla cosiddetta memoria condivisa.
Shoah è il nome dell'Olocausto ebraico, Porrajmos quello del popolo Rom. Che viene costantemente ignorato o rimosso, eppure lo sterminio degli "zingari" da parte dei nazisti fu il secondo per dimensione dopo quello degli ebrei.
Ad Auschwitz c'era un distintivo particolare anche per i prigionieri omosessuali, anch'essi colpiti dallo sterminio nazista.
Alla base dello sterminio nazista c'era l'idea della razza e del popolo superiore e il rifiuto assoluto dell'eguaglianza. Per questo lo sterminio di ebrei e rom, degli omosessuali e dei comunisti. Era lo stesso progetto mostruoso e inseparabile. Per questo ogni rimozione in questa memoria alimenta i mostri. Ricordiamolo.
Turchia - Chiesto l'ergastolo per i giornalisti Can Dundar e Erdem Gul
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Quanto temuto potrebbe diventare realtà: il procuratore del tribunale di Istanbul ha presentato ieri l’incriminazione per i giornalisti turchi Can Dündar e Erdem Gül. Raccolta di documenti segreti per fini di spionaggio militare e politico, tentativo di rovesciare il governo e deliberato sostegno al terrorismo: queste le accuse che pesano sui due reporter. Rischiano il carcere a vita, tanto ha chiesto il procuratore turco.
Rispettivamente direttore del quotidiano Cumhuriyet e caporedattore dell’ufficio di Ankara, la “colpa” di Dündar e Gül è aver fatto il proprio mestiere. A maggio pubblicarono un articolo, corredato di relative prove, nel quale mostravano il tentativo di scambio intercorso tra i servizi segreti turchi e presunti membri dello Stato Islamico. Un camion che sarebbe dovuto passare dalle mani dell’intelligence di Ankara a quelle degli islamisti era stato fermato e perquisito dalla gendarmeria turca a sud del paese all’inizio del 2014 ed era apparentemente pieno di armi.
A denunciare i due giornalisti è stato lo stesso presidente Erdogan: «Chi ha scritto la storia pagherà un prezzo alto». Quel prezzo è stato consegnato ieri, dal secondo braccio del sistema repressivo turco, la magistratura, ai due giornalisti in prigione da fine novembre.
A poco serviranno le proteste delle organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch che ieri ha criticato aspramente la decisione del tribunale. Serviranno a poco perché manca la denuncia degli alleati della Turchia, i governi occidentali, che si nascondono dietro deboli condanne per poi stendere tappeti rossi ai piedi di Erdogan. Tappeti foderati con tre miliardi di euro (quelli promessi da Bruxelles ad Ankara perché si tenga i rifugiati siriani) e con l’accettazione a testa bassa dei diktat turchi sul negoziato siriano.
Lo si è visto chiaramente martedì quando l’Onu ha recapitato gli inviti al tavolo previsto per domani a Ginevra: fuori il Pyd, il Partito dell’Unione Democratica rappresentante dei kurdi di Rojava. Ankara aveva minacciato di boicottare il dialogo se i delegati kurdi fossero stati presenti. Poco dopo, arrivava la denuncia di Saleh Muslim, co-presidente del Pyd: «Non abbiamo ricevuto nessun invito».
Ieri in mattinata è giunta la conferma per bocca del ministro degli Esteri francese Fabius: «Il Pyd causava i problemi maggiori e de Mistura mi ha detto di non averli invitati», il laconico commento di Fabius alla radio France Culture. Immediata la reazione kurda: non riconosceremo i risultati del negoziato se non ne saremo parte, ha detto Abd Salam Ali, rappresentante del Pyd in Russia.
Benzina sul fuoco la getta un diplomatico francese rimasto anonimo: i kurdi – ha detto – non sono considerati opposizione ad Assad. Eppure sono la più valida opposizione allo Stato Islamico, relegato in un angolo del negoziato come non fosse una delle ragioni che dovrebbero spingere la Siria alla pacificazione.
A monte sta il rinnovato potere turco, derivante dall’emergenza rifugiati, spauracchio della fortezza-Europa, e dall’uso in chiave anti-Mosca che di Ankara sta facendo la Nato. Suona così ancora più ridicolo il tentativo in calcio d’angolo dell’Onu di spegnere le tensioni: ieri Khawla Mattar, portavoce dell’inviato Onu per la Siria de Mistura, ha detto che solo siriani si siederanno al tavolo, escludendo quindi l’eventuale partecipazione di una delegazione turca come paventato dal ministro degli Esteri di Ankara Cavusoglu. La Turchia ci sarà comunque, dietro le quinte, come ci sarà l’Arabia Saudita impegnata in questi giorni a indebolire il negoziato usando a spada tratta le opposizioni al presidente Assad.
L’Hnc, l’Alto Comitato per i Negoziati, ombrello delle opposizioni nato a Riyadh a dicembre, dopo giorni trascorsi a minacciare un boicottaggio del dialogo, ieri ha affondato il colpo: voleremo a Ginevra, hanno detto, solo se saranno rispettate determinate precondizioni. La fine degli assedi governativi e lo stop dei raid russi, che però secondo Mosca hanno come target l’Isis. Diversa l’opinione del fronte anti-Assad che li ritiene diretti ai ribelli. Per questo, in una lettera a de Mistura e al segretario generale Onu Ban Ki-moon, l’Hnc chiede rassicurazioni in merito alla fine dei bombardamenti prima di sciogliere la riserva.
Ginevra traballa ancora. Se anche si arrivasse al dialogo, è difficile immaginare il raggiungimento di un risultato positivo. Damasco, accettato l’invito in Svizzera, non parla finendo per apparire come l’unica interessata alla pace.
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Quanto temuto potrebbe diventare realtà: il procuratore del tribunale di Istanbul ha presentato ieri l’incriminazione per i giornalisti turchi Can Dündar e Erdem Gül. Raccolta di documenti segreti per fini di spionaggio militare e politico, tentativo di rovesciare il governo e deliberato sostegno al terrorismo: queste le accuse che pesano sui due reporter. Rischiano il carcere a vita, tanto ha chiesto il procuratore turco.
Rispettivamente direttore del quotidiano Cumhuriyet e caporedattore dell’ufficio di Ankara, la “colpa” di Dündar e Gül è aver fatto il proprio mestiere. A maggio pubblicarono un articolo, corredato di relative prove, nel quale mostravano il tentativo di scambio intercorso tra i servizi segreti turchi e presunti membri dello Stato Islamico. Un camion che sarebbe dovuto passare dalle mani dell’intelligence di Ankara a quelle degli islamisti era stato fermato e perquisito dalla gendarmeria turca a sud del paese all’inizio del 2014 ed era apparentemente pieno di armi.
A denunciare i due giornalisti è stato lo stesso presidente Erdogan: «Chi ha scritto la storia pagherà un prezzo alto». Quel prezzo è stato consegnato ieri, dal secondo braccio del sistema repressivo turco, la magistratura, ai due giornalisti in prigione da fine novembre.
A poco serviranno le proteste delle organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch che ieri ha criticato aspramente la decisione del tribunale. Serviranno a poco perché manca la denuncia degli alleati della Turchia, i governi occidentali, che si nascondono dietro deboli condanne per poi stendere tappeti rossi ai piedi di Erdogan. Tappeti foderati con tre miliardi di euro (quelli promessi da Bruxelles ad Ankara perché si tenga i rifugiati siriani) e con l’accettazione a testa bassa dei diktat turchi sul negoziato siriano.
Lo si è visto chiaramente martedì quando l’Onu ha recapitato gli inviti al tavolo previsto per domani a Ginevra: fuori il Pyd, il Partito dell’Unione Democratica rappresentante dei kurdi di Rojava. Ankara aveva minacciato di boicottare il dialogo se i delegati kurdi fossero stati presenti. Poco dopo, arrivava la denuncia di Saleh Muslim, co-presidente del Pyd: «Non abbiamo ricevuto nessun invito».
Ieri in mattinata è giunta la conferma per bocca del ministro degli Esteri francese Fabius: «Il Pyd causava i problemi maggiori e de Mistura mi ha detto di non averli invitati», il laconico commento di Fabius alla radio France Culture. Immediata la reazione kurda: non riconosceremo i risultati del negoziato se non ne saremo parte, ha detto Abd Salam Ali, rappresentante del Pyd in Russia.
Benzina sul fuoco la getta un diplomatico francese rimasto anonimo: i kurdi – ha detto – non sono considerati opposizione ad Assad. Eppure sono la più valida opposizione allo Stato Islamico, relegato in un angolo del negoziato come non fosse una delle ragioni che dovrebbero spingere la Siria alla pacificazione.
A monte sta il rinnovato potere turco, derivante dall’emergenza rifugiati, spauracchio della fortezza-Europa, e dall’uso in chiave anti-Mosca che di Ankara sta facendo la Nato. Suona così ancora più ridicolo il tentativo in calcio d’angolo dell’Onu di spegnere le tensioni: ieri Khawla Mattar, portavoce dell’inviato Onu per la Siria de Mistura, ha detto che solo siriani si siederanno al tavolo, escludendo quindi l’eventuale partecipazione di una delegazione turca come paventato dal ministro degli Esteri di Ankara Cavusoglu. La Turchia ci sarà comunque, dietro le quinte, come ci sarà l’Arabia Saudita impegnata in questi giorni a indebolire il negoziato usando a spada tratta le opposizioni al presidente Assad.
L’Hnc, l’Alto Comitato per i Negoziati, ombrello delle opposizioni nato a Riyadh a dicembre, dopo giorni trascorsi a minacciare un boicottaggio del dialogo, ieri ha affondato il colpo: voleremo a Ginevra, hanno detto, solo se saranno rispettate determinate precondizioni. La fine degli assedi governativi e lo stop dei raid russi, che però secondo Mosca hanno come target l’Isis. Diversa l’opinione del fronte anti-Assad che li ritiene diretti ai ribelli. Per questo, in una lettera a de Mistura e al segretario generale Onu Ban Ki-moon, l’Hnc chiede rassicurazioni in merito alla fine dei bombardamenti prima di sciogliere la riserva.
Ginevra traballa ancora. Se anche si arrivasse al dialogo, è difficile immaginare il raggiungimento di un risultato positivo. Damasco, accettato l’invito in Svizzera, non parla finendo per apparire come l’unica interessata alla pace.
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Salute e sanità: non siamo un paese normale
Gavino Maciocco
Gli italiani si scoprono più malati e più poveri: 4,2 milioni di loro rinunciano a curarsi a causa degli alti costi, delle lunghe lista di attesa e dell’eccessiva distanza dai servizi. Ma il governo pensa ad altro. In parlamento si discute, ad esempio, di un disegno di legge che, se approvato, comprometterà irrimediabilmente l’autonomia professionale dei medici e consegnerà il servizio sanitario nazionale nelle mani dell’industria del farmaco e delle attrezzature bio-medicali.
“Dai bilanci demografici mensili forniti dall’Istat si rileva come il totale dei morti in Italia nei primi otto mesi del 2015 – ultimo aggiornamento a tutt’oggi disponibile – sia aumentato di 45mila unità rispetto agli stessi primi otto mesi del 2014”. Così iniziava il post di G.C. Blanciardo pubblicato su Neodemos il 22 dicembre 2015 col titolo: “68 mila morti in più nel 2015?*”. Il dibattito che è seguito alla diffusione di questi dati è stato tanto acceso, quanto disordinato: tra le presunte cause sono stati evocati l’epidemia influenzale (a fronte di un’insufficiente copertura vaccinale), l’ondata estiva di caldo, l’inquinamento atmosferico, la crisi economica, i reiterati tagli della spesa sanitaria. Neodemos è tornato sull’argomento con altri due post (leggi questo articolo e questo), di cui il più recente, del 22 gennaio, dedicato a un’intervista a Geppo Costa, che così conclude il suo intervento: “Questa storia insegna due lezioni. La prima è che i sistemi di sorveglianza della salute in Italia sono relativamente adeguati ma mancano di una regia nazionale che permetta di riconoscere tempestivamente i segnali che vengono dalla salute della popolazione. La seconda è che sarebbe utile che le autorità sanitarie comunicassero al pubblico altrettanto tempestivamente e con autorevolezza quanto viene rilevato e spiegato dai sistemi di sorveglianza, proprio per limitare disorientamento e strumentalizzazioni”.
In realtà una regia comunicativa da parte del governo, anche nel campo della salute, esiste eccome: è quella di nascondere le “cattive” notizie e enfatizzare quelle “buone”. Ciò che conta è la narrazione happy news (un tempo detta propaganda), secondo cui il nostro è uno dei sistemi sanitari migliori al mondo. Lo ripetono ad ogni occasione ministri, governatori, onorevoli – e ahimè anche molti giornalisti – che non conoscono, o fanno finta di ignorare, l’unica classifica dei sistemi sanitari degna di citazione: l’Euro Health Consumer Index (che abbiamo più volte recensito, vedi anche l’ultimo rapporto 2014). Secondo questa fonte, l’Italia insieme a pochissimi altri Paesi perde punti nella classifica: nel giro di pochi anni, su 37 Paesi analizzati, l’Italia è scesa dal 15° posto al 21° (scavalcata anche da Estonia, Slovenia e Slovacchia).
In attesa di conoscere i dati definitivi della mortalità 2015, va detto che segnali preoccupanti sulla salute degli italiani non mancano, come abbiamo riportato in precedenti post (vedi Happy news, buone notizie e la propaganda a la dura realtà).
Li riassumiamo nei punti seguenti.
1) Aumenta la longevità, ma negli ultimi tempi si sono ridotti gli anni vissuti in buona salute: da 2005 al 2013 meno 5,8 anni. Ovvero si vive di più, ma in condizioni di salute peggiori, afflitti da una o più malattie croniche (Figura 1). E a farne maggiormente le spese sono i gruppi più poveri della popolazione.
2) La povertà e il basso livello culturale delle famiglie sono anche la causa degli alti livelli di sovrappeso/obesità e di scarsa o nulla attività fisica tra i ragazzi. Per questi indicatori deteniamo i record negativi fra le nazioni europee, secondi solo a Grecia e Inghilterra per sovrappeso/obesità, con una situazione analoga a quella degli Stati Uniti.
3) Secondo i dati di OCSE circa il 25% degli anziani italiani ha forti limitazioni dell’autonomia nelle attività quotidiane della vita (vestirsi, lavarsi, usare il bagno, etc) – peggio di noi solo Grecia e Slovacchia –. Gli anziani italiani sono in coda alla classifica anche nella percezione di buona salute: solo il 30% afferma di stare bene, rispetto a una media OCSE del 45%, con molti paesi – dal Canada alla Svezia, alla Svizzera, all’Olanda – che registrano livelli superiori al 60-70%. Va infine notato che purtroppo l’Italia vanta il più alto livello di prevalenza di demenza tra i paesi OCSE (Figura 2)[1].
4) Il recente Rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente ci informa che già ora il nostro contributo alla mortalità prematura per inquinamento è in assoluto il più alto fra i Paesi europei, pari a 84.400 decessi annui. Per avere un’idea rispetto a Paesi con popolazione analoga (un po’ maggiore) e sviluppo economico produttivo simile, la Francia ha 52.600 morti premature e l’Inghilterra 49.430; la Germania invece 72.000 su una popolazione con 20 milioni di abitanti in più rispetto all’Italia[2].
Notizie poco confortanti provengono anche dal capitolo dell’accesso alle cure. Riguardo alla spesa diretta (out-of-pocket) dei pazienti (ticket e pagamento privato degli specialisti) e alla capacità del sistema di soddisfare i bisogni dei cittadini (disponibilità di servizi pubblici, liste di attesa, distanze da percorrere per ottenere una prestazione) l’Italia si trova tra i “bottom third performers”, ovvero tra i paesi peggiori. I dati dell’OCSE trovano puntuale conferma con i risultati di analoghe ricerche effettuate da agenzie italiane. Un recente servizio della Repubblica riportando questi dati titolava: “Costi molto alti, gli italiani non si curano più”[3].
“Dalle statistiche fornite dall’Ufficio parlamentare di bilancio, e firmate Eurostat, si scopre che il 7,1% degli italiani (oltre 4,2 milioni di persone) rinuncia a farsi curare perché il costo della prestazione è troppo alto, la lista d’attesa troppo lunga oppure l’ospedale troppo distante. Con il diminuire del reddito il disagio cresce: la rinuncia alla cura sale al 14,6% degli italiani nel caso in cui gli interpellati appartengano al 20% più povero della popolazione italiana”. Un dato in netta crescita e – nel confronto internazionale – sovrapponibile a quello rilevato in Grecia (Figura 3).
Il quadro che emerge rivela aspetti decisamente critici su una serie di versanti: l’aumento dei bisogni sanitari e sociali della popolazione anziana, il peso crescente delle patologie croniche, il sovrappeso/obesità dei ragazzi che – se fuori controllo – andrà nel prossimo futuro ad alimentare e a ingrossare la già vasta platea di pazienti affetti da malattie cronico-degenerative, le conseguenze nefaste sulla salute prodotte dall’inquinamento, l’aumento della povertà che sappiamo bene essere un decisivo determinante della malattia e che negli ultimi anni è diventata anche un impedimento nell’accesso alle cure.
Più povera la popolazione, più povero anche il servizio sanitario pubblico, stremato e reso sempre più inaccessibile da più di cinque anni di sottofinanziamento. Di fronte a dati di tale portata ci si sarebbe aspettati una forte reazione politica e parlamentare. Invece, non un’analisi attenta, non una proposta, tanto meno un programma. Tra le mille comparsate televisive e radiofoniche di Renzi, di ministri, governatori e onorevoli non una sola parola è stata spesa sulle questioni della salute degli italiani. Incredibilmente in questi giorni tutta l’attenzione del governo e della sua maggioranza si concentra su altro: sul tema della responsabilità dei professionisti. Ne diamo conto nei due post, di Alberto Donzelli e Luca De Fiore, che sono a corredo di questa newsletter. La morale di questa vicenda è inquietante: se il disegno di legge della maggioranza, ora in discussione alla Camera, andrà in porto l’autonomia professionale dei medici sarà fortemente compromessa e in certi casi annullata, e il sistema sanitario italiano sarà, per legge, sempre di più condizionato dalle scelte dell’industria del farmaco e delle attrezzature bio-medicali. Una situazione unica al mondo.
E le Regioni che fanno? “Regioni chiedono al Governo di riaprire il confronto: Siamo al 6,6% del Pil, il livello più basso del decennio. Più di un terzo spending review sul Ssn. E dal 2017 nuovi tagli inevitabili”[4]. Le Regioni abbaiano, ma non mordono, alla fine si adeguano. Nel frattempo si dedicano a inutili e costosi esercizi di fusione delle ASL. Si tratta di un espediente messo in atto da alcuni governatori per distrarre l’attenzione dal mal-funzionamento dei servizi e per lucrare – attraverso l’accentramento delle decisioni – un po’ più di potere politico.
Alan Maynard ci aveva visto giusto quando, nel 1995, scrisse: “Con monotona regolarità i politici reagiscono ai mal-definiti problemi dei loro sistemi sanitari ridisorganizzandoli”[5].
Bibliografia
1) Oecd. Health at a Glance 2015
2) European Environment Agency – Air Quality in Europe- 2015. Luxembourg: Report, 2015.
3) Petrini R. Costi molto alti, gli italiani non si curano più. La Repubblica, 10 gennaio 2016, pp. 40-41.
4) Sanità. Regioni chiedono al Governo di riaprire il confronto. Quotidianosanita.it, 07.01.2016
5) Maynard A. Competition in health care, caricatures and evidence. European Journal of Publiv Health 1995; 5:144-45.
Fonte
Gli italiani si scoprono più malati e più poveri: 4,2 milioni di loro rinunciano a curarsi a causa degli alti costi, delle lunghe lista di attesa e dell’eccessiva distanza dai servizi. Ma il governo pensa ad altro. In parlamento si discute, ad esempio, di un disegno di legge che, se approvato, comprometterà irrimediabilmente l’autonomia professionale dei medici e consegnerà il servizio sanitario nazionale nelle mani dell’industria del farmaco e delle attrezzature bio-medicali.
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“Dai bilanci demografici mensili forniti dall’Istat si rileva come il totale dei morti in Italia nei primi otto mesi del 2015 – ultimo aggiornamento a tutt’oggi disponibile – sia aumentato di 45mila unità rispetto agli stessi primi otto mesi del 2014”. Così iniziava il post di G.C. Blanciardo pubblicato su Neodemos il 22 dicembre 2015 col titolo: “68 mila morti in più nel 2015?*”. Il dibattito che è seguito alla diffusione di questi dati è stato tanto acceso, quanto disordinato: tra le presunte cause sono stati evocati l’epidemia influenzale (a fronte di un’insufficiente copertura vaccinale), l’ondata estiva di caldo, l’inquinamento atmosferico, la crisi economica, i reiterati tagli della spesa sanitaria. Neodemos è tornato sull’argomento con altri due post (leggi questo articolo e questo), di cui il più recente, del 22 gennaio, dedicato a un’intervista a Geppo Costa, che così conclude il suo intervento: “Questa storia insegna due lezioni. La prima è che i sistemi di sorveglianza della salute in Italia sono relativamente adeguati ma mancano di una regia nazionale che permetta di riconoscere tempestivamente i segnali che vengono dalla salute della popolazione. La seconda è che sarebbe utile che le autorità sanitarie comunicassero al pubblico altrettanto tempestivamente e con autorevolezza quanto viene rilevato e spiegato dai sistemi di sorveglianza, proprio per limitare disorientamento e strumentalizzazioni”.
In realtà una regia comunicativa da parte del governo, anche nel campo della salute, esiste eccome: è quella di nascondere le “cattive” notizie e enfatizzare quelle “buone”. Ciò che conta è la narrazione happy news (un tempo detta propaganda), secondo cui il nostro è uno dei sistemi sanitari migliori al mondo. Lo ripetono ad ogni occasione ministri, governatori, onorevoli – e ahimè anche molti giornalisti – che non conoscono, o fanno finta di ignorare, l’unica classifica dei sistemi sanitari degna di citazione: l’Euro Health Consumer Index (che abbiamo più volte recensito, vedi anche l’ultimo rapporto 2014). Secondo questa fonte, l’Italia insieme a pochissimi altri Paesi perde punti nella classifica: nel giro di pochi anni, su 37 Paesi analizzati, l’Italia è scesa dal 15° posto al 21° (scavalcata anche da Estonia, Slovenia e Slovacchia).
In attesa di conoscere i dati definitivi della mortalità 2015, va detto che segnali preoccupanti sulla salute degli italiani non mancano, come abbiamo riportato in precedenti post (vedi Happy news, buone notizie e la propaganda a la dura realtà).
Li riassumiamo nei punti seguenti.
1) Aumenta la longevità, ma negli ultimi tempi si sono ridotti gli anni vissuti in buona salute: da 2005 al 2013 meno 5,8 anni. Ovvero si vive di più, ma in condizioni di salute peggiori, afflitti da una o più malattie croniche (Figura 1). E a farne maggiormente le spese sono i gruppi più poveri della popolazione.
Fonte: The European House – Ambrosetti su dati Eurostat, 2015 |
2) La povertà e il basso livello culturale delle famiglie sono anche la causa degli alti livelli di sovrappeso/obesità e di scarsa o nulla attività fisica tra i ragazzi. Per questi indicatori deteniamo i record negativi fra le nazioni europee, secondi solo a Grecia e Inghilterra per sovrappeso/obesità, con una situazione analoga a quella degli Stati Uniti.
3) Secondo i dati di OCSE circa il 25% degli anziani italiani ha forti limitazioni dell’autonomia nelle attività quotidiane della vita (vestirsi, lavarsi, usare il bagno, etc) – peggio di noi solo Grecia e Slovacchia –. Gli anziani italiani sono in coda alla classifica anche nella percezione di buona salute: solo il 30% afferma di stare bene, rispetto a una media OCSE del 45%, con molti paesi – dal Canada alla Svezia, alla Svizzera, all’Olanda – che registrano livelli superiori al 60-70%. Va infine notato che purtroppo l’Italia vanta il più alto livello di prevalenza di demenza tra i paesi OCSE (Figura 2)[1].
4) Il recente Rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente ci informa che già ora il nostro contributo alla mortalità prematura per inquinamento è in assoluto il più alto fra i Paesi europei, pari a 84.400 decessi annui. Per avere un’idea rispetto a Paesi con popolazione analoga (un po’ maggiore) e sviluppo economico produttivo simile, la Francia ha 52.600 morti premature e l’Inghilterra 49.430; la Germania invece 72.000 su una popolazione con 20 milioni di abitanti in più rispetto all’Italia[2].
Notizie poco confortanti provengono anche dal capitolo dell’accesso alle cure. Riguardo alla spesa diretta (out-of-pocket) dei pazienti (ticket e pagamento privato degli specialisti) e alla capacità del sistema di soddisfare i bisogni dei cittadini (disponibilità di servizi pubblici, liste di attesa, distanze da percorrere per ottenere una prestazione) l’Italia si trova tra i “bottom third performers”, ovvero tra i paesi peggiori. I dati dell’OCSE trovano puntuale conferma con i risultati di analoghe ricerche effettuate da agenzie italiane. Un recente servizio della Repubblica riportando questi dati titolava: “Costi molto alti, gli italiani non si curano più”[3].
“Dalle statistiche fornite dall’Ufficio parlamentare di bilancio, e firmate Eurostat, si scopre che il 7,1% degli italiani (oltre 4,2 milioni di persone) rinuncia a farsi curare perché il costo della prestazione è troppo alto, la lista d’attesa troppo lunga oppure l’ospedale troppo distante. Con il diminuire del reddito il disagio cresce: la rinuncia alla cura sale al 14,6% degli italiani nel caso in cui gli interpellati appartengano al 20% più povero della popolazione italiana”. Un dato in netta crescita e – nel confronto internazionale – sovrapponibile a quello rilevato in Grecia (Figura 3).
Figura 3. Percentuale di popolazione con bisogni sanitari non soddisfatti, per livello di reddito. Paesi OCSE. 2013. |
Il quadro che emerge rivela aspetti decisamente critici su una serie di versanti: l’aumento dei bisogni sanitari e sociali della popolazione anziana, il peso crescente delle patologie croniche, il sovrappeso/obesità dei ragazzi che – se fuori controllo – andrà nel prossimo futuro ad alimentare e a ingrossare la già vasta platea di pazienti affetti da malattie cronico-degenerative, le conseguenze nefaste sulla salute prodotte dall’inquinamento, l’aumento della povertà che sappiamo bene essere un decisivo determinante della malattia e che negli ultimi anni è diventata anche un impedimento nell’accesso alle cure.
Più povera la popolazione, più povero anche il servizio sanitario pubblico, stremato e reso sempre più inaccessibile da più di cinque anni di sottofinanziamento. Di fronte a dati di tale portata ci si sarebbe aspettati una forte reazione politica e parlamentare. Invece, non un’analisi attenta, non una proposta, tanto meno un programma. Tra le mille comparsate televisive e radiofoniche di Renzi, di ministri, governatori e onorevoli non una sola parola è stata spesa sulle questioni della salute degli italiani. Incredibilmente in questi giorni tutta l’attenzione del governo e della sua maggioranza si concentra su altro: sul tema della responsabilità dei professionisti. Ne diamo conto nei due post, di Alberto Donzelli e Luca De Fiore, che sono a corredo di questa newsletter. La morale di questa vicenda è inquietante: se il disegno di legge della maggioranza, ora in discussione alla Camera, andrà in porto l’autonomia professionale dei medici sarà fortemente compromessa e in certi casi annullata, e il sistema sanitario italiano sarà, per legge, sempre di più condizionato dalle scelte dell’industria del farmaco e delle attrezzature bio-medicali. Una situazione unica al mondo.
E le Regioni che fanno? “Regioni chiedono al Governo di riaprire il confronto: Siamo al 6,6% del Pil, il livello più basso del decennio. Più di un terzo spending review sul Ssn. E dal 2017 nuovi tagli inevitabili”[4]. Le Regioni abbaiano, ma non mordono, alla fine si adeguano. Nel frattempo si dedicano a inutili e costosi esercizi di fusione delle ASL. Si tratta di un espediente messo in atto da alcuni governatori per distrarre l’attenzione dal mal-funzionamento dei servizi e per lucrare – attraverso l’accentramento delle decisioni – un po’ più di potere politico.
Alan Maynard ci aveva visto giusto quando, nel 1995, scrisse: “Con monotona regolarità i politici reagiscono ai mal-definiti problemi dei loro sistemi sanitari ridisorganizzandoli”[5].
Bibliografia
1) Oecd. Health at a Glance 2015
2) European Environment Agency – Air Quality in Europe- 2015. Luxembourg: Report, 2015.
3) Petrini R. Costi molto alti, gli italiani non si curano più. La Repubblica, 10 gennaio 2016, pp. 40-41.
4) Sanità. Regioni chiedono al Governo di riaprire il confronto. Quotidianosanita.it, 07.01.2016
5) Maynard A. Competition in health care, caricatures and evidence. European Journal of Publiv Health 1995; 5:144-45.
Fonte
Siria - Le pressioni sul negoziato erano evitabili
Urayb ar-Rintawi – ad Dostour (traduzione di Romana Rubeo)
Se fosse stata caratterizzata da maggiore sagacia e acume, la conferenza delle opposizioni siriane a Riad avrebbe potuto evitare le pressioni, le critiche e la marginalizzazione a cui è stata sottoposta (…) La volontà di prevalere sugli altri ha esposto le opposizioni al fuoco incrociato delle critiche e delle pressioni, che sono arrivate dagli amici prima ancora che dai nemici: da Washington e New York, prima che da Teheran, Damasco e Mosca.
Gli oppositori hanno dimostrato mancanza di capacità e scarsa lungimiranza nell’analisi della situazione siriana e della sua estrema complessità. È sintomatico di una cronica “ristrettezza di vedute”, a meno che questo modo di condurre la conferenza di Riad e la scelta della composizione dell’organismo supervisore e della delegazione negoziale non riflettano il desiderio, da parte degli organizzatori, di minare dall’interno i colloqui Ginevra-3, ponendo fine al dialogo prima ancora che questo abbia inizio.
Il presidente, i capi delegazione e gli altri delegati avrebbero dovuto essere figure meno controverse: persino gli alleati delle opposizioni hanno difficoltà a presentarli come promotori o difensori di una Siria libera, democratica e pluralistica, o come sostenitori dei diritti delle minoranze del Paese.
I delegati che saranno in prima linea nei colloqui avrebbero dovuto essere figure al di sopra di ogni sospetto di terrorismo o di criminalità, come il gruppo Jaysh ul Islam del Ghuta orientale di Damasco. Ma il principio secondo cui ‘chi non è con noi è contro di noi’ sembra aver accecato i suoi sostenitori, trasformandoli in nemici: è quanto avvenuto durante la costituzione della delegazione e nel corso delle accese dispute a livello regionale e internazionale che ne sono conseguite.
Il nobile emissario dell’ONU De Mistura, strenuo difensore dei diritti di genere, auspica una maggiore partecipazione delle donne all’interno della delegazione. Forse non conosce bene i suoi interlocutori: in testa alla delegazione, infatti, ci sono personaggi per cui il pluralismo si traduce nel ‘diritto alla poligamia’. E ce ne sono altri che condividono le idee dell’ISIS in merito alla schiavitù femminile, alla possibilità di considerare i corpi delle donne bottini di guerra e a circondarsi di ‘più donne possibile’.
Figure di questo calibro spianano la strada agli avversari degli altri gruppi dell’opposizione siriana, che a Ginevra potrebbero presentare argomentazioni condivisibili dal resto del mondo e non inaccettabili come alcuni punti di vista, così smaccatamente vicini a quelli dell’ISIS.
Il risultato di tanta fretta nel voler tirare delle conclusioni prima che i tempi fossero maturi è solo uno: la conferenza di Riad è stata privata del diritto di rappresentare le opposizioni siriane. De Mistura doveva tenere il pugno di ferro e riappropriarsi dell’autorità, che era stata concessa a lui e non a singoli stati, di delineare la delegazione delle opposizioni siriane; e nel farlo, ha sfoderato le armi dei criteri di New York e Vienna.
Su questo punto, in particolare, era evidente che il Segretario di Stato John Kerry avrebbe parlato in russo a Riad e che avrebbe usato le minacce del suo amico Sergey Lavrov (Ministro degli Esteri russo) come un’arma per fare pressione sulle opposizioni e sugli organizzatori, e per dettare la linea dei colloqui di Ginevra-3. Ed è accaduto esattamente questo.
Nel momento in cui sono state scritte queste parole, ancora non si conosceva il risultato delle consultazioni tra i gruppi di opposizione a Riad e dei colloqui portati avanti con altre potenze arabe e regionali. Non era neanche chiaro a chi si rivolgesse l’invito a partecipare ai colloqui di Ginevra, da parte dell’emissario delle Nazioni Unite. Ma abbiamo costatato che l’opposizione interna (stanziata in Siria) si è lavata le mani della conferenza di Riad, soprattutto quando la delegazione per Ginevra l’ha esclusa e ha espresso dichiarazioni non in linea con le sue posizioni. Costatiamo anche la costituzione di una seconda delegazione delle opposizioni, formata dai partecipanti alla conferenza del Cairo, dall’autorità curda, dai partecipanti ala conferenza di Mosca e da altri oppositori indipendenti.
In effetti, come già rilevato in un articolo comparso poco prima della recente visita a Riad di Kerry, Washington considera suoi alleati alcuni gruppi di opposizione esclusi dalla conferenza di Riad. Si sente molto più a suo agio con loro e li preferisce di gran lunga alle fazioni, alle brigate e ai personaggi che si sono riuniti a Riad. Avevamo anche sostenuto che Washington potrebbe fare ricorso alla carta dell’intransigenza russa per attenuare le asperità tra le varie posizioni emerse a Riad, e che non presterà ascolto agli avvertimenti di Ankara sulle disastrose conseguenze di un invito dei ‘terroristi curdi’ a Ginevra.
Ma le opposizioni della conferenza di Riad avrebbero dovuto prevedere queste tendenze prima e meglio di noi. Così non è stato. Hanno invece perseverato lungo la strada della perdizione, fino a mettersi all’angolo, fino alla minaccia di vedersi revocato il diritto di “rappresentanza esclusiva” dei vari gruppi dell’opposizione siriana.
“Il processo è stato caratterizzato da una terribile chiusura mentale che, da un lato, riflette l’intolleranza nei confronti del pluralismo che non risparmia le opposizioni e dall’altro, profila un orizzonte denso di nubi per i colloqui con il regime, nel caso in cui la rappresentanza e la negoziazione fossero lasciate esclusivamente nelle mani di tali personaggi,” conclude Rintawi.
Fonte
Se fosse stata caratterizzata da maggiore sagacia e acume, la conferenza delle opposizioni siriane a Riad avrebbe potuto evitare le pressioni, le critiche e la marginalizzazione a cui è stata sottoposta (…) La volontà di prevalere sugli altri ha esposto le opposizioni al fuoco incrociato delle critiche e delle pressioni, che sono arrivate dagli amici prima ancora che dai nemici: da Washington e New York, prima che da Teheran, Damasco e Mosca.
Gli oppositori hanno dimostrato mancanza di capacità e scarsa lungimiranza nell’analisi della situazione siriana e della sua estrema complessità. È sintomatico di una cronica “ristrettezza di vedute”, a meno che questo modo di condurre la conferenza di Riad e la scelta della composizione dell’organismo supervisore e della delegazione negoziale non riflettano il desiderio, da parte degli organizzatori, di minare dall’interno i colloqui Ginevra-3, ponendo fine al dialogo prima ancora che questo abbia inizio.
Il presidente, i capi delegazione e gli altri delegati avrebbero dovuto essere figure meno controverse: persino gli alleati delle opposizioni hanno difficoltà a presentarli come promotori o difensori di una Siria libera, democratica e pluralistica, o come sostenitori dei diritti delle minoranze del Paese.
I delegati che saranno in prima linea nei colloqui avrebbero dovuto essere figure al di sopra di ogni sospetto di terrorismo o di criminalità, come il gruppo Jaysh ul Islam del Ghuta orientale di Damasco. Ma il principio secondo cui ‘chi non è con noi è contro di noi’ sembra aver accecato i suoi sostenitori, trasformandoli in nemici: è quanto avvenuto durante la costituzione della delegazione e nel corso delle accese dispute a livello regionale e internazionale che ne sono conseguite.
Il nobile emissario dell’ONU De Mistura, strenuo difensore dei diritti di genere, auspica una maggiore partecipazione delle donne all’interno della delegazione. Forse non conosce bene i suoi interlocutori: in testa alla delegazione, infatti, ci sono personaggi per cui il pluralismo si traduce nel ‘diritto alla poligamia’. E ce ne sono altri che condividono le idee dell’ISIS in merito alla schiavitù femminile, alla possibilità di considerare i corpi delle donne bottini di guerra e a circondarsi di ‘più donne possibile’.
Figure di questo calibro spianano la strada agli avversari degli altri gruppi dell’opposizione siriana, che a Ginevra potrebbero presentare argomentazioni condivisibili dal resto del mondo e non inaccettabili come alcuni punti di vista, così smaccatamente vicini a quelli dell’ISIS.
Il risultato di tanta fretta nel voler tirare delle conclusioni prima che i tempi fossero maturi è solo uno: la conferenza di Riad è stata privata del diritto di rappresentare le opposizioni siriane. De Mistura doveva tenere il pugno di ferro e riappropriarsi dell’autorità, che era stata concessa a lui e non a singoli stati, di delineare la delegazione delle opposizioni siriane; e nel farlo, ha sfoderato le armi dei criteri di New York e Vienna.
Su questo punto, in particolare, era evidente che il Segretario di Stato John Kerry avrebbe parlato in russo a Riad e che avrebbe usato le minacce del suo amico Sergey Lavrov (Ministro degli Esteri russo) come un’arma per fare pressione sulle opposizioni e sugli organizzatori, e per dettare la linea dei colloqui di Ginevra-3. Ed è accaduto esattamente questo.
Nel momento in cui sono state scritte queste parole, ancora non si conosceva il risultato delle consultazioni tra i gruppi di opposizione a Riad e dei colloqui portati avanti con altre potenze arabe e regionali. Non era neanche chiaro a chi si rivolgesse l’invito a partecipare ai colloqui di Ginevra, da parte dell’emissario delle Nazioni Unite. Ma abbiamo costatato che l’opposizione interna (stanziata in Siria) si è lavata le mani della conferenza di Riad, soprattutto quando la delegazione per Ginevra l’ha esclusa e ha espresso dichiarazioni non in linea con le sue posizioni. Costatiamo anche la costituzione di una seconda delegazione delle opposizioni, formata dai partecipanti alla conferenza del Cairo, dall’autorità curda, dai partecipanti ala conferenza di Mosca e da altri oppositori indipendenti.
In effetti, come già rilevato in un articolo comparso poco prima della recente visita a Riad di Kerry, Washington considera suoi alleati alcuni gruppi di opposizione esclusi dalla conferenza di Riad. Si sente molto più a suo agio con loro e li preferisce di gran lunga alle fazioni, alle brigate e ai personaggi che si sono riuniti a Riad. Avevamo anche sostenuto che Washington potrebbe fare ricorso alla carta dell’intransigenza russa per attenuare le asperità tra le varie posizioni emerse a Riad, e che non presterà ascolto agli avvertimenti di Ankara sulle disastrose conseguenze di un invito dei ‘terroristi curdi’ a Ginevra.
Ma le opposizioni della conferenza di Riad avrebbero dovuto prevedere queste tendenze prima e meglio di noi. Così non è stato. Hanno invece perseverato lungo la strada della perdizione, fino a mettersi all’angolo, fino alla minaccia di vedersi revocato il diritto di “rappresentanza esclusiva” dei vari gruppi dell’opposizione siriana.
“Il processo è stato caratterizzato da una terribile chiusura mentale che, da un lato, riflette l’intolleranza nei confronti del pluralismo che non risparmia le opposizioni e dall’altro, profila un orizzonte denso di nubi per i colloqui con il regime, nel caso in cui la rappresentanza e la negoziazione fossero lasciate esclusivamente nelle mani di tali personaggi,” conclude Rintawi.
Fonte
USA, l’acqua al piombo di Flint
di Michele Paris
Da qualche settimana una gravissima emergenza legata alla fornitura di acqua potabile nella città di Flint, nello stato americano del Michigan, sta provocando una crisi politica che ha colpito in particolare l’amministrazione del governatore Repubblicano, Rick Snyder, anche se le implicazioni e le responsabilità dell’accaduto appaiono ben più ampie.
Le origini della vicenda vanno fatte risalire almeno all’estate del 2014, quando una residente di una delle città più degradate d’America, LeeAnne Walters, aveva notato l’apparire di insolite eruzioni cutanee sulla pelle di uno dei suoi quattro figli dopo ogni bagno nella piscina di casa. La donna aveva allora richiesto un’analisi chimica dell’acqua erogata dai miscelatori della sua abitazione alle autorità municipali, le quali hanno infatti riscontrato la presenza di piombo ad un livello di 104 parti per miliardo (ppb). Le linee guida dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente americana (EPA) indicano la presenza di rischi per la salute già al di sopra di 15 ppb.
Test effettuati nei mesi successivi, e condotti sempre dal comune di Flint, hanno dato poi risultati ben superiori, spesso vicini a 400 ppb. Già questi livelli indicavano una situazione molto pericolosa per i circa 100 mila abitanti della città del Michigan, ma la realtà era di gran lunga peggiore.
Un team di ricercatori dell’università Virginia Tech ha infatti condotto in seguito centinaia di esami in condizioni diverse, riscontrando livelli di piombo sbalorditivi. La rilevazione più preoccupante indicava nell’acqua, bevuta o utilizzata per lavarsi e per cucinare da decine di migliaia di residenti, un livello di oltre 13.000 parti per miliardo. Sempre l’EPA classifica qualsiasi sostanza con un livello di piombo superiore a 5.000 ppb come “rifiuto tossico”.
La differenza dei dati rilevati, secondo i ricercatori della Virginia Tech, era dovuta al fatto che le autorità cittadine avevano adottato – deliberatamente – sistemi per la raccolta dei campioni di acqua che garantivano risultati inferiori. Ad esempio, la quantità di piombo diminuisce se si lascia scorrere l’acqua per alcuni minuti oppure se la raccolta viene fatta mantenendo bassa la pressione del rubinetto.
L’accumulo di piombo nel corpo umano può avere effetti catastrofici e irreversibili, soprattutto nei bambini. Il Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie americano (CDC) spiega come “non si conosca un livello misurabile di piombo nel sangue che non abbia effetti nocivi”. L’EPA, inoltre, ricorda che il livello ideale di piombo in acqua potabile dovrebbe essere pari a “zero”.
In bambini e neonati, l’esposizione al piombo per periodi relativamente lunghi può causare danni fisici e cognitivi irreparabili. Vari studi hanno anche messo in evidenza come il piombo nel corpo umano sia responsabile, tra l’altro, di danni al cervello e al sistema nervoso, ma anche ai reni e al sistema cardiovascolare.
Gli oltre ottomila residenti di Flint al di sotto dei cinque anni hanno con ogni probabilità in gran parte assunto quantità estremamente pericolose di piombo, come ha confermato uno studio medico del settembre scorso che ha confrontato i livelli di questa sostanza nel sangue di centinaia di bambini della città con altri che vivono altrove, riscontrando numeri molto più alti nel caso dei primi.
La causa dell’inquinamento di piombo nell’acqua potabile erogata agli abitanti di Flint, ad ogni modo, è dovuta esclusivamente alle decisioni prese dalla classe politica dello stato del Michigan, a cominciare dal governatore repubblicano Snyder.
L’iniziativa che ha provocato la crisi è datata aprile 2014 ed è dovuta al “commissario speciale” di Flint, Darnell Earley, nominato poco prima dal governatore Snyder per la città in crisi finanziaria. Earley aveva autorizzato l’abbandono del sistema idrico di Detroit per l’approvvigionamento di acqua perché diventato troppo costoso dopo il processo seguito alla bancarotta della metropoli del Michigan. Detroit ottiene la propria acqua dal lago Huron e da qui erano giunte per un secolo anche le forniture idriche destinate a Flint.
Nella primavera del 2014, dunque, Flint optò per le acque dell’omonimo fiume, nonostante fossero ben noti i problemi di inquinamento di questo corso d’acqua, utilizzato per anni come discarica da compagnie come General Motors (GM). Soprattutto, le acque del fiume Flint sono altamente corrosive, così che, non appena hanno iniziato a passare attraverso le vecchie tubature del sistema idrico del Michigan, hanno provocato il distacco del piombo che è appunto finito nelle forniture destinate ai residenti della città.
Questi ultimi si sono venuti poi a trovare in una situazione paradossale, con il gestore della distribuzione dell’acqua che ha continuato a inviare bollette agli utenti di Flint, spesso per centinaia di dollari, nonostante la presenza documentata di piombo e la conseguente minaccia alla loro salute.
La crisi in corso è stata da molti collegata, oltre che ai danni descritti in precedenza a causa dell’esposizione al piombo, a svariati casi di Legionella, un’infezione dell’apparato respiratorio e trasmissibile anche attraverso l’acqua. Nelle scorse settimane, nella sola città di Flint sono stati registrati almeno dieci decessi per questa malattia.
Il governatore Snyder ha tenuto recentemente un discorso pubblico per difendersi dalle accuse di quanti sostengono che la sua amministrazione era a conoscenza della gravità della situazione e ha fatto di tutto per tenerla nascosta. L’ex uomo d’affari diventato politico ha anche pubblicato una serie di e-mail che avrebbero dovuto mostrare la sua estraneità ai fatti, anche se, pur essendo da alcuni considerate incomplete, esse evidenziano tutt’al più il tentativo di minimizzare la crisi o di scaricarne la responsabilità su altri enti.
Le responsabilità non sono però limitate ai membri dell’amministrazione Repubblicana dello stato del Michigan, come vorrebbe una campagna orchestrata soprattutto da politici e militanti Democratici. Infatti, a supervisionare la decisione di abbandonare il sistema idrico di Detroit e a passare alle acque del fiume Flint era stato il segretario al Tesoro dello stato, il Democratico Andy Dillon, chiamato appunto a convalidare tutti i contratti sopra i 50 mila dollari negoziati dal “commissario speciale”.
Non solo, il sindaco e il consiglio comunale di Flint appartengono al Partito Democratico e hanno appoggiato la decisione di ricavare l’acqua dal fiume. La stessa Agenzia federale per la Protezione dell’Ambiente (EPA) è inoltre coinvolta nell’insabbiamento dell’emergenza. Nel giugno del 2015, un suo impiegato di livello relativamente basso, Miguel del Toral, aveva informato i propri superiori circa gli elevatissimi livelli di piombo riscontrati nell’acqua potabile di Flint, avvertendo anche della mancata implementazione di misure destinate a prevenire la corrosione nelle tubature del sistema idrico cittadino.
La pubblicazione di quest’ultima notizia ha portato settimana scorsa alle dimissioni della numero uno dell’EPA in Michigan, Susan Hedman, la quale aveva ritenuto di non dovere dare seguito all’allarme lanciato dal suo sottoposto. Il direttore a livello federale dell’EPA, Gina McCarthy, ha a sua volta difeso l’operato dell’agenzia, mentre il presidente Obama, che l’ha scelta per l’incarico nel 2013, non ne ha chiesto le dimissioni né ha messo in discussione la gestione dell’emergenza.
La Casa Bianca ha messo invece a disposizione la miseria di 80 milioni di dollari per risolvere la crisi. Per riparare il decrepito sistema idrico di Flint di dollari ne servirebbero però almeno 1,5 miliardi, una cifra peraltro irrisoria se paragonata al denaro stanziato da Washington per l’apparato militare USA o a quello garantito a Wall Street da parte della Federal Reserve.
La vicenda che sta riguardando gli abitanti di Flint è strettamente legata alla devastazione economica e sociale prodotta dalla de-industrializzazione del Midwest americano negli ultimi tre decenni. Questa città, in particolare, è stata al centro della storia industriale americana nel XX secolo. Qui era nata nel 1908 la General Motors e nel 1936-1937 ebbe luogo l’imponente sciopero dei lavoratori del settore automobilistico che risultò decisivo per la formazione del sindacato della categoria (UAW).
A Flint, il numero degli impiegati nell’auto era giunto fino a 80 mila per poi crollare a partire dagli anni Ottanta, fino a rimanere oggi una piccola frazione. La storia recente di Flint, così come di Detroit e altre città del Michigan e non solo, è fatta di degrado, povertà, disoccupazione e infrastrutture in sfacelo, risultato della “ristrutturazione” del capitalismo a stelle e strisce, ma anche del vero e proprio saccheggio di beni pubblici da parte di banche, imprenditori e politici che hanno speculato sulla crisi finanziaria di questi ultimi anni.
Per quanto riguarda la crisi idrica e sanitaria in atto, comunque, la città del Michigan non è un caso isolato negli Stati Uniti. Infatti, come hanno rivelato vari giornali in questi giorni, i livelli elevati di piombo nell’acqua potabile vengono spesso riscontrati in molte località del paese, da Baltimora, nel Maryland, a varie cittadine della Louisiana e dell’Alabama, da Pittsburgh, in Pennsylvania, a Boston, nel Massachusetts.
Quasi sempre, le autorità locali e nazionali scelgono di non adottare provvedimenti significativi per far fronte ad una minaccia che, prevedibilmente, lascia i lavoratori e le comunità più povere a fare i conti con le rovinose conseguenze sanitarie che ne derivano.
Fonte
Da qualche settimana una gravissima emergenza legata alla fornitura di acqua potabile nella città di Flint, nello stato americano del Michigan, sta provocando una crisi politica che ha colpito in particolare l’amministrazione del governatore Repubblicano, Rick Snyder, anche se le implicazioni e le responsabilità dell’accaduto appaiono ben più ampie.
Le origini della vicenda vanno fatte risalire almeno all’estate del 2014, quando una residente di una delle città più degradate d’America, LeeAnne Walters, aveva notato l’apparire di insolite eruzioni cutanee sulla pelle di uno dei suoi quattro figli dopo ogni bagno nella piscina di casa. La donna aveva allora richiesto un’analisi chimica dell’acqua erogata dai miscelatori della sua abitazione alle autorità municipali, le quali hanno infatti riscontrato la presenza di piombo ad un livello di 104 parti per miliardo (ppb). Le linee guida dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente americana (EPA) indicano la presenza di rischi per la salute già al di sopra di 15 ppb.
Test effettuati nei mesi successivi, e condotti sempre dal comune di Flint, hanno dato poi risultati ben superiori, spesso vicini a 400 ppb. Già questi livelli indicavano una situazione molto pericolosa per i circa 100 mila abitanti della città del Michigan, ma la realtà era di gran lunga peggiore.
Un team di ricercatori dell’università Virginia Tech ha infatti condotto in seguito centinaia di esami in condizioni diverse, riscontrando livelli di piombo sbalorditivi. La rilevazione più preoccupante indicava nell’acqua, bevuta o utilizzata per lavarsi e per cucinare da decine di migliaia di residenti, un livello di oltre 13.000 parti per miliardo. Sempre l’EPA classifica qualsiasi sostanza con un livello di piombo superiore a 5.000 ppb come “rifiuto tossico”.
La differenza dei dati rilevati, secondo i ricercatori della Virginia Tech, era dovuta al fatto che le autorità cittadine avevano adottato – deliberatamente – sistemi per la raccolta dei campioni di acqua che garantivano risultati inferiori. Ad esempio, la quantità di piombo diminuisce se si lascia scorrere l’acqua per alcuni minuti oppure se la raccolta viene fatta mantenendo bassa la pressione del rubinetto.
L’accumulo di piombo nel corpo umano può avere effetti catastrofici e irreversibili, soprattutto nei bambini. Il Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie americano (CDC) spiega come “non si conosca un livello misurabile di piombo nel sangue che non abbia effetti nocivi”. L’EPA, inoltre, ricorda che il livello ideale di piombo in acqua potabile dovrebbe essere pari a “zero”.
In bambini e neonati, l’esposizione al piombo per periodi relativamente lunghi può causare danni fisici e cognitivi irreparabili. Vari studi hanno anche messo in evidenza come il piombo nel corpo umano sia responsabile, tra l’altro, di danni al cervello e al sistema nervoso, ma anche ai reni e al sistema cardiovascolare.
Gli oltre ottomila residenti di Flint al di sotto dei cinque anni hanno con ogni probabilità in gran parte assunto quantità estremamente pericolose di piombo, come ha confermato uno studio medico del settembre scorso che ha confrontato i livelli di questa sostanza nel sangue di centinaia di bambini della città con altri che vivono altrove, riscontrando numeri molto più alti nel caso dei primi.
La causa dell’inquinamento di piombo nell’acqua potabile erogata agli abitanti di Flint, ad ogni modo, è dovuta esclusivamente alle decisioni prese dalla classe politica dello stato del Michigan, a cominciare dal governatore repubblicano Snyder.
L’iniziativa che ha provocato la crisi è datata aprile 2014 ed è dovuta al “commissario speciale” di Flint, Darnell Earley, nominato poco prima dal governatore Snyder per la città in crisi finanziaria. Earley aveva autorizzato l’abbandono del sistema idrico di Detroit per l’approvvigionamento di acqua perché diventato troppo costoso dopo il processo seguito alla bancarotta della metropoli del Michigan. Detroit ottiene la propria acqua dal lago Huron e da qui erano giunte per un secolo anche le forniture idriche destinate a Flint.
Nella primavera del 2014, dunque, Flint optò per le acque dell’omonimo fiume, nonostante fossero ben noti i problemi di inquinamento di questo corso d’acqua, utilizzato per anni come discarica da compagnie come General Motors (GM). Soprattutto, le acque del fiume Flint sono altamente corrosive, così che, non appena hanno iniziato a passare attraverso le vecchie tubature del sistema idrico del Michigan, hanno provocato il distacco del piombo che è appunto finito nelle forniture destinate ai residenti della città.
Questi ultimi si sono venuti poi a trovare in una situazione paradossale, con il gestore della distribuzione dell’acqua che ha continuato a inviare bollette agli utenti di Flint, spesso per centinaia di dollari, nonostante la presenza documentata di piombo e la conseguente minaccia alla loro salute.
La crisi in corso è stata da molti collegata, oltre che ai danni descritti in precedenza a causa dell’esposizione al piombo, a svariati casi di Legionella, un’infezione dell’apparato respiratorio e trasmissibile anche attraverso l’acqua. Nelle scorse settimane, nella sola città di Flint sono stati registrati almeno dieci decessi per questa malattia.
Il governatore Snyder ha tenuto recentemente un discorso pubblico per difendersi dalle accuse di quanti sostengono che la sua amministrazione era a conoscenza della gravità della situazione e ha fatto di tutto per tenerla nascosta. L’ex uomo d’affari diventato politico ha anche pubblicato una serie di e-mail che avrebbero dovuto mostrare la sua estraneità ai fatti, anche se, pur essendo da alcuni considerate incomplete, esse evidenziano tutt’al più il tentativo di minimizzare la crisi o di scaricarne la responsabilità su altri enti.
Le responsabilità non sono però limitate ai membri dell’amministrazione Repubblicana dello stato del Michigan, come vorrebbe una campagna orchestrata soprattutto da politici e militanti Democratici. Infatti, a supervisionare la decisione di abbandonare il sistema idrico di Detroit e a passare alle acque del fiume Flint era stato il segretario al Tesoro dello stato, il Democratico Andy Dillon, chiamato appunto a convalidare tutti i contratti sopra i 50 mila dollari negoziati dal “commissario speciale”.
Non solo, il sindaco e il consiglio comunale di Flint appartengono al Partito Democratico e hanno appoggiato la decisione di ricavare l’acqua dal fiume. La stessa Agenzia federale per la Protezione dell’Ambiente (EPA) è inoltre coinvolta nell’insabbiamento dell’emergenza. Nel giugno del 2015, un suo impiegato di livello relativamente basso, Miguel del Toral, aveva informato i propri superiori circa gli elevatissimi livelli di piombo riscontrati nell’acqua potabile di Flint, avvertendo anche della mancata implementazione di misure destinate a prevenire la corrosione nelle tubature del sistema idrico cittadino.
La pubblicazione di quest’ultima notizia ha portato settimana scorsa alle dimissioni della numero uno dell’EPA in Michigan, Susan Hedman, la quale aveva ritenuto di non dovere dare seguito all’allarme lanciato dal suo sottoposto. Il direttore a livello federale dell’EPA, Gina McCarthy, ha a sua volta difeso l’operato dell’agenzia, mentre il presidente Obama, che l’ha scelta per l’incarico nel 2013, non ne ha chiesto le dimissioni né ha messo in discussione la gestione dell’emergenza.
La Casa Bianca ha messo invece a disposizione la miseria di 80 milioni di dollari per risolvere la crisi. Per riparare il decrepito sistema idrico di Flint di dollari ne servirebbero però almeno 1,5 miliardi, una cifra peraltro irrisoria se paragonata al denaro stanziato da Washington per l’apparato militare USA o a quello garantito a Wall Street da parte della Federal Reserve.
La vicenda che sta riguardando gli abitanti di Flint è strettamente legata alla devastazione economica e sociale prodotta dalla de-industrializzazione del Midwest americano negli ultimi tre decenni. Questa città, in particolare, è stata al centro della storia industriale americana nel XX secolo. Qui era nata nel 1908 la General Motors e nel 1936-1937 ebbe luogo l’imponente sciopero dei lavoratori del settore automobilistico che risultò decisivo per la formazione del sindacato della categoria (UAW).
A Flint, il numero degli impiegati nell’auto era giunto fino a 80 mila per poi crollare a partire dagli anni Ottanta, fino a rimanere oggi una piccola frazione. La storia recente di Flint, così come di Detroit e altre città del Michigan e non solo, è fatta di degrado, povertà, disoccupazione e infrastrutture in sfacelo, risultato della “ristrutturazione” del capitalismo a stelle e strisce, ma anche del vero e proprio saccheggio di beni pubblici da parte di banche, imprenditori e politici che hanno speculato sulla crisi finanziaria di questi ultimi anni.
Per quanto riguarda la crisi idrica e sanitaria in atto, comunque, la città del Michigan non è un caso isolato negli Stati Uniti. Infatti, come hanno rivelato vari giornali in questi giorni, i livelli elevati di piombo nell’acqua potabile vengono spesso riscontrati in molte località del paese, da Baltimora, nel Maryland, a varie cittadine della Louisiana e dell’Alabama, da Pittsburgh, in Pennsylvania, a Boston, nel Massachusetts.
Quasi sempre, le autorità locali e nazionali scelgono di non adottare provvedimenti significativi per far fronte ad una minaccia che, prevedibilmente, lascia i lavoratori e le comunità più povere a fare i conti con le rovinose conseguenze sanitarie che ne derivano.
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Palestina - Abu Mazen tra riconciliazione con Hamas e lotta per la successione
di Michele Giorgio – Il Manifesto
Dopo aver promosso e ottenuto nei giorni scorsi la clamorosa riconciliazione tra due nemici irriducibili come i leader cristiani-libanesi Samir Geagea e Michel Aoun, adesso il Qatar punta ad un’altra missione impossibile degna di Tom Cruise. Ai primi di febbraio si vedranno a Doha i rappresentati di Fatah, il movimento guidato dal presidente palestinese Abu Mazen, e quelli del movimento islamico Hamas, per negoziare le condizioni della riconciliazione tra le due più importanti formazioni politiche palestinesi e mettere fine alla separazione tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza avvenuta nove anni fa.
A guidare la delegazione di Fatah sarà Azzam al Ahmad mentre quella di Hamas potrebbe essere capeggiata dallo stesso leader in esilio del movimento, Khaled Maashal, che già si trova in Qatar. L’incontro, organizzato su basi incerte, non lascia intravedere grandi possibilità di successo. Le due parti con riluttanza hanno accettato l’invito dei regnanti Qatarioti. I passati nove anni sono stati segnati da colloqui spesso conclusi con accordi e scritti dalle due parti come definitivi, poi le cose sono andate nella direzione opposta. L’ultima volta risale all’inizio dell’estate del 2014, con l’accordo Fatah-Hamas seguito al fallimento dei nove mesi di negoziati tra Israele e l’Anp mediati dal segretario di stato Usa John Kerry.
In quella occasione le due parti formarono un esecutivo di «consenso nazionale» che di fatto non ha mai avuto modo di governare anche a Gaza. Troppo diversi sono gli obiettivi di Fatah, o almeno dei suoi vertici, e quelli di Hamas. Le strade che percorrono restano diverse, nonostante gli appelli all’unità che giungono da più parti. Fatah attraverso i servizi di sicurezza dell’Anp – che cooperano stabilmente con quelli israeliani nonostante la contrarietà della popolazione palestinese – continua ad usare il pugno di ferro con militanti e simpatizzanti di Hamas in Cisgiordania. Da parte sua il movimento islamico non ha esitato a mettere agli arresti domiciliari, anche per lunghi periodi, numerosi esponenti di Fatah.
Si deve tener conto che in questa fase Abu Mazen ha altro per la testa. Da un lato deve fare i conti con la linea aggressiva del governo Netanyahu che accusa i media vicini all’Anp di «istigare alla violenza» e l’ottantenne presidente palestinese di non muovere passi concreti per far cessare l’Intifada dei giovani, cominciata ad ottobre e che si sta allargando in Cisgiordania.
Dall’altro deve affrontare la lotta per la successione che comincia ad occupare la scena ai vertici dell’Anp e dell’Olp. Alcuni dei pretendenti alla futura leadership, come gli ex capi dei servizi di sicurezza Tawfiq Tirawi e Jibril Rajoub, non esitano ad attaccare pubblicamente Abu Mazen e, dicono, non lascia sfogare liberamente l’Intifada. Altri si propongono agli americani e ai leader occidentali e israeliani come i futuri garanti della stabilità nei Territori palestinesi occupati e non esitano a sferrare colpi bassi ai rivali.
Ne è dimostrazione il caso del recente arresto di una spia di Israele nell’ufficio di Saeb Erekat, capo dei negoziatori palestinesi, da poco nominato segretario generale dell’Olp e considerato uno dei principali candidati alla presidenza. La spia, Abdel Nasser Milhem, originario di Tulkarem, è stato descritto dai servizi palestinesi come un informatore degli israeliani da oltre venti anni e, di conseguenza, potrebbe aver passato documenti ed informazioni riservate su aspetti molto delicati del negoziato. Tuttavia non pochi ridimensionano l’importanza di Milhem, descritto a volte come il direttore dell’ufficio di Erekat, altre come un semplice impiegato.
La vicenda, sussurra qualcuno potrebbe essere stata ingigantita dall’intelligence per affossare le ambizioni di Erekat, già al centro di alcune polemiche cinque anni fa, quando alla tv al Jazeera e al britannico Guardian, arrivarono i cosiddetti «Palestinian papers» su importanti concessioni fatte dal capo dei negoziatori durante passate trattative con Israele. Proprio nei giorni scorsi il capo dell’intelligence Majd Farraj, subito dopo l’arresto della spia, ha concesso un’intervista alla statunitense Defence News (vicina al Pentagono) in cui ha rivelato che i servizi dell’Anp hanno sventato decine e decine di attacchi contro Israele negli ultimi mesi e che restano «l’unica barriera contro la penetrazione dell’Isis in Cisgiordania».
L’analista Ghassan al Khatib è convinto che «sino a quando Abu Mazen sarà presidente la situazione ai vertici dell’Anp rimarrà sotto controllo», ma, aggiunge «dovesse il presidente, per qualsiasi ragione, uscire di scena, la lotta tra i pretendenti si farà dura, senza esclusione di colpi, con il rischio di far precipitare l’Anp nel caos».
Fonte
Dopo aver promosso e ottenuto nei giorni scorsi la clamorosa riconciliazione tra due nemici irriducibili come i leader cristiani-libanesi Samir Geagea e Michel Aoun, adesso il Qatar punta ad un’altra missione impossibile degna di Tom Cruise. Ai primi di febbraio si vedranno a Doha i rappresentati di Fatah, il movimento guidato dal presidente palestinese Abu Mazen, e quelli del movimento islamico Hamas, per negoziare le condizioni della riconciliazione tra le due più importanti formazioni politiche palestinesi e mettere fine alla separazione tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza avvenuta nove anni fa.
A guidare la delegazione di Fatah sarà Azzam al Ahmad mentre quella di Hamas potrebbe essere capeggiata dallo stesso leader in esilio del movimento, Khaled Maashal, che già si trova in Qatar. L’incontro, organizzato su basi incerte, non lascia intravedere grandi possibilità di successo. Le due parti con riluttanza hanno accettato l’invito dei regnanti Qatarioti. I passati nove anni sono stati segnati da colloqui spesso conclusi con accordi e scritti dalle due parti come definitivi, poi le cose sono andate nella direzione opposta. L’ultima volta risale all’inizio dell’estate del 2014, con l’accordo Fatah-Hamas seguito al fallimento dei nove mesi di negoziati tra Israele e l’Anp mediati dal segretario di stato Usa John Kerry.
In quella occasione le due parti formarono un esecutivo di «consenso nazionale» che di fatto non ha mai avuto modo di governare anche a Gaza. Troppo diversi sono gli obiettivi di Fatah, o almeno dei suoi vertici, e quelli di Hamas. Le strade che percorrono restano diverse, nonostante gli appelli all’unità che giungono da più parti. Fatah attraverso i servizi di sicurezza dell’Anp – che cooperano stabilmente con quelli israeliani nonostante la contrarietà della popolazione palestinese – continua ad usare il pugno di ferro con militanti e simpatizzanti di Hamas in Cisgiordania. Da parte sua il movimento islamico non ha esitato a mettere agli arresti domiciliari, anche per lunghi periodi, numerosi esponenti di Fatah.
Si deve tener conto che in questa fase Abu Mazen ha altro per la testa. Da un lato deve fare i conti con la linea aggressiva del governo Netanyahu che accusa i media vicini all’Anp di «istigare alla violenza» e l’ottantenne presidente palestinese di non muovere passi concreti per far cessare l’Intifada dei giovani, cominciata ad ottobre e che si sta allargando in Cisgiordania.
Dall’altro deve affrontare la lotta per la successione che comincia ad occupare la scena ai vertici dell’Anp e dell’Olp. Alcuni dei pretendenti alla futura leadership, come gli ex capi dei servizi di sicurezza Tawfiq Tirawi e Jibril Rajoub, non esitano ad attaccare pubblicamente Abu Mazen e, dicono, non lascia sfogare liberamente l’Intifada. Altri si propongono agli americani e ai leader occidentali e israeliani come i futuri garanti della stabilità nei Territori palestinesi occupati e non esitano a sferrare colpi bassi ai rivali.
Ne è dimostrazione il caso del recente arresto di una spia di Israele nell’ufficio di Saeb Erekat, capo dei negoziatori palestinesi, da poco nominato segretario generale dell’Olp e considerato uno dei principali candidati alla presidenza. La spia, Abdel Nasser Milhem, originario di Tulkarem, è stato descritto dai servizi palestinesi come un informatore degli israeliani da oltre venti anni e, di conseguenza, potrebbe aver passato documenti ed informazioni riservate su aspetti molto delicati del negoziato. Tuttavia non pochi ridimensionano l’importanza di Milhem, descritto a volte come il direttore dell’ufficio di Erekat, altre come un semplice impiegato.
La vicenda, sussurra qualcuno potrebbe essere stata ingigantita dall’intelligence per affossare le ambizioni di Erekat, già al centro di alcune polemiche cinque anni fa, quando alla tv al Jazeera e al britannico Guardian, arrivarono i cosiddetti «Palestinian papers» su importanti concessioni fatte dal capo dei negoziatori durante passate trattative con Israele. Proprio nei giorni scorsi il capo dell’intelligence Majd Farraj, subito dopo l’arresto della spia, ha concesso un’intervista alla statunitense Defence News (vicina al Pentagono) in cui ha rivelato che i servizi dell’Anp hanno sventato decine e decine di attacchi contro Israele negli ultimi mesi e che restano «l’unica barriera contro la penetrazione dell’Isis in Cisgiordania».
L’analista Ghassan al Khatib è convinto che «sino a quando Abu Mazen sarà presidente la situazione ai vertici dell’Anp rimarrà sotto controllo», ma, aggiunge «dovesse il presidente, per qualsiasi ragione, uscire di scena, la lotta tra i pretendenti si farà dura, senza esclusione di colpi, con il rischio di far precipitare l’Anp nel caos».
Fonte
Banche, bail in ed offerte americane
Ho appena fatto in tempo a scriverlo la settimana scorsa che prontamente è arrivato (con intera pagina pubblicitaria sulla “Repubblica” e sul “Corriere”) il rilancio dell’offerta della Goldman Sachs che offre obbligazioni decennali in dollari Usa a queste condizioni:
– cedola fissa 6,00% per i primi due anni;
– cedola variabile Usd 3 mesi con valore minimo 1,25% p.a. e massimo 6% p.a. dal terzo anno alla fine della scadenza (al lordo degli eventuali oneri fiscali).
Provo a tradurre in soldoni (mi pare il caso di dirlo) per i non addetti: c’è un signore che offre titoli obbligazionari (dunque cui non si applicano le regole del bail in, anche qualora l’emissione avvenisse da parte della emittente europea e non dalla casa madre) il cui rendimento netto si aggirerebbe intorno al 4% ed in una moneta che si sta apprezzando sull’Euro, per cui, alla fine, il rendimento potrebbe essere anche superiore. Lasciamo perdere le altre clausole pure interessanti, per non essere dispersivi e andiamo al sodo, magari con un esempio.
L’avvocato Sempronio ha un capitale pari a 200.000 euro attualmente investito in parte in voci diverse presso una banca italiana che, si e no, gli dà il 3% netto ma che, soprattutto, lo espone al rischio di un prelievo forzoso dal suo conto in caso di bisogno, sulla base delle norme stabilite dal bail in.
Ha come alternative:
a – investire il titoli di stato ad un rendimento non superiore al 2% netto con qualche eccezione per gli ultra ventennali e con una tendenza (almeno per ora) al ribasso ed in una moneta la cui tendenza attuale e prevedibile è al deprezzamento;
b – investire nell’offerta della Goldman al 4% netto per un decennale, in una moneta tendenzialmente in apprezzamento.
Voi cosa fareste? Se ci fosse Massimo Catalano di “Quelli della Notte” direbbe: “E’ molto meglio prendere più soldi e con meno rischi ed una moneta che sale di valore, che prendere meno, con più rischi ed in una moneta calante”. Vi pare?
E, dunque, mi pare normale che una bella fetta dei clienti con conti oltre i 100.000 Euro andrà alla ricerca di occasioni di investimento sottratte al rischio bail in e, scartati i titoli di Stato per la loro scarsa appetibilità, si dirigerà verso l’offerta Goldman. Non ci suole molto a capire che banche italiane e ministero del Tesoro si troveranno nelle condizioni di dover, prima o poi, alzare i rispettivi interessi. Il che non gioverà alla contabilità delle une e dell’altro.
Il Bail in, allo stato attuale, si applica ai conti superiori ai 100.000 Euro, ma, quando i conti di quell’entità si saranno assottigliati sin quasi a scomparire, sarà gioco forza o entrare in una spirale di debito sempre più difficile da gestire oppure, man mano abbassare il livello al di sopra del quale si applica il “diritto di prelievo”, contando sul fatto che i piccoli risparmiatori hanno meno propensione alla mobilità. Il denaro costerà di più e, di riflesso, le banche non potranno offrire altro che mutui sempre più costosi a privati ed imprese.
Quanto allo Stato, ovviamente un rialzo degli interessi si tradurrà in un aumento della pressione fiscale (come se ce ne fosse bisogno), ed il risultato finale per cittadini ed imprese sarà: mutui più costosi e tasse più alte.
Perfetto, il massimo della linea Pd: “la via italiana al fallimento”.
Ho l’impressione che, già dai prossimi mesi, le tendenze di mercato saranno sempre peggiori. Allegria!
Fonte
– cedola fissa 6,00% per i primi due anni;
– cedola variabile Usd 3 mesi con valore minimo 1,25% p.a. e massimo 6% p.a. dal terzo anno alla fine della scadenza (al lordo degli eventuali oneri fiscali).
Provo a tradurre in soldoni (mi pare il caso di dirlo) per i non addetti: c’è un signore che offre titoli obbligazionari (dunque cui non si applicano le regole del bail in, anche qualora l’emissione avvenisse da parte della emittente europea e non dalla casa madre) il cui rendimento netto si aggirerebbe intorno al 4% ed in una moneta che si sta apprezzando sull’Euro, per cui, alla fine, il rendimento potrebbe essere anche superiore. Lasciamo perdere le altre clausole pure interessanti, per non essere dispersivi e andiamo al sodo, magari con un esempio.
L’avvocato Sempronio ha un capitale pari a 200.000 euro attualmente investito in parte in voci diverse presso una banca italiana che, si e no, gli dà il 3% netto ma che, soprattutto, lo espone al rischio di un prelievo forzoso dal suo conto in caso di bisogno, sulla base delle norme stabilite dal bail in.
Ha come alternative:
a – investire il titoli di stato ad un rendimento non superiore al 2% netto con qualche eccezione per gli ultra ventennali e con una tendenza (almeno per ora) al ribasso ed in una moneta la cui tendenza attuale e prevedibile è al deprezzamento;
b – investire nell’offerta della Goldman al 4% netto per un decennale, in una moneta tendenzialmente in apprezzamento.
Voi cosa fareste? Se ci fosse Massimo Catalano di “Quelli della Notte” direbbe: “E’ molto meglio prendere più soldi e con meno rischi ed una moneta che sale di valore, che prendere meno, con più rischi ed in una moneta calante”. Vi pare?
E, dunque, mi pare normale che una bella fetta dei clienti con conti oltre i 100.000 Euro andrà alla ricerca di occasioni di investimento sottratte al rischio bail in e, scartati i titoli di Stato per la loro scarsa appetibilità, si dirigerà verso l’offerta Goldman. Non ci suole molto a capire che banche italiane e ministero del Tesoro si troveranno nelle condizioni di dover, prima o poi, alzare i rispettivi interessi. Il che non gioverà alla contabilità delle une e dell’altro.
Il Bail in, allo stato attuale, si applica ai conti superiori ai 100.000 Euro, ma, quando i conti di quell’entità si saranno assottigliati sin quasi a scomparire, sarà gioco forza o entrare in una spirale di debito sempre più difficile da gestire oppure, man mano abbassare il livello al di sopra del quale si applica il “diritto di prelievo”, contando sul fatto che i piccoli risparmiatori hanno meno propensione alla mobilità. Il denaro costerà di più e, di riflesso, le banche non potranno offrire altro che mutui sempre più costosi a privati ed imprese.
Quanto allo Stato, ovviamente un rialzo degli interessi si tradurrà in un aumento della pressione fiscale (come se ce ne fosse bisogno), ed il risultato finale per cittadini ed imprese sarà: mutui più costosi e tasse più alte.
Perfetto, il massimo della linea Pd: “la via italiana al fallimento”.
Ho l’impressione che, già dai prossimi mesi, le tendenze di mercato saranno sempre peggiori. Allegria!
Fonte
27/01/2016
Secondo giorno di sciopero a Parigi: Uber dégage!
Ieri mattina Parigi è stata travolta da uno sciopero
su più punti della città che ha riguardato diversi settori. I tassisti,
gli insegnanti e i controllori del traffico aereo hanno paralizzato la
città violando il clima di tensione e paura che imperversava dopo gli
attentati. La più clamorosa tra le proteste è stata quella dei tassisti
che sono scesi per le strade in migliaia bloccando il traffico intorno
agli aereoporti di Roissy e Orly, mentre all'interno di Parigi, circa
140 veicoli si sono radunati davanti al ministero dell'Economia
esponendo cartelli con scritto “Uber dégage” e “Macron démission”.
Nei pressi di Porte Maillot, gli chauffeurs hanno bruciato alcuni
pneumatici per bloccare il traffico provocando l’intervento immediato
della polizia che dopo aver lanciato lacrimogeni per disperdere la folla
ha arrestato circa venti persone.
Ma lo sciopero
continua anche oggi con blocchi stradali e scontri con la polizia e si
sta estendendo al resto della Francia, mentre in tanti stanno
raggiungendo Parigi per dare man forte ai colleghi impegnati nella
capitale.
I tassisti protestano contro la liberalizzazione del servizio e parlano di “Economic terrorism” del governo francese che ha dato il via libera alla multinazionale statunitense Uber. Un portavoce dell’associazione Taxis de France 1, Thierry
Guichard ha dichiarato che il governo ha fallito nel proteggere gli
autisti e nell’assicurare il rispetto delle regole. L’azienda Uber2
infatti garantisce, tramite un app gratuita, la possibilità di chiamare
un taxi con autista ed agisce anche dando la possibilità, a chi ha un
auto propria, di aderire al servizio attirando migliaia di disoccupati. I
tassisti parigini hanno così visto ridurre le proprie entrate a causa
della competizione più sfrenata permessa dal governo.
La
protesta dei tassisti parigini di ieri mattina è addirittura rimbalzata
in Italia. Roma, Napoli e Firenze hanno risposto allo sciopero
d'oltralpe. Gli autisti si sono radunati a piazza Santi Apostoli a Roma,
davanti alla stazione a Firenze e a Napoli le auto bianche hanno
sfilato fino alla prefettura. I lavoratori italiani protestanto contro
Uber e gli Ncc e un emendamento della senatrice Lanzillotta in
discussione proprio ieri in commissione al Senato. Il Pd vorrebbe
regolarizzare Uber in Italia e permettere a chiunque, in possesso di
patente, di offrire un servizio di trasporto senza essere in possesso
della licenza.
Ma il martedì nero di Parigi ha
interessato anche i dipendenti pubblici. Lo Stato francese, come
d’altronde quello italiano, è il più grande datore di lavoro del paese.
Circa 5 milioni di persone dipendono dalle decisioni prese dal governo.
Tra i dipendenti pubblici, compresi gli ospedali, gli insegnanti degli
asili e delle elementari hanno scioperato per protestare contro la
riforma del lavoro proposta a settembre e l’erosione del potere di
acquisto dei lavoratori dell'8% a causa del congelamento
dell'indicizzazione dei salari. Ma il governo francese come tutta
risposta ha fatto sapere tramite il ministro della Funzione Pubblica,
Marylise Lebranchu che la situazione difficile in cui imperversa il
paese non concede cambiamenti in questo senso.
Non c’è da aspettarsi infatti grosse marce indietro nonostante lo sciopero e ad evidenziarlo è la riforma del lavoro in arrivo, che probabilmente metterà in discussione le 35 ore
tanto sacre in Francia. Il ministro dell’Economia, Emmanuel Macron ha
dichiarato la scorsa settimana a Davos che a livello aziendale potrebbe
essere concessa la possibilità di aumentare le ore di lavoro senza
cambiare la retribuzione. Una proposta che sembra ricordare le
dichiarazioni di Poletti di qualche tempo fa. Il ministro italiano
affermava che l'orario di lavoro fosse un parametro troppo vecchio per
definire il salario! In tempi di crisi questo e altro per rispondere
alla minaccia costante delle aziende di andare via dal paese senza un
abbassamento importante del costo del lavoro. E allora i tabu, così
vengono chiamate le 35 ore dal governo francese, come la buonanima
dell'art.18 in Italia, devono essere sfatati e i diritti violati.
Se
aggiungiamo a questo la possibilità data dai nostri governi a
multinazionali come Uber, di proprietà della Goldman Sachs, di entrare a
gamba tesa nei servizi, il cerchio della deregolarizzazione si chiude. Le aziende come la Uber operano digitalizzando i servizi e rispondendo alle esigenze della “smart city” dove sempre più marcata è la differenza tra chi usufruisce di tali sevizi e chi dovrebbe sopravvivere lavorandoci.
Infatti, dietro l'innovazione tecnologica “a portata di mano” avviene
sia la sostituzione del lavoro umano, sia la deregolazione del lavoro
perché ciò che è importante è la sua flessibilità che, per il
beneplacito delle multinazionali, non può adattarsi alla tutela.
Pensiamo ad aziende come Airbnb o alla stessa Uber. Sono delle semplici
app ma mettono in contatto l'offerta e la domanda, quale tipo di diritti
e tutele hanno chi lavora non è affar loro e a questo punto neanche
dello Stato. Il problema è quando vendono tutto questo come
un'opportunità come si sta facendo in Francia: “si creano nuovi posti di lavoro”! Afferma in questi giorni la Uber. Ma a che prezzo?
Un
tempo l'intermediazione di manodopera non era legale, oggi è prassi.
Certo non si tratta di elogiare il lavoro per com'era e rimpiangere i
quarant'anni di servizio che logoravano mente e corpo. Ma si tratta di capire come la trasformazione del lavoro cambia il nesso dello sfruttamento.
Un
nesso subdolo che passa come opportunità. I tassisti di Parigi
combattono per la propria sopravvivenza e non solo, forse combattono
contro un'idea di vita a cui ancora pochi riescono a ribellarsi.
Politiche attive del lavoro: la truffa di Garanzia Giovani
Nel paese in cui il picco dei livelli di disoccupazione giovanile tocca il 45% e in cui cresce il numero di soggetti inattivi, appare scontato, nonché doveroso, che i Governi applichino provvedimenti a sostegno dell’occupazione e dell’occupabilità; evidente è poi che, qualora si tratti di uno Stato membro dell’Ue, a maggior ragione se facente parte dell’Eurozona, le politiche attive del lavoro provengano da dettami europei che lasciano ai Governi nazionali il residuale compito esecutivo. Infatti, i tassi di disoccupazione giovanile nei paesi mediterranei dell’Ue, i meno “virtuosi”, fanno stabilmente concorrenza a quelli italiani, che non accennano a calare (nonostante i proclami riguardo alla ripresa della crescita e dell’occupazione con cui Renzi e i ministri del governo a targa Pd avvalorano le loro tesi).
Così, unitamente all’obbligo di riduzione dei diritti sul lavoro, di licenziamenti, di tagli dei salari e delle pensioni, di ridimensionamento del welfare, Bruxelles ha sfortunatamente pensato anche ai giovani disoccupati: a maggio 2014 è partito il programma Youth Guarantee, da non tradurre erroneamente (come invece hanno fatto pressoché tutte le Regioni) con “Garanzia Giovani” ma con “Patto con i Giovani”. Garanzie, infatti, ce ne sono ben poche.
Il programma è rivolto ai giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non svolgono corsi di formazione (i cosiddetti “Neet”, Not in Education, Employment or Training), viene finanziato dal Fondo sociale europeo, curato dalle Regioni con l’ausilio dei Centri per l’impiego e delle Agenzie per il lavoro private (ex Agenzie interinali), e si pone l’obiettivo di incrementare l’occupabilità dei giovani. Occupabilità, non occupazione, poiché i soggetti che al termine del programma verranno effettivamente assunti, infatti, saranno una minima percentuale (inferiore al 10%, a detta degli stessi responsabili del programma) e l’ausilio dello stesso a questo fine sarà stato praticamente nullo.
L’obiettivo è dunque l’incremento dell’occupabilità del giovane disoccupato che vive tale condizione lavorativa a causa, a quanto pare, di una sua carente appetibilità ed adeguatezza al mercato del lavoro (le cui esigenze, in caso di contrasto, prevalgono su qualsiasi proposito di valorizzazione delle competenze del soggetto, così come indicato nel bando stesso del programma).
Ma cosa significa accrescere l’occupabilità di un disoccupato di questa fattispecie? La risposta è semplice: proporgli tutto per non poter fare niente. Garanzia Giovani propone percorsi differenti, con il tutoraggio a scelta tra Centro per l’impiego e dell’Agenzia per il lavoro privato (quest’ultima, ovviamente, retribuita per la sola presa in carico): tra questi vi è il servizio civile, vi sono diversi corsi di alta formazione nei settori che più interessano le imprese (e per i quali viene retribuito l’ente di formazione privato), e vi è il cosiddetto “accompagnamento al lavoro”, niente di più che tirocini semestrali in impresa (che usufruisce di tirocinanti senza alcun onere retributivo). C’è poi una nuovissima opportunità per i neo iscritti al programma: si chiama “Crescere in digitale”, ed è un progetto basato sulla partnership tra Garanzia Giovani, Ministero del Lavoro e... Google! Certo, proprio Google. La multinazionale infatti si occupa della formazione, via telematica, dei giovani iscritti al progetto, attraverso propri manager e consulenti che registrano video e materiali formativi utili poi al ragazzo per sostenere l’esame di ammissione al tirocinio. Un corso di formazione, che si conclude con un esame di verifica delle competenze acquisite utile, poi, a far accedere il giovane al tirocinio semestrale di cui abbiamo già parlato.
Come si è potuta partorire un simile obbrobrio contrario a ogni etica sul lavoro dignitoso? Semplice: è stata un’espressa richiesta delle imprese, e viene detto senza remore. Le imprese private hanno constatato una propria carenza interna nell’ambito della digitalizzazione, carenza che potrebbe portare ovviamente ad una caduta delle possibilità di guadagno per la stessa, e al contempo hanno riscontrato che numerosi tirocinanti (lo ricordiamo, a costo zero per le imprese) non erano adeguatamente formati per far fronte alle necessità aziendali. Il resto vien da sé: nelle lezioni telematiche che si impartiscono ai giovani disoccupati viene spiegata l’attuale logica del mercato del lavoro a cui devono omologarsi, l’opportunità di poter spaziare tra diversi ambiti lavorativi se si è in grado di reinventarsi ed adattarsi, e viene spiegato loro che questo progetto non è assolutamente finalizzato alla loro occupabilità ma al servizio alle imprese. Devono essere d’ausilio per l’impresa in quei sei mesi di tirocinio mal retribuito, hanno bisogno di questo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Al termine del programma il giovane disoccupato avrà compreso l’inestimabile valore del lavoro gratuito (la retribuzione del tirocinio viene denominata rimborso proprio a causa della sua esiguità), l’utile capacità di adattamento, di flessibilità e di resa a quelle che sono misere condizioni lavorative a cui sarà sottoposto, precludendosi la possibilità di pretendere o rivendicarne delle migliori. Avrà imparato, insomma, quelle che sono le nuove regole del mercato del lavoro, quella traccia politica entro la quale si stanno includendo tutti i lavoratori, anche i meno giovani o coloro che avrebbero sperato, di qui a qualche anno, in un pensionamento, e che vedono questo traguardo allontanarsi sempre più. Fra questi, poi, vi è una larga fetta di popolazione definita “inoccupabile”, cioè tutti coloro che, secondo il mercato del lavoro, non possono essere più utili e produttivi nella misura in cui sarebbe necessario, e che vengono esclusi dalle misure di inserimento occupazionale, per quanto fallimentari siano (vedi la sperimentazione del Contratto di Ricollocazione, che ha escluso i disoccupati di lungo corso e i più anziani); sono scelte politiche, e i responsabili in questione non si sforzano di negarlo.
Ma, nonostante la disperazione di chi non ha lavoro e che potrebbe essere spinto ad accettare qualsiasi tipo di proposta, da un lato, e i falsi proclami propagandistici dall’altro, è evidente che il programma sia stato un totale fallimento: il rapporto Adapt di circa un anno fa (ma la situazione non è andata migliorando) dimostra che, a fronte di un larghissimo bacino d’utenza potenziale, gli iscritti al programma sono una minima percentuale e, tra questi, ancor meno coloro che sono stati profilati ed hanno intrapreso uno dei percorsi proposti. D’altro canto, si può facilmente immaginare che un giovane residente in una periferia romana, la cui famiglia non ha ingenti possibilità economiche, ricada più facilmente nelle maglie del lavoro sommerso o dell’illecito piuttosto che attendere mesi per ottenere la retribuzione di un tirocinio, per poi restare sostanzialmente con un pugno di mosche. Ed anche qualora egli fosse ampiamente “occupabile”, la carenza di opportunità lavorative lo porterebbero ad accettare condizioni lavorative al massimo ribasso, offuscando qualsiasi idea per la quale il lavoro si configuri come diritto fondamentale nella sua accezione di lavoro dignitoso ed equamente retribuito.
Questi i motivi per cui lunedì scorso ci siamo recati, insieme a tutti i giovani delusi dal programma Garanzia Giovani, difronte la Regione Lazio, per pretendere lavoro e dignità da chi altro non fa che, in linea con i precetti europei e governativi, scaricare su di noi le politiche di precarizzazione, sfruttamento e svalorizzazione; ed è per questo motivo che, questa mattina, ci siamo recati all’apertura del CPI di Porta Futuro all’interno dell’Università La Sapienza, sede che dedicherà sportelli all’orientamento al lavoro e ai corsi di formazione, all’inserimento all’interno del programma Garanzia Giovani e ad eventi e convegni (es: Career Day), nonché alla consulenza e al sostegno per le imprese che ivi si recheranno.
Di seguito il comunicato della giornata di oggi a Porta Futuro Sapienza.
Questa mattina alcuni studenti dell’Università La Sapienza, insieme a disoccupati e precari delle periferie romane, si sono recati ad offrire il loro particolare “benvenuto” al CPI di Porta Futuro all’interno dell’ateneo, che quest’oggi apre i battenti per primo tra i 7 gemelli che verranno attivati in altrettante università della Regione, per un finanziamento totale di €20 milioni. I disoccupati, i precari e gli studenti, gli sfruttati dai programmi per le politiche attive del lavoro o, peggio ancora, gli esclusi ed emarginati da ogni forma di misura di sostegno all’occupazione, sanno bene cosa significa l’apertura di Porta Futuro dentro gli atenei: significa dar seguito ai dettami europei sulle politiche del lavoro che permeano ogni proclamo, ogni misura e ogni legge del Governo, mero esecutore, targato PD. La loro formazione, le loro ambizioni e la loro vita dovranno ricondursi sempre alla ricerca di un’improbabile indice di occupabilità, ovvero il livello di appetibilità della propria storia formativa e lavorativa per il mercato del lavoro sarà l’indicatore del proprio valore. Le esigenze del mercato del lavoro, le esigenze delle grandi imprese (con cui si sono strette collaborazioni e partnership, così come con le Agenzie per il Lavoro privato) primeggiano sul diritto al lavoro. Porta Futuro, purtroppo non da oggi, è promotrice di questa logica e tende a diffonderla tra i più giovani, coloro i quali dovranno adeguarsi, adattarsi, non pretendere ed essere sfruttati e precari a vita, con una tardiva, misera, o forse completamente inesistente, pensione. Oggi continua la battaglia delle fasce della popolazione sempre più sfruttate e precarie: Il lavoro, congruo alla propria formazione e ambizione, dignitoso e equamente retribuito è un diritto inderogabile! Porta Futuro… di precarietà e sfruttamento!
Fonte
Così, unitamente all’obbligo di riduzione dei diritti sul lavoro, di licenziamenti, di tagli dei salari e delle pensioni, di ridimensionamento del welfare, Bruxelles ha sfortunatamente pensato anche ai giovani disoccupati: a maggio 2014 è partito il programma Youth Guarantee, da non tradurre erroneamente (come invece hanno fatto pressoché tutte le Regioni) con “Garanzia Giovani” ma con “Patto con i Giovani”. Garanzie, infatti, ce ne sono ben poche.
Il programma è rivolto ai giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non svolgono corsi di formazione (i cosiddetti “Neet”, Not in Education, Employment or Training), viene finanziato dal Fondo sociale europeo, curato dalle Regioni con l’ausilio dei Centri per l’impiego e delle Agenzie per il lavoro private (ex Agenzie interinali), e si pone l’obiettivo di incrementare l’occupabilità dei giovani. Occupabilità, non occupazione, poiché i soggetti che al termine del programma verranno effettivamente assunti, infatti, saranno una minima percentuale (inferiore al 10%, a detta degli stessi responsabili del programma) e l’ausilio dello stesso a questo fine sarà stato praticamente nullo.
L’obiettivo è dunque l’incremento dell’occupabilità del giovane disoccupato che vive tale condizione lavorativa a causa, a quanto pare, di una sua carente appetibilità ed adeguatezza al mercato del lavoro (le cui esigenze, in caso di contrasto, prevalgono su qualsiasi proposito di valorizzazione delle competenze del soggetto, così come indicato nel bando stesso del programma).
Ma cosa significa accrescere l’occupabilità di un disoccupato di questa fattispecie? La risposta è semplice: proporgli tutto per non poter fare niente. Garanzia Giovani propone percorsi differenti, con il tutoraggio a scelta tra Centro per l’impiego e dell’Agenzia per il lavoro privato (quest’ultima, ovviamente, retribuita per la sola presa in carico): tra questi vi è il servizio civile, vi sono diversi corsi di alta formazione nei settori che più interessano le imprese (e per i quali viene retribuito l’ente di formazione privato), e vi è il cosiddetto “accompagnamento al lavoro”, niente di più che tirocini semestrali in impresa (che usufruisce di tirocinanti senza alcun onere retributivo). C’è poi una nuovissima opportunità per i neo iscritti al programma: si chiama “Crescere in digitale”, ed è un progetto basato sulla partnership tra Garanzia Giovani, Ministero del Lavoro e... Google! Certo, proprio Google. La multinazionale infatti si occupa della formazione, via telematica, dei giovani iscritti al progetto, attraverso propri manager e consulenti che registrano video e materiali formativi utili poi al ragazzo per sostenere l’esame di ammissione al tirocinio. Un corso di formazione, che si conclude con un esame di verifica delle competenze acquisite utile, poi, a far accedere il giovane al tirocinio semestrale di cui abbiamo già parlato.
Come si è potuta partorire un simile obbrobrio contrario a ogni etica sul lavoro dignitoso? Semplice: è stata un’espressa richiesta delle imprese, e viene detto senza remore. Le imprese private hanno constatato una propria carenza interna nell’ambito della digitalizzazione, carenza che potrebbe portare ovviamente ad una caduta delle possibilità di guadagno per la stessa, e al contempo hanno riscontrato che numerosi tirocinanti (lo ricordiamo, a costo zero per le imprese) non erano adeguatamente formati per far fronte alle necessità aziendali. Il resto vien da sé: nelle lezioni telematiche che si impartiscono ai giovani disoccupati viene spiegata l’attuale logica del mercato del lavoro a cui devono omologarsi, l’opportunità di poter spaziare tra diversi ambiti lavorativi se si è in grado di reinventarsi ed adattarsi, e viene spiegato loro che questo progetto non è assolutamente finalizzato alla loro occupabilità ma al servizio alle imprese. Devono essere d’ausilio per l’impresa in quei sei mesi di tirocinio mal retribuito, hanno bisogno di questo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Al termine del programma il giovane disoccupato avrà compreso l’inestimabile valore del lavoro gratuito (la retribuzione del tirocinio viene denominata rimborso proprio a causa della sua esiguità), l’utile capacità di adattamento, di flessibilità e di resa a quelle che sono misere condizioni lavorative a cui sarà sottoposto, precludendosi la possibilità di pretendere o rivendicarne delle migliori. Avrà imparato, insomma, quelle che sono le nuove regole del mercato del lavoro, quella traccia politica entro la quale si stanno includendo tutti i lavoratori, anche i meno giovani o coloro che avrebbero sperato, di qui a qualche anno, in un pensionamento, e che vedono questo traguardo allontanarsi sempre più. Fra questi, poi, vi è una larga fetta di popolazione definita “inoccupabile”, cioè tutti coloro che, secondo il mercato del lavoro, non possono essere più utili e produttivi nella misura in cui sarebbe necessario, e che vengono esclusi dalle misure di inserimento occupazionale, per quanto fallimentari siano (vedi la sperimentazione del Contratto di Ricollocazione, che ha escluso i disoccupati di lungo corso e i più anziani); sono scelte politiche, e i responsabili in questione non si sforzano di negarlo.
Ma, nonostante la disperazione di chi non ha lavoro e che potrebbe essere spinto ad accettare qualsiasi tipo di proposta, da un lato, e i falsi proclami propagandistici dall’altro, è evidente che il programma sia stato un totale fallimento: il rapporto Adapt di circa un anno fa (ma la situazione non è andata migliorando) dimostra che, a fronte di un larghissimo bacino d’utenza potenziale, gli iscritti al programma sono una minima percentuale e, tra questi, ancor meno coloro che sono stati profilati ed hanno intrapreso uno dei percorsi proposti. D’altro canto, si può facilmente immaginare che un giovane residente in una periferia romana, la cui famiglia non ha ingenti possibilità economiche, ricada più facilmente nelle maglie del lavoro sommerso o dell’illecito piuttosto che attendere mesi per ottenere la retribuzione di un tirocinio, per poi restare sostanzialmente con un pugno di mosche. Ed anche qualora egli fosse ampiamente “occupabile”, la carenza di opportunità lavorative lo porterebbero ad accettare condizioni lavorative al massimo ribasso, offuscando qualsiasi idea per la quale il lavoro si configuri come diritto fondamentale nella sua accezione di lavoro dignitoso ed equamente retribuito.
Questi i motivi per cui lunedì scorso ci siamo recati, insieme a tutti i giovani delusi dal programma Garanzia Giovani, difronte la Regione Lazio, per pretendere lavoro e dignità da chi altro non fa che, in linea con i precetti europei e governativi, scaricare su di noi le politiche di precarizzazione, sfruttamento e svalorizzazione; ed è per questo motivo che, questa mattina, ci siamo recati all’apertura del CPI di Porta Futuro all’interno dell’Università La Sapienza, sede che dedicherà sportelli all’orientamento al lavoro e ai corsi di formazione, all’inserimento all’interno del programma Garanzia Giovani e ad eventi e convegni (es: Career Day), nonché alla consulenza e al sostegno per le imprese che ivi si recheranno.
Di seguito il comunicato della giornata di oggi a Porta Futuro Sapienza.
Questa mattina alcuni studenti dell’Università La Sapienza, insieme a disoccupati e precari delle periferie romane, si sono recati ad offrire il loro particolare “benvenuto” al CPI di Porta Futuro all’interno dell’ateneo, che quest’oggi apre i battenti per primo tra i 7 gemelli che verranno attivati in altrettante università della Regione, per un finanziamento totale di €20 milioni. I disoccupati, i precari e gli studenti, gli sfruttati dai programmi per le politiche attive del lavoro o, peggio ancora, gli esclusi ed emarginati da ogni forma di misura di sostegno all’occupazione, sanno bene cosa significa l’apertura di Porta Futuro dentro gli atenei: significa dar seguito ai dettami europei sulle politiche del lavoro che permeano ogni proclamo, ogni misura e ogni legge del Governo, mero esecutore, targato PD. La loro formazione, le loro ambizioni e la loro vita dovranno ricondursi sempre alla ricerca di un’improbabile indice di occupabilità, ovvero il livello di appetibilità della propria storia formativa e lavorativa per il mercato del lavoro sarà l’indicatore del proprio valore. Le esigenze del mercato del lavoro, le esigenze delle grandi imprese (con cui si sono strette collaborazioni e partnership, così come con le Agenzie per il Lavoro privato) primeggiano sul diritto al lavoro. Porta Futuro, purtroppo non da oggi, è promotrice di questa logica e tende a diffonderla tra i più giovani, coloro i quali dovranno adeguarsi, adattarsi, non pretendere ed essere sfruttati e precari a vita, con una tardiva, misera, o forse completamente inesistente, pensione. Oggi continua la battaglia delle fasce della popolazione sempre più sfruttate e precarie: Il lavoro, congruo alla propria formazione e ambizione, dignitoso e equamente retribuito è un diritto inderogabile! Porta Futuro… di precarietà e sfruttamento!
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