Dalle elezioni in Turchia del 24 giugno è passato più di un mese. Prima delle elezioni un’occupazione di Bradost e Qandil rappresentava uno degli argomenti centrali nei media della propaganda dell’AKP e di Tayyip Erdoğan. Naturalmente questi attacchi non erano né straordinari né limitati solo alla propaganda elettorale.
La guerriglia ha sventato i piani
Le operazioni si possono capire solo nel contesto di un piano più ampio con la partecipazione di USA, Regno Unito e del KDP del Kurdistan del sud. Così gli USA, il Regno Unito e altre potenze internazionali vogliono usare la Turchia per aumentare la pressione sull’Iran. A fronte di questo è stato fatto l’accordo di Minbic con la Turchia per il mantenimento del potere di Erdoğan e l’allargamento delle zone occupate in Rojava e nel Kurdistan del sud come contropartita. Tuttavia non è andata come previsto. Le reazioni della popolazione del Kurdistan del sud e le efficaci azioni della guerriglia in corso fin dal mese di marzo, rappresentano un ostacolo nell’esecuzione del piano. Dato che l’occupazione non ha funzionato come Erdoğan aveva previsto, anche l’altra parte, l’intervento in Iran, non ha potuto avere luogo.
Erdoğan e l’AKP nel dicembre 2017 hanno iniziato attacchi di invasione su Bradost e nel marzo 2018 si sono seriamente preparati a un nuovo avvio. Nei mesi da marzo ad aprile la regione è stata bombardata 24 ore al giorno da aerei da combattimento e elicotteri Kobra, aerei da ricognizione sorvolavano continuamente le aree. Nonostante questo l’esercito è riuscito a penetrare nella regione solo per cinque chilometri. Sulle vette Siro, Partîzan e Lêlîkan con massicci attacchi aerei e di artiglieria con elicotteri da trasporto Sikorsky truppe sono state scaricate nella regione montuosa. Questi soldati sono stati presi di mira dalla guerriglia da ogni lato. Contro le vette citate, finora sono state fatte circa 80 azioni. La guerriglia ha pubblicato riprese della maggior parte delle azioni. L’opinione pubblica turca e internazionale ha visto come l’esercito turco, definito eccellente, ha fallito e in quale situazione senza scampo i suoi soldati sono stati lasciati a morire.
Morti oltre 270 soldati
Nelle azioni della guerriglia sono morti oltre 270 soldati. È deplorevole che i media turchi non abbiano nemmeno dato la notizia della morte dei figli della popolazione povera che sono stati mandati a morire nel Kurdistan del sud. La guerriglia ha comunicato le sue azioni giorno per giorno. Ha mostrato le armi e gli equipaggiamenti conquistati al pubblico. Lo stato turco ha nascosto la morte dei figli della popolazione povera. Quando venivano mostrati pubblicamente i caschi dei soldati e le armi, occasionalmente alle perdite venivano riservati articoli marginali. Questo mostra che a nessun soldato viene attribuito tanto valore quanto a un’arma.
Colpo su colpo a Bradost
Mentre lo Stato turco a Lêlîkan, Ali Direj, Partîzan e Avdol Kovi ha continuamente incassato colpi duri e ben documentati, ha cercato di nascondere la sconfitta con notizie di successi. “Avanziamo su Qandil”, è stato detto ripetutamente nei titoli. In questo modo Qandil è arrivata in cima all’ordine del giorno. Un’invasione di Qandil era parte del piano. Si tratta di una parte decisiva dell’intenzione di iniziare l’occupazione a Bradost e di avanzare poi fino a Qandil.
Questo piano è stato citato ripetutamente dal Ministro degli Interni Süleyman Soylu e dall’allora Primo Ministro Binali Yıldırım in dichiarazioni corrispondenti. Soylu ha detto, “Siamo a venti chilometri da Qendîl” e Yıldırım ha parlato di undici basi militari nel “Iraq del nord”. Queste dichiarazioni mostravano la direzione del piano. Qandil è stata messa all’ordine del giorno per nascondere le pesanti perdite a Bradost. Con il permesso del capo del governo del Kurdistan del sud del KDP, Neçirvan Barzanî, con l’aiuto del portavoce governativo Sefin Dizai si è cercato di nascondere le pesanti perdite. Corrispondenti dell’agenzia stampa Anadolu Ajans vicina all’AKP, sono stati inviato in una base del KDP sulla vetta Korek nelle montagne di Qendîl. Da questa postazione hanno fatto una trasmissione in diretta. Si trattava unicamente del tentativo di ingannare l’opinione pubblica.
Proteste della popolazione del Kurdistan del sud contro l’atteggiamento del KDP
Da un lato le azioni efficaci della guerriglia hanno fatto fallire il piano di occupazione e hanno inflitto all’esercito turco totalmente sotto il controllo di Erdoğan, gravi perdite. Dall’altro lato anche le proteste della popolazione del Kurdistan del sud hanno avuto il loro effetto. Dopo che Neçirvan Barzanî aveva fatto dichiarazioni nelle quali legittimava l’invasione turca, è andato ancora oltre e ha fatto finta che l’occupazione turca non esistesse affatto. Ha perfino dichiarato occupanti il movimento di liberazione curdo che in mezzo secolo di lotta per la liberazione del Kurdistan ha dato oltre 40.000 caduti. A quel punto in nove città e molti villaggi e località del Kurdistan del sud ci sono state proteste contro l’occupazione e le affermazioni di Barzanî.
La popolazione ha reagito in questo modo sia alla dichiarazione di Erdoğan sia a quella di Barzanî del giorno precedente. Lo Stato turco ha fatto incessantemente pressione su partiti politici, organizzazioni e sulla popolazione del Kurdistan del sud per renderli propri complici. Il Ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu ha affermato “Hewlêr è con noi, ma una parte di Gorran e PUK non sono con noi.”
Rispetto a questo il Movimento Gorran ha dichiarato che la lotta di liberazione curda è una componente essenziale del movimento e che viene sostenuta. Con questo ha nuovamente chiarito la sua opposizione all’invasione e ha trasmesso a Barzanî il messaggio che il Kurdistan è la patria di tutte le organizzazioni curde. A seguito di questo le persone delle zone colpite, intellettuali, attivisti e giovani in interviste con diversi canali TV hanno dichiarato “il PKK nel Kurdistan del sud è nel suo Paese”. Da ultimo anche il movimento islamico ha fatto una dichiarazione chiara in questo senso.
Dopo le elezioni l’argomento è stato lasciato cadere
Sulla base di questi sviluppi, dopo le elezioni le grida di Erdoğan e dell’AKP su una presa di Qendîl sono cessate. Dichiarazioni sull’invasione e sul piano di invasione sono diventate praticamente impossibili. Sono state cancellate dall’ordine del giorno. Dalle elezioni è passato oltre un mese. I signori che dozzine di volte hanno parlato di un’occupazione ora fingono di non aver mai sostenuto una cosa del genere e in particolare Erdoğan e i generali dell’AKP tacciono. Questo tuttavia non significa che il piano di occupazione sia finito. È ancora in corso. Il piano di Erdoğan e dell’AKP di portare la guerra contro la guerriglia fino nel Kurdistan del sud ha però subito un grave colpo. Perché questo era un altro obiettivo importante del piano, di spostare del tutto la guerra dal nord della Turchia nel Kurdistan del sud.
L’AKP sarà costretto ad accettare la guerra nel Kurdistan del nord e in Turchia. Così la guerriglia si è mobilitata anche nel Kurdistan del nord e in Turchia conducendo azioni efficaci. A fronte di questo il piano continua ancora perché Erdoğan e il suo esercito di occupazione fanno massicci preparativi per la sua prosecuzione. Ai confini con il Kurdistan del sud vengono radunate senza sosta forze militari e le montagne del Kurdistan del sud continuano a essere bombardate.
La rabbia della gente nel Kurdistan del sud cresce. Sarà inevitabile che Erdoğan e lo Stato turco incontrino una resistenza ancora più dura se dovessero continuare il loro piano.
Il giornalista Seyit Evran sugli annunci di Erdoğan e dello Stato turco di occupare Bradost e Qandil nel Kurdistan del sud, 28.07.2018
Fonte
31/07/2018
Ucraina: il deposto Janukovic si appella al Tribunale de L’Aja
Lo scorso 14 luglio l’ex presidente Viktor Janukovic, che l’attuale junta golpista accusa di “tradimento della patria” (comincia oggi il dibattimento presso una corte circondariale di Kiev), ha presentato una querela alla procura generale ucraina: formalmente, per “difesa dell’onore, della dignità e della reputazione”; la prima seduta è fissata per il 13 settembre. Concretamente, si tratta dell’avvio di un’indagine sul colpo di stato del febbraio 2014.
Janukovic chiede di accertare la responsabilità nel putsch di vari personaggi di primo piano, tra cui Ministro degli interni Arsen Avakov, sindaco di Kiev Vitalij Klichko, Procuratore generale Jurij Lutsenko, speaker della Rada Andrej Parubij, ex capo dei Servizi di sicurezza Valentin Nalivajcenko, deputato del “Fronte popolare” Sergej Pashinskij, segretario del Consiglio di sicurezza Aleksandr Turcinov, leader di “Svoboda” Oleg Tjagnibok ed ex premier Arsenij Jatsenjuk.
Forse non del tutto stranamente, le informazioni non citano, tra i querelati, l’attuale presidente Petro Poroshenko, che all’epoca non era nelle prime linee del golpe. Il collegio legale che ha preso in carico l’azione dell’ex presidente ucraino avrebbe già pronta anche un’istanza da presentare al Tribunale de L’Aja, in cui i medesimi soggetti vengono accusati non solo del colpo di stato, ma anche di sparatorie di massa a majdan Nezalezhnosti.
Nella cerchia di Janukovic si dice che il deposto presidente, per l’avvio delle azioni legali, avrebbe atteso qualche segnale di mutamento nel clima politico, anche internazionale, attorno al regime golpista e si sottolinea come il collegio legale disponga di centinaia di testimonianze di partecipanti diretti a majdan, secondo i quali la strage fu organizzata scientemente. L’ex attivista di majdan e oggi deputato, Vladimir Parasjuk ricorda come proprio l’attuale Procuratore generale – l’elettrotecnico Lutsenko – esortasse in quei giorni gli ucraini a impadronirsi degli arsenali e a sparare sul Berkut, i reparti speciali del Ministero degli interni, secondo il piano elaborato da Pashinskij e dal boldriniano Parubij.
Parasjuk avrebbe anche detto di non aver intenzione di testimoniare pubblicamente, finché dura l’attuale regime, perché teme per la propria vita e per quella di altri “majdanisti” che pure avrebbero preziose informazioni da rendere pubbliche.
Che il clima politico, anche negli ambienti dei tutor internazionali di Kiev, si stia, se pur impercettibilmente, modificando sembra testimoniarlo anche il fatto che, secondo il servizio stampa dell’esercito ucraino, ripreso da novorosinform.org, dall’inizio dell’anno avrebbero presentato rapporto di dimissioni circa undicimila tra ufficiali e militari a contratto, mentre sempre meno “contrattisti” stranieri sarebbero disposti a sottoscrivere ferme a lunga scadenza e il corpo sottufficiali sembra disporre di appena il 65% degli effettivi.
Da qui a fine anno, secondo la stessa fonte, dovrebbero seguirne l’esempio altri diciottomila uomini; causa prima: insufficienza delle paghe. Il Ministro della difesa Stepan Poltorak avrebbe lamentato una carenza di fondi di 4,5 miliardi di grivne, da destinare alle paghe dei militari nella seconda metà dell’anno. Già la settimana scorsa, le milizie della Repubblica popolare di Donetsk avevano rilevato come, evidentemente proprio in conseguenza dei ritardi nella riscossione delle paghe, i soldati ucraini avessero intensificato la pratica, da tempo in uso, di vendere materiale bellico.
Tale commercio di armi porta spesso a sparatorie tra reparti appartenenti alle stesse brigate, con morti e feriti tra le truppe di Kiev; in qualche caso, per stroncare gli episodi di indisciplina, saccheggio, contrabbando e mercato di armi, i comandi sono stati costretti a ritirare dal fronte anche reparti operativi avanzati.
Sempre secondo le milizie della DNR, vari comandi ucraini al fronte, nei rapporti allo Stato maggiore, amplificano il numero di bombardamenti sui centri del Donbass, per mascherare il commercio di munizionamento, carburanti e lubrificanti. Secondo l’intelligence delle milizie, ad esempio, nelle ultime settimane i comandi di linea avrebbero “certificato” a quelli centrali dai 20 ai 25 bombardamenti quotidiani, contro i 5-7 effettivi. Si tratta, fatti i conti, di diverse tonnellate di carburante venduto agli abitanti delle zone occupate dalle truppe ucraine e decine di munizioni di grosso calibro, contrabbandate a “Pravyj Sektor” e “UDA”, il cosiddetto “Esercito volontario ucraino”, la nuova formazione armata dell’ex leader di “Pravyj Sektor”, Dmitro Jarosh.
Che le cose, per le forze ucraine nel Donbass, non procedano esattamente con linearità, lo testimoniano anche altri episodi. Mentre lungo la linea del fronte, ormai da da diversi giorni, le aree di Dokuchaevsk e Spartak sono sotto il fuoco di mortai pesanti da 120 mm, rispettivamente delle 93° e 92° brigate meccanizzate, la ricognizione della DNR avrebbe accertato, da fonte diretta del battaglione neonazista “Azov”, che responsabili del bombardamento lungo la direttrice Talakovka-Sakhanka, lo scorso 27 luglio, apparentemente dalle posizioni della 36° brigata di fanteria di marina, sarebbero non i fanti, ma i nazisti di “Azov”, che rispondono direttamente al Ministro degli interni Arsen Avakov. Tant’è che quel giorno è stato accertato l’arrivo nella zona di responsabilità della 36° brigata, di un camion con munizioni per mortaio da 120 mm, scortato da un’unità di sicurezza di “Azov”.
Cinque giorni fa, invece, erano state le artiglierie della 36° brigata a bersagliare le posizioni di “Azov”, “Pravyj Sektor” e “UDA”, nell’area di Lebedinskoe. Ciò risponderebbe al piano del comando delle Operazioni delle Forze Riunite (OOS, che ha sostituito la precedente sigla ATO-Operazione anti terrorismo) per accelerare il processo di allontanamento dal fronte dei battaglioni nazionalisti, che invece tendono a rimanere nelle aree in cui più agevoli sono le manovre nazi-affaristiche.
In qualche misura, tale “conflitto” tra comando di OOS e battaglioni neonazisti sembra rispecchiare una certa dicotomia che si avverte da oltre Oceano nei confronti di Kiev: mentre da un lato l’Ucraina continua a servire quale avamposto politico-militare in funzione anti-russa e, in questo senso, i sostanziosi aiuti in soldi e armi sono lontani dall’esaurirsi, dall’altro sembra farsi sempre più strada l’idea della necessità di un ricambio di personaggi ormai del tutto (quasi del tutto: sulle sponde d’Ausonia se ne glorificano ancora le gesta) da mettere da parte.
Fonte
Janukovic chiede di accertare la responsabilità nel putsch di vari personaggi di primo piano, tra cui Ministro degli interni Arsen Avakov, sindaco di Kiev Vitalij Klichko, Procuratore generale Jurij Lutsenko, speaker della Rada Andrej Parubij, ex capo dei Servizi di sicurezza Valentin Nalivajcenko, deputato del “Fronte popolare” Sergej Pashinskij, segretario del Consiglio di sicurezza Aleksandr Turcinov, leader di “Svoboda” Oleg Tjagnibok ed ex premier Arsenij Jatsenjuk.
Forse non del tutto stranamente, le informazioni non citano, tra i querelati, l’attuale presidente Petro Poroshenko, che all’epoca non era nelle prime linee del golpe. Il collegio legale che ha preso in carico l’azione dell’ex presidente ucraino avrebbe già pronta anche un’istanza da presentare al Tribunale de L’Aja, in cui i medesimi soggetti vengono accusati non solo del colpo di stato, ma anche di sparatorie di massa a majdan Nezalezhnosti.
Nella cerchia di Janukovic si dice che il deposto presidente, per l’avvio delle azioni legali, avrebbe atteso qualche segnale di mutamento nel clima politico, anche internazionale, attorno al regime golpista e si sottolinea come il collegio legale disponga di centinaia di testimonianze di partecipanti diretti a majdan, secondo i quali la strage fu organizzata scientemente. L’ex attivista di majdan e oggi deputato, Vladimir Parasjuk ricorda come proprio l’attuale Procuratore generale – l’elettrotecnico Lutsenko – esortasse in quei giorni gli ucraini a impadronirsi degli arsenali e a sparare sul Berkut, i reparti speciali del Ministero degli interni, secondo il piano elaborato da Pashinskij e dal boldriniano Parubij.
Parasjuk avrebbe anche detto di non aver intenzione di testimoniare pubblicamente, finché dura l’attuale regime, perché teme per la propria vita e per quella di altri “majdanisti” che pure avrebbero preziose informazioni da rendere pubbliche.
Che il clima politico, anche negli ambienti dei tutor internazionali di Kiev, si stia, se pur impercettibilmente, modificando sembra testimoniarlo anche il fatto che, secondo il servizio stampa dell’esercito ucraino, ripreso da novorosinform.org, dall’inizio dell’anno avrebbero presentato rapporto di dimissioni circa undicimila tra ufficiali e militari a contratto, mentre sempre meno “contrattisti” stranieri sarebbero disposti a sottoscrivere ferme a lunga scadenza e il corpo sottufficiali sembra disporre di appena il 65% degli effettivi.
Da qui a fine anno, secondo la stessa fonte, dovrebbero seguirne l’esempio altri diciottomila uomini; causa prima: insufficienza delle paghe. Il Ministro della difesa Stepan Poltorak avrebbe lamentato una carenza di fondi di 4,5 miliardi di grivne, da destinare alle paghe dei militari nella seconda metà dell’anno. Già la settimana scorsa, le milizie della Repubblica popolare di Donetsk avevano rilevato come, evidentemente proprio in conseguenza dei ritardi nella riscossione delle paghe, i soldati ucraini avessero intensificato la pratica, da tempo in uso, di vendere materiale bellico.
Tale commercio di armi porta spesso a sparatorie tra reparti appartenenti alle stesse brigate, con morti e feriti tra le truppe di Kiev; in qualche caso, per stroncare gli episodi di indisciplina, saccheggio, contrabbando e mercato di armi, i comandi sono stati costretti a ritirare dal fronte anche reparti operativi avanzati.
Sempre secondo le milizie della DNR, vari comandi ucraini al fronte, nei rapporti allo Stato maggiore, amplificano il numero di bombardamenti sui centri del Donbass, per mascherare il commercio di munizionamento, carburanti e lubrificanti. Secondo l’intelligence delle milizie, ad esempio, nelle ultime settimane i comandi di linea avrebbero “certificato” a quelli centrali dai 20 ai 25 bombardamenti quotidiani, contro i 5-7 effettivi. Si tratta, fatti i conti, di diverse tonnellate di carburante venduto agli abitanti delle zone occupate dalle truppe ucraine e decine di munizioni di grosso calibro, contrabbandate a “Pravyj Sektor” e “UDA”, il cosiddetto “Esercito volontario ucraino”, la nuova formazione armata dell’ex leader di “Pravyj Sektor”, Dmitro Jarosh.
Che le cose, per le forze ucraine nel Donbass, non procedano esattamente con linearità, lo testimoniano anche altri episodi. Mentre lungo la linea del fronte, ormai da da diversi giorni, le aree di Dokuchaevsk e Spartak sono sotto il fuoco di mortai pesanti da 120 mm, rispettivamente delle 93° e 92° brigate meccanizzate, la ricognizione della DNR avrebbe accertato, da fonte diretta del battaglione neonazista “Azov”, che responsabili del bombardamento lungo la direttrice Talakovka-Sakhanka, lo scorso 27 luglio, apparentemente dalle posizioni della 36° brigata di fanteria di marina, sarebbero non i fanti, ma i nazisti di “Azov”, che rispondono direttamente al Ministro degli interni Arsen Avakov. Tant’è che quel giorno è stato accertato l’arrivo nella zona di responsabilità della 36° brigata, di un camion con munizioni per mortaio da 120 mm, scortato da un’unità di sicurezza di “Azov”.
Cinque giorni fa, invece, erano state le artiglierie della 36° brigata a bersagliare le posizioni di “Azov”, “Pravyj Sektor” e “UDA”, nell’area di Lebedinskoe. Ciò risponderebbe al piano del comando delle Operazioni delle Forze Riunite (OOS, che ha sostituito la precedente sigla ATO-Operazione anti terrorismo) per accelerare il processo di allontanamento dal fronte dei battaglioni nazionalisti, che invece tendono a rimanere nelle aree in cui più agevoli sono le manovre nazi-affaristiche.
In qualche misura, tale “conflitto” tra comando di OOS e battaglioni neonazisti sembra rispecchiare una certa dicotomia che si avverte da oltre Oceano nei confronti di Kiev: mentre da un lato l’Ucraina continua a servire quale avamposto politico-militare in funzione anti-russa e, in questo senso, i sostanziosi aiuti in soldi e armi sono lontani dall’esaurirsi, dall’altro sembra farsi sempre più strada l’idea della necessità di un ricambio di personaggi ormai del tutto (quasi del tutto: sulle sponde d’Ausonia se ne glorificano ancora le gesta) da mettere da parte.
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Iran - Trump apre a Rouhani, ma la sua amministrazione subito chiude
di Roberto Prinzi
Da quando eletto alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump ha più volte rilasciato nel corso dei mesi (se non dei giorni) dichiarazioni contraddittorie. Quanto detto ieri, durante la conferenza stampa congiunta con il premier italiano Conte, rientra in questa “tradizione” ormai consolidata: il leader repubblicano si è detto pronto a incontrare il suo pari iraniano senza precondizioni per discutere di come migliorare i rapporti con Teheran dopo l’uscita americana a maggio dall’accordo sul nucleare siglato con la Repubblica islamica nel 2015. È stato ieri a tratti un The Donald diverso da quello che conosciamo: “Io incontrerei chiunque, credo negli incontri” soprattutto in quelli dove sono in ballo potenziali guerre ha precisato ai giornalisti stupiti.
Con il suo solito fare da spaccone, il presidente ha poi aggiunto: “Non so se tuttavia loro sono pronti [a farlo]. Io ho posto fine all’intesa con l’Iran [sul nucleare], era un accordo ridicolo. Credo che loro probabilmente vorranno alla fine incontrarmi e sono pronto a farlo in qualunque momento lo desiderano. Senza precondizione”. La risposta da Teheran è arrivata immediata: “Rispettare i diritti della nazione iraniana, ridurre le ostilità e ritornare all’accordo sul nucleare sono i passi che devono essere compiuti per aprire la strada sconnessa del dialogo tra Iran e l’America” ha twittato stamattina Hamid Aboutalebi, un consigliere di Rouhani.
Certo, se un incontro dovesse esserci tra le due parti sarebbe clamoroso: intanto perché nessun inquilino della Casa Bianca ha incontrato un presidente iraniano da quando Washington ha interrotto le relazioni diplomatiche con Teheran un anno dopo la Rivoluzione islamica del 1979 che ha deposto lo shah. Solo nel 2013 l’ex presidente Usa Obama provò a rompere il gelo delle relazioni diplomatiche parlando con Rouhani a telefono, un gesto simbolico che forse aprì le porte a quella intesa sul nucleare raggiunta due anni dopo, ma di cui, però, Trump ha fatto carta straccia due mesi fa. In secondo luogo perché giunge dopo che Washington ha più volte intimato agli iraniani di smettere di sostenere i gruppi armati pro-iraniani attivi in Yemen e Siria e di minacciare l’alleata di ferro americana (Israele).
Che le parole di Trump restino carta morta, almeno nel breve termine, non c’è alcun dubbio. La Casa Bianca, infatti, si è subito affrettata a precisare che la volontà di Trump di incontrare Rohani non cambia di una virgola l’intenzione dell’amministrazione repubblicana di imporre nuovamente il 6 agosto e il 4 novembre tutte le sanzioni contro la Repubblica islamica per il suo programma nucleare, né impedirà agli Usa di continuare a “cercare cambiamenti nell’atteggiamento del governo iraniano”. Washington ha sì spiegato che Trump “è aperto al dialogo e ai negoziati”, ma che questo non significa la rimozione delle sanzioni o ristabilire relazioni diplomatiche e commerciali. Ancora più netto è stato il commento del falco della sua amministrazione, il Segretario di Stato Mike Pompeo. Pompeo non ha usato giri di parole: intervistato dalla Cnbc, ha detto infatti che “se gli iraniani dimostreranno un impegno a compiere fondamentali cambiamenti su come trattano il loro popolo, ridurranno il loro atteggiamento maligno e concorderanno su una intesa sul nucleare che impedirà la proliferazione, allora il presidente si è detto pronto a sedersi a discutere con lui [Rouhani]”.
Per quanto dunque poco credibili, tuttavia le parole di Trump di ieri abbassano i toni dello scontro con l’Iran che aveva raggiunto un apice molto pericoloso la scorsa settimana quando il ricco presidente Usa aveva twittato alla sua controparte iraniana di non “minacciare mai gli Usa” perché altrimenti “subirete conseguenze che pochi nella storia hanno sofferto”. Il cinguettio giungeva come risposta alle parole di Rouhani che, il 22 luglio, aveva avvertito gli americani che le politiche ostile degli Usa avrebbero potuto causare la “madre di tutte le guerre”.
Se le dichiarazioni di Trump lasciano per ora il tempo che trovano, molto più significativa è stata invece la decisione del Consiglio supremo della Sicurezza nazionale iraniano di liberare Mir-Hossein Mousavi (76 anni), sua moglie Zahra Rahnavard (66) e Mehdi Karrubi (80), i tre leader del Movimento verde d’opposizione. Un rilascio – annunciato due giorni fa dal figlio di Karrubi, Houssein – che ero stato una delle promesse elettorali del presidente Rouhani nel 2013 e nella campagna elettorale dello scorso anno.
Ora la palla passa alla Guida suprema Khamenei che, come sempre accade quando bisogna prendere decisioni importanti, dovrà stabilire se approvare la decisione o esercitare il diritto di veto. Che la decisione del Consiglio supremo (organismo formato da figure governative e militari nominate dal presidente e dalla Guida Suprema) possa essere letta all’interno delle crescenti pressioni americane e al peggioramento della crisi economica pare essere fuori di dubbio. La mossa sembrerebbe essere il tentativo di abbassare il tono dello scontro interno e di cercare di ricompattare le file in una fase quanto mai delicata per gli iraniani.
I tre leader del Movimento verde d’opposizione sono agli arresti domiciliari dal 14 febbraio 2011, da quando cioè avevano chiesto l’autorizzazione per dimostrare il loro sostegno alle proteste che allora sconvolgevano il mondo arabo. Ma la loro richiesta fu giudicata troppo rischiosa dalla leadership iraniana: il loro appoggio alle cadute del regimi si sarebbe potuto trasformare in una battaglia contro le istituzioni governative iraniane. Uno scenario possibile visti i precedenti di due anni prima quando cortei di proteste improvvisati affollarono le strade iraniane dopo la riconferma (con brogli) dell’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza del Paese.
Correva l’anno 2009 e migliaia di iraniani scesero in piazza chiedendo “dov’è il mio voto”? e indossando ai polsi e alle fronti braccialetti e bandane verdi. Già il verde: il colore che richiama il profeta Mohammed e la sua famiglia a cui appartiene anche Mir-Hossein Mousavi, il cui titolo Mir-Hossein è destinato a chi proviene dalla regione dell’Azerbaigian ed è l’equivalente di Seyed (che vuol dire appunto discendente del messaggero Mohammad).
L’apertura verso i tre leader d’opposizione giungeva nelle ore in cui la valuta locale continuava a crollare. Domenica, infatti, è stato registrato un nuovo record negativo: un dollaro equivaleva a 102.000 rial. In pratica in soli 4 mezzi il valore della valuta iraniana si è dimezzato rispetto alla moneta statunitense. Proprio la crisi finanziaria aveva spinto la scorsa settimana il presidente Rouhani a sostituire il direttore della Banca centrale, Valiollah Seif.
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Da quando eletto alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump ha più volte rilasciato nel corso dei mesi (se non dei giorni) dichiarazioni contraddittorie. Quanto detto ieri, durante la conferenza stampa congiunta con il premier italiano Conte, rientra in questa “tradizione” ormai consolidata: il leader repubblicano si è detto pronto a incontrare il suo pari iraniano senza precondizioni per discutere di come migliorare i rapporti con Teheran dopo l’uscita americana a maggio dall’accordo sul nucleare siglato con la Repubblica islamica nel 2015. È stato ieri a tratti un The Donald diverso da quello che conosciamo: “Io incontrerei chiunque, credo negli incontri” soprattutto in quelli dove sono in ballo potenziali guerre ha precisato ai giornalisti stupiti.
Con il suo solito fare da spaccone, il presidente ha poi aggiunto: “Non so se tuttavia loro sono pronti [a farlo]. Io ho posto fine all’intesa con l’Iran [sul nucleare], era un accordo ridicolo. Credo che loro probabilmente vorranno alla fine incontrarmi e sono pronto a farlo in qualunque momento lo desiderano. Senza precondizione”. La risposta da Teheran è arrivata immediata: “Rispettare i diritti della nazione iraniana, ridurre le ostilità e ritornare all’accordo sul nucleare sono i passi che devono essere compiuti per aprire la strada sconnessa del dialogo tra Iran e l’America” ha twittato stamattina Hamid Aboutalebi, un consigliere di Rouhani.
Certo, se un incontro dovesse esserci tra le due parti sarebbe clamoroso: intanto perché nessun inquilino della Casa Bianca ha incontrato un presidente iraniano da quando Washington ha interrotto le relazioni diplomatiche con Teheran un anno dopo la Rivoluzione islamica del 1979 che ha deposto lo shah. Solo nel 2013 l’ex presidente Usa Obama provò a rompere il gelo delle relazioni diplomatiche parlando con Rouhani a telefono, un gesto simbolico che forse aprì le porte a quella intesa sul nucleare raggiunta due anni dopo, ma di cui, però, Trump ha fatto carta straccia due mesi fa. In secondo luogo perché giunge dopo che Washington ha più volte intimato agli iraniani di smettere di sostenere i gruppi armati pro-iraniani attivi in Yemen e Siria e di minacciare l’alleata di ferro americana (Israele).
Che le parole di Trump restino carta morta, almeno nel breve termine, non c’è alcun dubbio. La Casa Bianca, infatti, si è subito affrettata a precisare che la volontà di Trump di incontrare Rohani non cambia di una virgola l’intenzione dell’amministrazione repubblicana di imporre nuovamente il 6 agosto e il 4 novembre tutte le sanzioni contro la Repubblica islamica per il suo programma nucleare, né impedirà agli Usa di continuare a “cercare cambiamenti nell’atteggiamento del governo iraniano”. Washington ha sì spiegato che Trump “è aperto al dialogo e ai negoziati”, ma che questo non significa la rimozione delle sanzioni o ristabilire relazioni diplomatiche e commerciali. Ancora più netto è stato il commento del falco della sua amministrazione, il Segretario di Stato Mike Pompeo. Pompeo non ha usato giri di parole: intervistato dalla Cnbc, ha detto infatti che “se gli iraniani dimostreranno un impegno a compiere fondamentali cambiamenti su come trattano il loro popolo, ridurranno il loro atteggiamento maligno e concorderanno su una intesa sul nucleare che impedirà la proliferazione, allora il presidente si è detto pronto a sedersi a discutere con lui [Rouhani]”.
Per quanto dunque poco credibili, tuttavia le parole di Trump di ieri abbassano i toni dello scontro con l’Iran che aveva raggiunto un apice molto pericoloso la scorsa settimana quando il ricco presidente Usa aveva twittato alla sua controparte iraniana di non “minacciare mai gli Usa” perché altrimenti “subirete conseguenze che pochi nella storia hanno sofferto”. Il cinguettio giungeva come risposta alle parole di Rouhani che, il 22 luglio, aveva avvertito gli americani che le politiche ostile degli Usa avrebbero potuto causare la “madre di tutte le guerre”.
Se le dichiarazioni di Trump lasciano per ora il tempo che trovano, molto più significativa è stata invece la decisione del Consiglio supremo della Sicurezza nazionale iraniano di liberare Mir-Hossein Mousavi (76 anni), sua moglie Zahra Rahnavard (66) e Mehdi Karrubi (80), i tre leader del Movimento verde d’opposizione. Un rilascio – annunciato due giorni fa dal figlio di Karrubi, Houssein – che ero stato una delle promesse elettorali del presidente Rouhani nel 2013 e nella campagna elettorale dello scorso anno.
Ora la palla passa alla Guida suprema Khamenei che, come sempre accade quando bisogna prendere decisioni importanti, dovrà stabilire se approvare la decisione o esercitare il diritto di veto. Che la decisione del Consiglio supremo (organismo formato da figure governative e militari nominate dal presidente e dalla Guida Suprema) possa essere letta all’interno delle crescenti pressioni americane e al peggioramento della crisi economica pare essere fuori di dubbio. La mossa sembrerebbe essere il tentativo di abbassare il tono dello scontro interno e di cercare di ricompattare le file in una fase quanto mai delicata per gli iraniani.
I tre leader del Movimento verde d’opposizione sono agli arresti domiciliari dal 14 febbraio 2011, da quando cioè avevano chiesto l’autorizzazione per dimostrare il loro sostegno alle proteste che allora sconvolgevano il mondo arabo. Ma la loro richiesta fu giudicata troppo rischiosa dalla leadership iraniana: il loro appoggio alle cadute del regimi si sarebbe potuto trasformare in una battaglia contro le istituzioni governative iraniane. Uno scenario possibile visti i precedenti di due anni prima quando cortei di proteste improvvisati affollarono le strade iraniane dopo la riconferma (con brogli) dell’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza del Paese.
Correva l’anno 2009 e migliaia di iraniani scesero in piazza chiedendo “dov’è il mio voto”? e indossando ai polsi e alle fronti braccialetti e bandane verdi. Già il verde: il colore che richiama il profeta Mohammed e la sua famiglia a cui appartiene anche Mir-Hossein Mousavi, il cui titolo Mir-Hossein è destinato a chi proviene dalla regione dell’Azerbaigian ed è l’equivalente di Seyed (che vuol dire appunto discendente del messaggero Mohammad).
L’apertura verso i tre leader d’opposizione giungeva nelle ore in cui la valuta locale continuava a crollare. Domenica, infatti, è stato registrato un nuovo record negativo: un dollaro equivaleva a 102.000 rial. In pratica in soli 4 mezzi il valore della valuta iraniana si è dimezzato rispetto alla moneta statunitense. Proprio la crisi finanziaria aveva spinto la scorsa settimana il presidente Rouhani a sostituire il direttore della Banca centrale, Valiollah Seif.
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“Non c’è razzismo”. Il governo ordina, lo spin doctor esegue...
La realtà corre, tanto che non si fa in tempo a pubblicare un articolo sulla Guerra in Rai, definita come guerra tra spin doctor di opposte tendenze (ma tutti disonesti), che ecco l’occasione concreta di spiegare come funziona la manipolazione delle notizie in modo da “tranquillizzare” o “imbeccare” il pubblico.
A venirci in aiuto è la più istituzionale e governativa delle agenzie di stampa, l’Ansa, una sorta di “nei secoli fedele” nel campo dell’informazione. L’importanza di questa agenzia è difficile da misurare, ma basta sapere che i giornalisti delle varie testate partono in genere da un “lancio Ansa” per iniziare il proprio lavoro. Se possibile, escono, vanno sul posto, oppure telefonano per avere conferme, particolari aggiuntivi, “note di colore”, ecc. Se debbono scrivere un pezzo breve, e magari sono anche stagisti non pagati, ecco che il “lancio Ansa” viene ripreso tale e quale, giusto tagliando e aggiungendo qua e là, per dare un tocco di “personalizzazione”. Se comprate due giornali (o confrontate due servizi sulle pagine online di giornali diversi) ve ne accorgete subito. Stesse parole, stessa punteggiatura, nessun lavoro “giornalistico” vero.
Bene.
Pochi minuti fa l’agenzia Ansa – come da foto – avverte le redazioni con un titolo chiarissimo e perentorio “Conte chiama Daisy: anche lei ha escluso razzismo”. Due notizie in una: a) il premier (se tale è...) ha parlato con la nostra miglior discobola under 23, prossima ai campionati europei e aggredita vicino casa da due “bianchi” sconosciuti a bordo di una macchina e rimasta ferita a un occhio; b) Daisy esclude che si sia trattato di un atto razzista.
Si resta sorpresi nel veder collocata una notizia di cronaca nera (scusate il bisticcio di colore) nel settore sportivo della testata, ma tant’è, qualcuno ha deciso che “stava meglio lì”.
Tutti tranquilli, tutti a dormire, non c’è nulla di cui preoccuparsi (anche se altri giornali mostrano le foto di uno dei due “assassini preterintenzionali” di Aprilia con un fucile in mano e dichiarazioni come “avevo la mia pistola, se volevo ucciderlo gli sparavo”). In Italia non ci sono razzisti che usano la violenza...
Peccato che il testo del lancio dica l’esatto opposto: “L’hanno fatto apposta. Non volevano colpire me come Daisy, volevano colpire me come ragazza di colore”. Insomma: non sapevano manco chi ero, sono nera e tanto gli è bastato per tirarmi in faccia qualcosa... Che, in italiano semplice, vuol dire: è un atto motivato unicamente dal razzismo.
Daisy ricostruisce il contesto, spiega che in quella zona, di sera, girano anche delle prostitute, alcune delle quali di pelle nera; quindi, conclude, forse volevano prendersela con una di loro, ma hanno preso me.
Il dubbio non sussiste, signori della corte... Se uno esce di casa per prendersela con la prima donna nera che incontra e che manco conosce è sicuramente un fottuto razzista e pure ignorante in fatto di sport.
Com’è possibile che un “lancio” che spiega questa cosa sia titolato al contrario?
Primo indizio: a dire quella menzogna è stato lo stesso “premier”.
“Ho avuto una comunicazione telefonica con Daisy: le ho espresso la solidarietà mia e del governo. Un gesto inqualificabile, le ho augurato di poter riprendere subito la sua disciplina, spero tante medaglie alle Olimpiadi”. Lo ha detto il premier Giuseppe Conte durante una conferenza stampa a Washington. “Lei stessa mi ha detto che non ci sarebbe matrice razzista”.
Secondo indizio: i titoli, nelle testate importanti, vengono decisi da un caporedattore, non da chi ha scritto l’articolo. Questione di professionalità diversa (i titoli devono “acchiappare” l’attenzione), di gerarchia e anche di “sensibilità politica”. Se il presidente del consiglio ha detto che non c’è razzismo – ragiona il caporedattore “nei secoli fedele” – col cavolo che io veicolo un messaggio differente... Del resto, facevo così anche quando c’erano Renzi, Letta, Monti, Berlusconi...
A questo punto si capisce anche perché la notizia sia finita nel capitolo sport: se non c’è razzismo, l’unica preoccupazione sollevata dall’aggressione di Moncalieri è sapere se Daisy sarà nelle migliori condizioni per partecipare agli Europei e magari prendere una medaglia da sventolare per tener su l’orgoglio italiano...
Così funziona uno spin doctor. Così funziona l’informazione in Italia.
Fonte
A venirci in aiuto è la più istituzionale e governativa delle agenzie di stampa, l’Ansa, una sorta di “nei secoli fedele” nel campo dell’informazione. L’importanza di questa agenzia è difficile da misurare, ma basta sapere che i giornalisti delle varie testate partono in genere da un “lancio Ansa” per iniziare il proprio lavoro. Se possibile, escono, vanno sul posto, oppure telefonano per avere conferme, particolari aggiuntivi, “note di colore”, ecc. Se debbono scrivere un pezzo breve, e magari sono anche stagisti non pagati, ecco che il “lancio Ansa” viene ripreso tale e quale, giusto tagliando e aggiungendo qua e là, per dare un tocco di “personalizzazione”. Se comprate due giornali (o confrontate due servizi sulle pagine online di giornali diversi) ve ne accorgete subito. Stesse parole, stessa punteggiatura, nessun lavoro “giornalistico” vero.
Bene.
Pochi minuti fa l’agenzia Ansa – come da foto – avverte le redazioni con un titolo chiarissimo e perentorio “Conte chiama Daisy: anche lei ha escluso razzismo”. Due notizie in una: a) il premier (se tale è...) ha parlato con la nostra miglior discobola under 23, prossima ai campionati europei e aggredita vicino casa da due “bianchi” sconosciuti a bordo di una macchina e rimasta ferita a un occhio; b) Daisy esclude che si sia trattato di un atto razzista.
Si resta sorpresi nel veder collocata una notizia di cronaca nera (scusate il bisticcio di colore) nel settore sportivo della testata, ma tant’è, qualcuno ha deciso che “stava meglio lì”.
Tutti tranquilli, tutti a dormire, non c’è nulla di cui preoccuparsi (anche se altri giornali mostrano le foto di uno dei due “assassini preterintenzionali” di Aprilia con un fucile in mano e dichiarazioni come “avevo la mia pistola, se volevo ucciderlo gli sparavo”). In Italia non ci sono razzisti che usano la violenza...
Peccato che il testo del lancio dica l’esatto opposto: “L’hanno fatto apposta. Non volevano colpire me come Daisy, volevano colpire me come ragazza di colore”. Insomma: non sapevano manco chi ero, sono nera e tanto gli è bastato per tirarmi in faccia qualcosa... Che, in italiano semplice, vuol dire: è un atto motivato unicamente dal razzismo.
Daisy ricostruisce il contesto, spiega che in quella zona, di sera, girano anche delle prostitute, alcune delle quali di pelle nera; quindi, conclude, forse volevano prendersela con una di loro, ma hanno preso me.
Il dubbio non sussiste, signori della corte... Se uno esce di casa per prendersela con la prima donna nera che incontra e che manco conosce è sicuramente un fottuto razzista e pure ignorante in fatto di sport.
Com’è possibile che un “lancio” che spiega questa cosa sia titolato al contrario?
Primo indizio: a dire quella menzogna è stato lo stesso “premier”.
“Ho avuto una comunicazione telefonica con Daisy: le ho espresso la solidarietà mia e del governo. Un gesto inqualificabile, le ho augurato di poter riprendere subito la sua disciplina, spero tante medaglie alle Olimpiadi”. Lo ha detto il premier Giuseppe Conte durante una conferenza stampa a Washington. “Lei stessa mi ha detto che non ci sarebbe matrice razzista”.
Secondo indizio: i titoli, nelle testate importanti, vengono decisi da un caporedattore, non da chi ha scritto l’articolo. Questione di professionalità diversa (i titoli devono “acchiappare” l’attenzione), di gerarchia e anche di “sensibilità politica”. Se il presidente del consiglio ha detto che non c’è razzismo – ragiona il caporedattore “nei secoli fedele” – col cavolo che io veicolo un messaggio differente... Del resto, facevo così anche quando c’erano Renzi, Letta, Monti, Berlusconi...
A questo punto si capisce anche perché la notizia sia finita nel capitolo sport: se non c’è razzismo, l’unica preoccupazione sollevata dall’aggressione di Moncalieri è sapere se Daisy sarà nelle migliori condizioni per partecipare agli Europei e magari prendere una medaglia da sventolare per tener su l’orgoglio italiano...
Così funziona uno spin doctor. Così funziona l’informazione in Italia.
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Guerra sulla Rai? Noi non ci caschiamo...
Ma davvero dovremo anche assistere alla recita di Silvio Berlusconi che difende il pluralismo in RAI e la libertà d’informazione? Sì, proprio colui che da presidente del consiglio emanò l’editto bulgaro contro giornalisti e artisti non allineati. Che, per alcuni – tra cui Sabina Guzzanti e Daniele Luttazzi – vale ancora oggi. Sì, proprio il padrone di Mediaset, nota sede di pluralismo esemplare, che è persino riuscito a far eleggere un suo dipendente quale presidente della commissione di vigilanza sulla RAI. Lo ha fatto con l’accordo della Lega, con quello del M5S e soprattutto con quello del PD. Che oggi, assieme a quella sua sempre più inutile corrente esterna chiamata LEU, prega il signore di Arcore di fermare la pericolosissima presidenza RAI di Marcello Foa.
Sia chiaro non abbiamo alcuna simpatia per il giornalista italo-svizzero; le sue posizioni politiche sono all’opposto delle nostre e il solo fatto di essere designato in quota Salvini per noi lo definisce, anche se nel passato ha assunto posizioni controcorrente sulle guerre “umanitarie” dell’Occidente e sulle politica di austerità della UE.
Ma la campagna di PD, LeU e Forza Italia, sostenuta dai principali giornali, contro Foa nel nome della libertà di informazione, è quanto di più ipocrita, sfacciato e bugiardo ci tocchi subire. Gli spin doctor – così si chiamano gli autori delle campagne di propaganda che i mass media veicolano e creano quel “percepito” che cancella la realtà, ma fa vincere le elezioni – dei vecchi governanti ora all’opposizione denunciano il rischio che con la nuova presidenza RAI siano dominanti il “sovranismo” e il “populismo”. Essi temono un nuovo pensiero unico e sanno di che parlano, visto che sul dominio assoluto del pensiero unico liberista e guerrafondaio hanno edificato le proprie fortune.
Noi che combattiamo tutte le balle di regime – sia quella secondo cui sarebbe necessario difendersi dell’invasione dei migranti, così come quella secondo cui jobsact, legge Fornero e fiscal compact siano cose buone e giuste – noi che passiamo la vita e le lotte a combattere contro le fake news del potere, noi in questa guerra tra spin doctor di opposte tendenze non ci schieriamo proprio. Ognuno di loro è il bue che dà del cornuto all’asino avverso.
Noi non scegliamo tra il regime di balle targato Renzi e Berlusconi e quello targato Salvini, li combattiamo entrambi.
Quanto ai mass media, che quindici anni fa hanno portato ovunque l’immagine di Colin Powell che mostrava all’Onu la fialetta che avrebbe dovuto provare le armi letali di Saddam Hussein; quei media che hanno diffuso senza critiche la più grande falsificazione del dopoguerra, servita a scatenare una guerra catastrofica che dura ancora; quei media che ogni giorno ci raccontano le veline del potere presentandole come realtà assoluta... quei media non sono “la libertà d’informazione”, ma un ostacolo a che essa possa esistere.
Il PD nel passato ha imbrogliato milioni di persone chiedendo sostegno contro Berlusconi e ora chiede il sostegno di Berlusconi per fermare Foa. Chi gli può credere più?
No, noi nella sporca guerra per la RAI non ci caschiamo proprio, basta con le fake news.
Fonte
Sia chiaro non abbiamo alcuna simpatia per il giornalista italo-svizzero; le sue posizioni politiche sono all’opposto delle nostre e il solo fatto di essere designato in quota Salvini per noi lo definisce, anche se nel passato ha assunto posizioni controcorrente sulle guerre “umanitarie” dell’Occidente e sulle politica di austerità della UE.
Ma la campagna di PD, LeU e Forza Italia, sostenuta dai principali giornali, contro Foa nel nome della libertà di informazione, è quanto di più ipocrita, sfacciato e bugiardo ci tocchi subire. Gli spin doctor – così si chiamano gli autori delle campagne di propaganda che i mass media veicolano e creano quel “percepito” che cancella la realtà, ma fa vincere le elezioni – dei vecchi governanti ora all’opposizione denunciano il rischio che con la nuova presidenza RAI siano dominanti il “sovranismo” e il “populismo”. Essi temono un nuovo pensiero unico e sanno di che parlano, visto che sul dominio assoluto del pensiero unico liberista e guerrafondaio hanno edificato le proprie fortune.
Noi che combattiamo tutte le balle di regime – sia quella secondo cui sarebbe necessario difendersi dell’invasione dei migranti, così come quella secondo cui jobsact, legge Fornero e fiscal compact siano cose buone e giuste – noi che passiamo la vita e le lotte a combattere contro le fake news del potere, noi in questa guerra tra spin doctor di opposte tendenze non ci schieriamo proprio. Ognuno di loro è il bue che dà del cornuto all’asino avverso.
Noi non scegliamo tra il regime di balle targato Renzi e Berlusconi e quello targato Salvini, li combattiamo entrambi.
Quanto ai mass media, che quindici anni fa hanno portato ovunque l’immagine di Colin Powell che mostrava all’Onu la fialetta che avrebbe dovuto provare le armi letali di Saddam Hussein; quei media che hanno diffuso senza critiche la più grande falsificazione del dopoguerra, servita a scatenare una guerra catastrofica che dura ancora; quei media che ogni giorno ci raccontano le veline del potere presentandole come realtà assoluta... quei media non sono “la libertà d’informazione”, ma un ostacolo a che essa possa esistere.
Il PD nel passato ha imbrogliato milioni di persone chiedendo sostegno contro Berlusconi e ora chiede il sostegno di Berlusconi per fermare Foa. Chi gli può credere più?
No, noi nella sporca guerra per la RAI non ci caschiamo proprio, basta con le fake news.
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Israele - Isterismo contro l'Intifada degli acquiloni
Nelle manifestazioni che dalla Giornata della Terra palestinese (il 30 marzo) si sono susseguite a ridosso del confine israeliano con Gaza, sono stati uccisi almeno 136 palestinesi e circa 15mila risultano essere stati feriti dai militari israeliani. Ma la creatività della resistenza palestinese ha saputo inventare una nuova arma per tenere sotto pressione l’occupazione israeliana: gli aquiloni incendiari. Le autorità politiche e militari israeliane si stanno coprendo di ridicolo denunciando la minaccia del Kite Terrorism, cioè del terrorismo degli aquiloni.
Il lancio di aquiloni e palloncini incendiari per provocare danni in territorio israeliano si è rivelata una scelta quanto mai semplice ed economica, ma anche di straordinaria efficacia da riuscire a tenere in scacco uno degli eserciti più avanzati al mondo e le sue sofisticate tecnologie di guerra. Le contromisure israeliane hanno ottenuto successi solamente minimali. I droni si sono rivelati inefficaci ed anche i cecchini devono sentirsi piuttosto ridicoli nel cercare di abbattere gli aquiloni o i palloncini messi in aria dai palestinesi e diretti verso il territorio israeliano.
L’impiego di aquiloni incendiari ha via via acquisito una maggior diffusione durante le ultime settimane. Oltre agli aquiloni sono stati impiegati anche palloncini riempiti di elio – a volte preservativi! – a cui sono stati assicurati materiali e liquidi in fiamme o infiammabili. I palloncini costituiscono un vettore preferibile agli aquiloni riuscendo a penetrare maggiormente in territorio nemico: la massima distanza raggiunta è stata di 17 chilometri, riferisce il sito specializzato Analisi Difesa.
In 75 giorni consecutivi sono stati lanciati più di 800 tra aquiloni e palloncini, provocando circa 1000 incendi e mandando in fumo 8.200 acri di foreste e terreni agricoli. Una media approssimativa di 11 incendi al giorno con un picco di 25 raggiunto il 16 giugno.
Secondo le autorità israeliane sono stati spesi finora 550.000 dollari per domare gli incendi, mentre i danni ammonterebbero a 1.925.000 dollari. Il tutto condito dalla diffusione di un clima di terrore ed insicurezza tra le comunità a ridosso del confine.
Questo a fronte di una fattibilità ed economicità disarmanti. Gli aquiloni, da sempre popolari ed intramontabili simboli di libertà a Gaza, vengono facilmente realizzati con imballaggi di plastica, legno e contenitori per carboni ardenti, cocktail Molotov od altre sostanze infiammabili, ad un costo unitario inferiore ai 3 dollari.
Il lancio di aquiloni è accompagnato da una forte propaganda mirata a terrorizzare gli israeliani e a glorificare gli appartenenti all’unità di lanciatori: la “al-Zouari “, in onore del tecnico aereonautico tunisino, Muhammad al-Zouari ucciso dal Mossad per aver sviluppato droni per Hamas ed Hezbollah.
Detta unità ha minacciato il lancio di ben 5.000 tra aquiloni e palloncini incendiari in occasione della festa di Eid al-Fitr, a fine Ramadan e qualora Israele non avesse tolto l’assedio a Gaza.
Il Rafael Advanced Defense Systems creato inizialmente per i droni israeliani, è stato schierato al confine con Gaza per individuare quei bersagli come palloni ed aquiloni che, per dimensioni particolarmente ridotte, non vengono solitamente individuati dai radar. Una volta identificato un oggetto volante infuocato, Sky Spotter ne individua il punto di lancio, lo traccia mentre è in volo e ne determina traiettoria e punto di caduta. Gli operatori indirizzano quindi i droni per abbatterli ed allertano tempestivamente i vigili del fuoco. Per l’abbattimento vengono utilizzate essenzialmente due tipologie di droni: una più piccola e robusta dotata di lame affilate per speronarli, oppure un’altra di dimensioni maggiori, dotata di un artiglio per afferrarli e portarli a terra, riferisce Analisi Difesa.
Ma Israele ha cercato di ricorrere anche alla sua strategia preferita, cioè gli omicidi mirati, inviando aerei da combattimento a bombardare la casa e l’automobile del palestinese ritenuto l’inventore degli aquiloni incendiari. Ma i raid israeliani sono andati a vuoto.
La rappresaglia israeliana è stata anche economica, Netanyahu ha infatti disposto la decurtazione di parte dei fondi delle tasse palestinesi destinati all’Anp (e e che Israele trattiene arbitrariamente da anni) per risarcire i cittadini israeliane che hanno subito danni. Fondi per decine di milioni di dollari che, secondo un accordo economico del 1994, provengono da dazi doganali riscossi annualmente su merci destinate ai mercati palestinesi e transitanti in porti israeliani.
C’è poi il caso di tre ultrà israeliani fermati dalla polizia per aver tentato di lanciare un aquilone infuocato nella Striscia di Gaza. L’aquilone, però caduto sul lato israeliano del confine provocando un piccolo incendio.
Fonte
Il lancio di aquiloni e palloncini incendiari per provocare danni in territorio israeliano si è rivelata una scelta quanto mai semplice ed economica, ma anche di straordinaria efficacia da riuscire a tenere in scacco uno degli eserciti più avanzati al mondo e le sue sofisticate tecnologie di guerra. Le contromisure israeliane hanno ottenuto successi solamente minimali. I droni si sono rivelati inefficaci ed anche i cecchini devono sentirsi piuttosto ridicoli nel cercare di abbattere gli aquiloni o i palloncini messi in aria dai palestinesi e diretti verso il territorio israeliano.
L’impiego di aquiloni incendiari ha via via acquisito una maggior diffusione durante le ultime settimane. Oltre agli aquiloni sono stati impiegati anche palloncini riempiti di elio – a volte preservativi! – a cui sono stati assicurati materiali e liquidi in fiamme o infiammabili. I palloncini costituiscono un vettore preferibile agli aquiloni riuscendo a penetrare maggiormente in territorio nemico: la massima distanza raggiunta è stata di 17 chilometri, riferisce il sito specializzato Analisi Difesa.
In 75 giorni consecutivi sono stati lanciati più di 800 tra aquiloni e palloncini, provocando circa 1000 incendi e mandando in fumo 8.200 acri di foreste e terreni agricoli. Una media approssimativa di 11 incendi al giorno con un picco di 25 raggiunto il 16 giugno.
Secondo le autorità israeliane sono stati spesi finora 550.000 dollari per domare gli incendi, mentre i danni ammonterebbero a 1.925.000 dollari. Il tutto condito dalla diffusione di un clima di terrore ed insicurezza tra le comunità a ridosso del confine.
Questo a fronte di una fattibilità ed economicità disarmanti. Gli aquiloni, da sempre popolari ed intramontabili simboli di libertà a Gaza, vengono facilmente realizzati con imballaggi di plastica, legno e contenitori per carboni ardenti, cocktail Molotov od altre sostanze infiammabili, ad un costo unitario inferiore ai 3 dollari.
Il lancio di aquiloni è accompagnato da una forte propaganda mirata a terrorizzare gli israeliani e a glorificare gli appartenenti all’unità di lanciatori: la “al-Zouari “, in onore del tecnico aereonautico tunisino, Muhammad al-Zouari ucciso dal Mossad per aver sviluppato droni per Hamas ed Hezbollah.
Detta unità ha minacciato il lancio di ben 5.000 tra aquiloni e palloncini incendiari in occasione della festa di Eid al-Fitr, a fine Ramadan e qualora Israele non avesse tolto l’assedio a Gaza.
Il Rafael Advanced Defense Systems creato inizialmente per i droni israeliani, è stato schierato al confine con Gaza per individuare quei bersagli come palloni ed aquiloni che, per dimensioni particolarmente ridotte, non vengono solitamente individuati dai radar. Una volta identificato un oggetto volante infuocato, Sky Spotter ne individua il punto di lancio, lo traccia mentre è in volo e ne determina traiettoria e punto di caduta. Gli operatori indirizzano quindi i droni per abbatterli ed allertano tempestivamente i vigili del fuoco. Per l’abbattimento vengono utilizzate essenzialmente due tipologie di droni: una più piccola e robusta dotata di lame affilate per speronarli, oppure un’altra di dimensioni maggiori, dotata di un artiglio per afferrarli e portarli a terra, riferisce Analisi Difesa.
Ma Israele ha cercato di ricorrere anche alla sua strategia preferita, cioè gli omicidi mirati, inviando aerei da combattimento a bombardare la casa e l’automobile del palestinese ritenuto l’inventore degli aquiloni incendiari. Ma i raid israeliani sono andati a vuoto.
La rappresaglia israeliana è stata anche economica, Netanyahu ha infatti disposto la decurtazione di parte dei fondi delle tasse palestinesi destinati all’Anp (e e che Israele trattiene arbitrariamente da anni) per risarcire i cittadini israeliane che hanno subito danni. Fondi per decine di milioni di dollari che, secondo un accordo economico del 1994, provengono da dazi doganali riscossi annualmente su merci destinate ai mercati palestinesi e transitanti in porti israeliani.
C’è poi il caso di tre ultrà israeliani fermati dalla polizia per aver tentato di lanciare un aquilone infuocato nella Striscia di Gaza. L’aquilone, però caduto sul lato israeliano del confine provocando un piccolo incendio.
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Il governo della “buona morte”
Se un cane morde un uomo, non c’è notizia; se un uomo morde un cane, sì. Non c’è giornalista che sia entrato in una redazione e non si sia sentito consegnare questa massima come primo criterio per districarsi nel mare di segnalazioni e lanci di agenzia che – in questi ultimi anni – scorre sullo schermo del computer.
Le aggressioni di “cittadini italiani bianchi ai neri”, giornalisticamente parlando, equivalgono a “uomo morde cane”. Questo, almeno, secondo gli standard da talk show, i giornali di un po’ tutte le anime del neoliberismo e le più sbrigative cazzate sparate al terzo litro in osteria. Secondo il cosiddetto ministro dell’interno – collezionista e megafono istituzionale soprattutto di queste ultime – non ci sarebbe invece nessun problema di razzismo fascistoide, “perché i reati commessi ogni giorno in Italia da immigrati sono circa 700, quasi un terzo del totale, e questo è l’unico vero allarme reale contro cui da ministro sto combattendo”.
Davvero sfortunato, il vicepresidene del consiglio... Gli capita di dire certe cose mentre si cerca frettolosamente di seppellire un cittadino marocchino ucciso da tre improvvisati giustizieri della notte in quel di Aprilia e la primatista italiana di lancio del disco viene aggredita vicino casa da sconosciuti. Di pelle bianca, mentre lei è nerissima ma altrettanto cittadina di questo paese (al punto da rappresentarlo nel mondo, con la maglia azzurra, in un modo di cui si può certamente essere più che orgogliosi).
Prudentemente, in una giornata così, si autotwitta mentre gioca a flipper ed evita di rilanciare la provocazione, com’è solito fare.
Un segno di debolezza, certamente, perché entrambe le aggressioni sono decisamente indifendibili. Dalla poltrona del Viminale, almeno; dal fondo di una bottiglia svuotata magari sì...
E non lo aiuta nemmeno il contemporaneo scivolone del suo pari grado Luigi Di Maio, che spende la battuta sbagliata nel giorno sbagliato (“Non credo ci sia un allarme razzismo, si sta usando questo argomento perché chi vuole sentirsi di sinistra, e non lo è più, lo usa per accusare Matteo Salvini di essere di estrema destra”) dicendo una cosa vera (la “sinistra finta” in stile Pd-Repubblica) per farne passare una falsissima.
Dio li fa e poi li accoppia. Quando si cerca di dire “quel che vuole la gente” capita di dover sostenere una cosa e il suo contrario più volte al giorno, magari all’interno della stessa frase...
Ma non è andando dietro alle dichiarazioni di Tizio o Caio che si può capire cosa va cambiando nel deep state che in ogni caso resterà anche quando questi due raggiungeranno Renzi nel purgatorio delle meteore politiche.
Conviene invece guardare a quel che fanno o dicono carabinieri e polizia, che trovano come sempre ascolto acritico e afasico nei media mainstream. Nel caso di Aprilia, per esempio, hanno semplicemente denunciato due degli aggressori – quelli che materialmente hanno ucciso il cittadino marocchino indicato come “ladro” unicamente perché a bordo di un’auto straniera a tarda notte – lasciandoli a piede libero.
E’ risaputo che qui non siamo dei giustizialisti e non auguriamo la galera pressoché a nessuno, ma non si può non notare che dopo un inseguimento e un pestaggio (di un uomo comunque uscito da un incidente stradale già ferito!), da cui è derivata la morte della vittima, in qualsiasi altro caso sarebbe immediatamente scattato il fermo giudiziario in caserma in attesa dei provvedimenti della magistratura (conferma del fermo, mandato d’arresto, trasferimento in carcere o ai domiciliari). Se lo avete dimenticato, ve lo ricordiamo noi: in questo paese l’arresto è obbligatorio nel caso di incidente stradale causato in stato di alterazione per alcool o droghe; ovvero per un reato in cui la volontà del reo è sicuramente assente o fortemente alterata.
Qui, invece, due rambo di paese ammazzano un uomo – involontariamente, certo: l’hanno preso a pugni e calci, senza uso di armi proprie o improprie – e vengono rimandati a casa con una semplice denuncia; come non avviene neppure per una “manifestazione non autorizzata”...
Peggio. I carabinieri di Aprilia – proprio come i colleghi di Moncalieri, dopo l’aggressione alla campionessa del disco – hanno immediatamente escluso “il movente razziale”. E dire che solo il differente colore di pelle e di “aspetto” (oltre che una targa d’auto chiaramente straniera) ha motivato una autentica caccia all’uomo lungo le curve della Nettunense, in piena notte.
Un atteggiamento minimizzante che può avere soltanto due motivazioni. La prima – e in fondo la migliore – sarebbe la preoccupazione di non aggiungere benzina al fuoco di imbecillità aggressiva e ormai anche assassina che emerge da molte fogne di questo paese.
L’altra – sicuramente sbagliata – mirerebbe all’opposto ad attenuare le responsabilità penali di chi commette queste aggressioni.
Non ci vuole un fine sociologo della criminalità per capire che, qualsiasi sia la motivazione vera, se si derubrica un omicidio a “reato bagatellare” – uno di quelli per cui certamente non finirai mai in galera – di fatto si lancia un segnale politico chiaro: “ammazzare un negro non è poi così grave”.
Sappiamo tutti, anche voi che leggete, che carabinieri e polizia applicano, con un ben piccolo margine di discrezionalità, le direttive che vengono dal governo. E, tornando ad analizzare la retorica sguaiata e razzista di tutto il governo (Di Maio, diciamolo, usa solo toni più democristiani...), non si possono nutrire molti dubbi sul fatto che – se non “ordini scritti” – lungo le linee di comando dal vertice alla base stiano viaggiando “raccomandazioni” che invitano a non calcare la mano sugli autori di aggressioni razziali.
E’ un calcolo stupido. La quasi impunità moltiplicherà i casi di imitazione, la “concorrenza” tra gruppi e bande a “fare di più”. Aumenteranno – l’abbia detto subito, anticipando i fatti – i casi di cittadini italiani aggrediti perché neri o comunque “troppo scuri”, dunque scambiati per “invasori clandestini”, come recita la vulgata idiota dell’ultradestra.
Là dove comandano le mafie – come in alcune zone del casertano e della Sicilia, dove nelle ultime ore si sono verificate aggressioni fortunatamente con esiti meno gravi – la “caccia al negro” verrà magari usata per selezionare candidati a incarichi più “seri”, e comunque per disciplinare violentemente i braccianti ipersfruttati nelle campagne.
Non il “far west” di cui parla Mattarella, ma una landa del Ku Klux Klan protetta dal governo.
Altro che “ministro della mala vita”, come scritto da Saviano per farsi oculatamente querelare da Salvini (lo spazio bianco spezza la parola e il significato). Questo governo comincia ad assomigliare alle “compagnie della buona morte” (esistono davvero, ‘un ci si crederebbe mai).
Un governo che, nel terzo millennio, aizza l’odio sociale verso chi si porta in giro “segni di riconoscimento” come il colore della pelle, si comporta come un hater che piazza una bomba nella propria auto e poi mettersi a guidare.
L’unica incognita è l’ora dell’esplosione...
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Le aggressioni di “cittadini italiani bianchi ai neri”, giornalisticamente parlando, equivalgono a “uomo morde cane”. Questo, almeno, secondo gli standard da talk show, i giornali di un po’ tutte le anime del neoliberismo e le più sbrigative cazzate sparate al terzo litro in osteria. Secondo il cosiddetto ministro dell’interno – collezionista e megafono istituzionale soprattutto di queste ultime – non ci sarebbe invece nessun problema di razzismo fascistoide, “perché i reati commessi ogni giorno in Italia da immigrati sono circa 700, quasi un terzo del totale, e questo è l’unico vero allarme reale contro cui da ministro sto combattendo”.
Davvero sfortunato, il vicepresidene del consiglio... Gli capita di dire certe cose mentre si cerca frettolosamente di seppellire un cittadino marocchino ucciso da tre improvvisati giustizieri della notte in quel di Aprilia e la primatista italiana di lancio del disco viene aggredita vicino casa da sconosciuti. Di pelle bianca, mentre lei è nerissima ma altrettanto cittadina di questo paese (al punto da rappresentarlo nel mondo, con la maglia azzurra, in un modo di cui si può certamente essere più che orgogliosi).
Prudentemente, in una giornata così, si autotwitta mentre gioca a flipper ed evita di rilanciare la provocazione, com’è solito fare.
Un segno di debolezza, certamente, perché entrambe le aggressioni sono decisamente indifendibili. Dalla poltrona del Viminale, almeno; dal fondo di una bottiglia svuotata magari sì...
E non lo aiuta nemmeno il contemporaneo scivolone del suo pari grado Luigi Di Maio, che spende la battuta sbagliata nel giorno sbagliato (“Non credo ci sia un allarme razzismo, si sta usando questo argomento perché chi vuole sentirsi di sinistra, e non lo è più, lo usa per accusare Matteo Salvini di essere di estrema destra”) dicendo una cosa vera (la “sinistra finta” in stile Pd-Repubblica) per farne passare una falsissima.
Dio li fa e poi li accoppia. Quando si cerca di dire “quel che vuole la gente” capita di dover sostenere una cosa e il suo contrario più volte al giorno, magari all’interno della stessa frase...
Ma non è andando dietro alle dichiarazioni di Tizio o Caio che si può capire cosa va cambiando nel deep state che in ogni caso resterà anche quando questi due raggiungeranno Renzi nel purgatorio delle meteore politiche.
Conviene invece guardare a quel che fanno o dicono carabinieri e polizia, che trovano come sempre ascolto acritico e afasico nei media mainstream. Nel caso di Aprilia, per esempio, hanno semplicemente denunciato due degli aggressori – quelli che materialmente hanno ucciso il cittadino marocchino indicato come “ladro” unicamente perché a bordo di un’auto straniera a tarda notte – lasciandoli a piede libero.
E’ risaputo che qui non siamo dei giustizialisti e non auguriamo la galera pressoché a nessuno, ma non si può non notare che dopo un inseguimento e un pestaggio (di un uomo comunque uscito da un incidente stradale già ferito!), da cui è derivata la morte della vittima, in qualsiasi altro caso sarebbe immediatamente scattato il fermo giudiziario in caserma in attesa dei provvedimenti della magistratura (conferma del fermo, mandato d’arresto, trasferimento in carcere o ai domiciliari). Se lo avete dimenticato, ve lo ricordiamo noi: in questo paese l’arresto è obbligatorio nel caso di incidente stradale causato in stato di alterazione per alcool o droghe; ovvero per un reato in cui la volontà del reo è sicuramente assente o fortemente alterata.
Qui, invece, due rambo di paese ammazzano un uomo – involontariamente, certo: l’hanno preso a pugni e calci, senza uso di armi proprie o improprie – e vengono rimandati a casa con una semplice denuncia; come non avviene neppure per una “manifestazione non autorizzata”...
Peggio. I carabinieri di Aprilia – proprio come i colleghi di Moncalieri, dopo l’aggressione alla campionessa del disco – hanno immediatamente escluso “il movente razziale”. E dire che solo il differente colore di pelle e di “aspetto” (oltre che una targa d’auto chiaramente straniera) ha motivato una autentica caccia all’uomo lungo le curve della Nettunense, in piena notte.
Un atteggiamento minimizzante che può avere soltanto due motivazioni. La prima – e in fondo la migliore – sarebbe la preoccupazione di non aggiungere benzina al fuoco di imbecillità aggressiva e ormai anche assassina che emerge da molte fogne di questo paese.
L’altra – sicuramente sbagliata – mirerebbe all’opposto ad attenuare le responsabilità penali di chi commette queste aggressioni.
Non ci vuole un fine sociologo della criminalità per capire che, qualsiasi sia la motivazione vera, se si derubrica un omicidio a “reato bagatellare” – uno di quelli per cui certamente non finirai mai in galera – di fatto si lancia un segnale politico chiaro: “ammazzare un negro non è poi così grave”.
Sappiamo tutti, anche voi che leggete, che carabinieri e polizia applicano, con un ben piccolo margine di discrezionalità, le direttive che vengono dal governo. E, tornando ad analizzare la retorica sguaiata e razzista di tutto il governo (Di Maio, diciamolo, usa solo toni più democristiani...), non si possono nutrire molti dubbi sul fatto che – se non “ordini scritti” – lungo le linee di comando dal vertice alla base stiano viaggiando “raccomandazioni” che invitano a non calcare la mano sugli autori di aggressioni razziali.
E’ un calcolo stupido. La quasi impunità moltiplicherà i casi di imitazione, la “concorrenza” tra gruppi e bande a “fare di più”. Aumenteranno – l’abbia detto subito, anticipando i fatti – i casi di cittadini italiani aggrediti perché neri o comunque “troppo scuri”, dunque scambiati per “invasori clandestini”, come recita la vulgata idiota dell’ultradestra.
Là dove comandano le mafie – come in alcune zone del casertano e della Sicilia, dove nelle ultime ore si sono verificate aggressioni fortunatamente con esiti meno gravi – la “caccia al negro” verrà magari usata per selezionare candidati a incarichi più “seri”, e comunque per disciplinare violentemente i braccianti ipersfruttati nelle campagne.
Non il “far west” di cui parla Mattarella, ma una landa del Ku Klux Klan protetta dal governo.
Altro che “ministro della mala vita”, come scritto da Saviano per farsi oculatamente querelare da Salvini (lo spazio bianco spezza la parola e il significato). Questo governo comincia ad assomigliare alle “compagnie della buona morte” (esistono davvero, ‘un ci si crederebbe mai).
Un governo che, nel terzo millennio, aizza l’odio sociale verso chi si porta in giro “segni di riconoscimento” come il colore della pelle, si comporta come un hater che piazza una bomba nella propria auto e poi mettersi a guidare.
L’unica incognita è l’ora dell’esplosione...
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30/07/2018
Cartoline dalla Grecia: l’emergenza è finita?
I devastanti incendi che hanno flagellato la regione attorno Atene hanno riportato l’attenzione dei media nostrani sulla Grecia.
A tutti gli osservatori – anche agli apologeti del liberismo più selvaggio – è apparso chiaro il pesante bilancio di danni e lutti provocati a fronte di incendi che, per quanto stavolta siano stati particolarmente impetuosi, non sono una novità in quelle zone già periodicamente interessate da questa fenomenologia.
Mai come ora è risultato evidente il gap materiale e tecnologico esistente tra le reali potenzialità degli apparati di emergenza e di prevenzione dello stato ellenico e gli standard minimi indispensabili che necessiterebbero in qualsivoglia paese costretto a misurarsi con calamità di questo tipo.
Il (triste) paradosso di questa vicenda è che, nei giorni scorsi, il primo ministro greco, Alexis Tsipras, dichiarava, soddisfatto, che la Grecia sta uscendo dal “tunnel della crisi” dopo i fatti del 2015 (il cedimento al Memorandum della trojka con buona pace della vittoria referendaria dell’OXI, nda) e che nel paese cresce la “fiducia verso il futuro prossimo”.
La realtà sociale, il paese reale e le condizioni di vita e di lavoro dicono altro .
Il 20 agosto prossimo termina l’ultima parte del “programma di riforme strutturali” deciso da Bruxelles nei giorni del luglio 2015 quando, di fatto, la Grecia è stata sottoposta al commissariamento forzato da parte dell'UE.
In effetti, però, dal gennaio 2019 scatterà un altro giro di vite sulle pensioni, il quattordicesimo, per “tenere in sicurezza la reale compatibilità dei conti pubblici” ed ogni trimestre la UE manderà i suoi commissari/controllori per verificare l’attuazione di queste misure e le “garanzie” per i creditori/cravattari che hanno “prestato” i 300 milioni di Euro alla Grecia.
Oggi, a distanza di alcuni anni, la disoccupazione è arrivata al 20%, una famiglia su cinque (il doppio del 2010) vive in condizioni di estrema povertà ed il fardello del debito (pubblico e privato) è ancora un macigno.
Inoltre la privatizzazione/svendita di gran parte dell’apparato industriale ed infrastrutturale del paese ha comportato consistenti esternalizzazioni di operai ed impiegati, il peggioramento della qualità e di ciò che residuava dell’universalità dei servizi ed una generale svalorizzazione del lavoro e delle sue condizioni normative, giuridiche e di sicurezza.
Il governo Syriza/ANEL supinamente prono ai dettami della borghesia continentale europea (e della NATO) continua a ritenere – confermando la sua linea di condotta catastrofica per gli interessi dei settori popolari della società – che è possibile consolidare una sorta di “ripresa economica nazionale” confidando esclusivamente sul turismo, le nuove tecnologie e la “smart economy”.
Ma i fatti hanno la testa dura. Il turismo, in Grecia e non solo, non è un comparto che produce un miglioramento generalizzato dell’economia e una crescita della quantità/qualità del lavoro sempre e comunque. Anche questo comparto è sottoposto alle modalità del mercato, alle sue leggi ed alla crescente concorrenza internazionale
I flussi turistici (quelli consistenti) sono organizzati, gestiti e valorizzati dalle grandi corporation globali dell’entertainment.
Con buona pace dell’immagine iconica dell’isoletta greca pura ed incontaminata e delle rustiche taverne dove si spende poco, si sta consolidando una industria del divertimento incardinata alle più feroci leggi del supersfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente naturale.
I porti, gli aeroporti (non a caso le infrastrutture svendute per prime, dopo il luglio 2015), i villaggi turistici, i tour operator, il selvaggio e vorticoso comparto dell’edilizia e persino le campagne propagandistiche e promozionali delle varie località, sono saldamente nelle mani di compagnie straniere le quali sono interessate unicamente alla massimizzazione dei profitti, non nutrono nessuna attenzione per gli standard ambientali dell’ecosistema e sono pronte, in qualsiasi momento, anche in considerazione dell’evoluzione generale del contesto geopolitico, ad indirizzare altrove i flussi turistici.
La stessa demagogia/illusione, da parte governativa, sul potenziamento delle nuove tecnologie è rivolta, stando ai fatti che registriamo, al rafforzamento ed alla crescita di questa infernale macchina del divertimento e non, invece, come sarebbe socialmente utile, alla riqualificazione/ammodernamento delle infrastrutture di base del paese.
Le reti energetiche nazionali, la qualità degli impianti ferroviari, del servizio sanitario nazionale e – come dimostrato tragicamente nei giorni scorsi – i servizi di pubblica emergenza sono fermi al palo o, addirittura, regrediscono ulteriormente.
Fotografano bene questa situazione le parole di Vassilis Primikiris, del comitato centrale di Unità Popolare (Lea), riprese anche dall’ultimo numero de “l’Espresso” in edicola questa settimana: “Rimarremo nelle grinfie della Troika per quasi cento anni. Altro che ritrovata autonomia. Con i tagli alle pensioni e l’introduzione della tassazione anche per chi guadagna 500 Euro al mese i greci sono condannati alla miseria perenne. Tsipras da comunista è diventato lo yesman dei poteri forti. E anche della NATO, con la decisione di non usare la facoltà di veto sull’ingresso della Fyrom nell’Alleanza Atlantica e il consenso al cambiamento del nome in “Macedonia del Nord”. Con questa mossa scellerata ha regalato migliaia di voti ai fascisti di Alba Dorata e distrutto lo storico rapporto amichevole con la Russia. Un disastro completo.”
In effetti, al di là di tutte le chiacchiere e le sparate propagandistiche, la Grecia, nonostante la cura da cavallo a cui è stata costretta, nonostante la manomissione diplomatica, economica e finanziaria che ha subito, non ha ottenuto dal complesso dei creditori internazionali il taglio del debito che doveva essere (nell’idea di Syriza, di Tsipras e dei soloni del Partito della Sinistra Europea) l’obiettivo che si sarebbe acquisito con l’accettazione del terzo Memorandum.
Cosa dire alla fine di questa “cartolina”?
Il popolo greco (che ha alle sue spalle una gloriosa e consolidata tradizione di lotta antifascista e per il progresso) è, tra i popoli europei, quello che ha pagato il più alto costo umano e politico alla costruzione del polo imperialista europeo. In Grecia, più che altrove, la “sinistra” ha attivamente lavorato per depotenziare e distruggere ogni aspettativa di rottura e di avanzamento politico e sociale verso un assetto culturale, economico e geopolitico che alludesse, per davvero, ad una possibile fuoriuscita dai micidiali dispositivi dell’Unione Europea e della NATO.
Non è un caso che – nel paese ellenico, ma anche altrove – crescono le destre razziste ed xenofobe nutrite dal malcontento e dal disorientamento dei ceti popolari dopo il “tradimento” della “sinistra”.
Una lezione politica, quindi, da non smarrire, ancora attuale, la quale rafforza la necessità della sfida teorica e pratica che vogliamo rilanciare per costruire nel nostro paese e nell’area euro/mediterranea una prospettiva di rottura, di riscatto e di liberazione fondata sull’unione popolare e non sui cascami di una “sinistra” sempre più integrata nella modernizzazione capitalistica ed imperialistica.
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La giornata della democrazia nel Niger. Dove la sabbia insegna
Magari di sabbia, ma la nostra democrazia si celebra domenica 29 luglio. Nel nostro piccolo è già qualcosa. Decretata 20 anni dopo la celebrazione della Conferenza Nazionale Sovrana, il 29 luglio 2011, la giornata celebra l’avvento del multipartitismo dopo gli anni di piombo della giunta militare. Da allora ogni anno, alla data, si ricorda che la democrazia è un cantiere che funziona come e quando può.
Tanto per non dare adito a sospetti sono stati liberati, dopo alcuni mesi di carcere, i tre capofila della società civile. Il reato di manifestare senza autorizzazione è stato il pretesto per scoraggiare i venti di rivolta nascente al decreto sulle finanze dello stato. Dopo 15 anni di regime militare si vive il regime presidenziale che fa della democrazia del Niger un’invenzione al servizio dell’Occidente. La Conferenza terminò il 3 novembre del 1991 a Niamey. Circa 1200 i delegati delle ‘forze vive’ della nazione con la transizione fino alle elezioni del 1993.
La vostra democrazia è liquida come la società. Da quella di sabbia a quella di mare, c’è la complicità assicurata dal Mediterraneo. Una democrazia acquatica che, credendo di redimersi, si affida alle onde della politica, ai riflussi nazionalisti che impongono il passato sul presente. La democrazia che proponete è solida come la rete metallica che protegge, a Ceuta, l’ingresso sulle sacre sponde di gesso del continente. E’ stata assaltata e scavalcata da almeno 600 migranti con in tasca un pugno di sabbia. Una democrazia protetta, circondata da fili spinati, da campi di transito permanente e a misura degli interessi dei potenti. Una democrazia di carta e dichiarazioni precarie perché non credute e professate da nessuno in particolare. La vostra democrazia è liquida come il denaro che circola senza limiti di spazio e tempo che vi ha contaminati come una malattia incurabile. La democrazia che esportate ha il colore delle forze armate e delle banche.
La nostra democrazia almeno è di sabbia. Funziona a tratti come la luce nella capitale. Viaggia su taxi d’occasione. Mangia a seconda dei giorni e non si prende sul serio. Usa i corpi per governare, sorvegliare e punire. Manda avanti i pedoni e si diverte a costruire inutili palazzi di vetro. Fa figli senza badare a spese e prende Dio come garante del futuro. La giornata della democrazia nel Niger cade quest’anno nell’ultima domenica di luglio e si festeggia di noncuranza. Imparate da noi e aggiungete un giorno di sabbia al vostro calendario.
Niamey, 29 luglio 2018 democratico
Fonte
Tanto per non dare adito a sospetti sono stati liberati, dopo alcuni mesi di carcere, i tre capofila della società civile. Il reato di manifestare senza autorizzazione è stato il pretesto per scoraggiare i venti di rivolta nascente al decreto sulle finanze dello stato. Dopo 15 anni di regime militare si vive il regime presidenziale che fa della democrazia del Niger un’invenzione al servizio dell’Occidente. La Conferenza terminò il 3 novembre del 1991 a Niamey. Circa 1200 i delegati delle ‘forze vive’ della nazione con la transizione fino alle elezioni del 1993.
La vostra democrazia è liquida come la società. Da quella di sabbia a quella di mare, c’è la complicità assicurata dal Mediterraneo. Una democrazia acquatica che, credendo di redimersi, si affida alle onde della politica, ai riflussi nazionalisti che impongono il passato sul presente. La democrazia che proponete è solida come la rete metallica che protegge, a Ceuta, l’ingresso sulle sacre sponde di gesso del continente. E’ stata assaltata e scavalcata da almeno 600 migranti con in tasca un pugno di sabbia. Una democrazia protetta, circondata da fili spinati, da campi di transito permanente e a misura degli interessi dei potenti. Una democrazia di carta e dichiarazioni precarie perché non credute e professate da nessuno in particolare. La vostra democrazia è liquida come il denaro che circola senza limiti di spazio e tempo che vi ha contaminati come una malattia incurabile. La democrazia che esportate ha il colore delle forze armate e delle banche.
La nostra democrazia almeno è di sabbia. Funziona a tratti come la luce nella capitale. Viaggia su taxi d’occasione. Mangia a seconda dei giorni e non si prende sul serio. Usa i corpi per governare, sorvegliare e punire. Manda avanti i pedoni e si diverte a costruire inutili palazzi di vetro. Fa figli senza badare a spese e prende Dio come garante del futuro. La giornata della democrazia nel Niger cade quest’anno nell’ultima domenica di luglio e si festeggia di noncuranza. Imparate da noi e aggiungete un giorno di sabbia al vostro calendario.
Niamey, 29 luglio 2018 democratico
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Alla fine ci scappa il morto. E proprio questo volevano...
Prova e riprova, alla fine uno capace di diventare un assassino l’hanno trovato. Ad Aprilia, alle porte di Roma ma già in provincia di Latina, dove il centrodestra ha tirato su – alle ultime comunali – un robusto 40%.
Nella tarda serata di sabato, intorno alle due, alcuni “cittadini preoccupati” hanno messo in piedi una “ronda” improvvisata, girando per le strade di un quartiere che di recente era stato teatro di alcuni furti. Una di quelle sciocchezze che si fanno quando si è esasperati e che, mille volte su mille, si traducono in una camminata a vuoto nella sera afosa. Se anche i ladri si fanno vivi, vedono che c’è casino e se ne vanno...
Ieri, invece, alcuni di questi “cittadini inquieti” avvistano quella che viene individuata subito come “un’auto sospetta”.
C’è da chiedersi da quali caratteristiche, un normale cittadino che nella vita fa tutt’altro, possa arrivare a una simile conclusione, problematica spesso anche per agenti di polizia di provata esperienza. L’auto ha una targa straniera e i due a bordo hanno tratti somatici da “marocchino” e tanto basta per scatenare una mini-caccia all’uomo.
La “macchina sospetta” scappa via, i prodi “rondoni” improvvisati montano sulla propria auto e si gettano all’inseguimento. Qualcuno chiama il 112, ma i tre non aspettano. Pochi minuti di folle imitazione di un film americano e l’auto fuggitiva esce di strada. Dei due a bordo uno fugge, uno resta sul posto, forse stordito dall’incidente.
Dei tre inseguitori, uno certamente lo colpisce – una o più volte, non è stato ancora ufficialmente chiarito – con pugni e forse calci. Il fuggitivo muore. L’autista resta sul posto e chiama la polizia, mentre gli altri se ne vanno. Soltanto più tardi uno si presenterà dai carabinieri dopo aver saputo di essere “attenzionato”.
I carabinieri, di fronte a questa prima sommaria ricostruzione, denunciano i due per “omicidio preterintenzionale” e li rimandano a casa.
Parte la “narrazione minimizzante”, che vede tutti compatti – con accenti diversi – i media “liberal” e quelli forcaioli.
L’uomo ucciso è effettivamente un marocchino, “ha un precedente penale” enfatizzano tutti, ma solo per documenti falsi (cosa abbastanza frequente, nel primo periodo di permanenza, tra quanti sono costretti alla clandestinità). Troppo poco per giustificare un omicidio...
E allora ecco spuntare uno zainetto “contenente arnesi da scasso”. Definizione generica, che si può attagliare a un cacciavite, a un piede di porco, a un seghetto... Chissà.
Anche per l’“omicida preterintenzionale” scatta la difesa d’ufficio accettando senza problemi la sua versione: si è difeso quando «ha visto il marocchino infilare le mani nel marsupio».
Batte tutti il Corriere della Sera, che riferisce senza alcun dubbio: “L’unico elemento che finora sembra emergere con chiarezza è che dietro alla vicenda non ci sia alcun motivo razziale”. La targa straniera e il look mediorientale sono eliminati con un tratto di penna...
Non sappiamo chi siano i “tre italiani incensurati”, tutti quarantenni come il marocchino morto. E avanziamo qui le domande che non possiamo far loro.
Ipotizziamo pure che i due fuggitivi fossero davvero dei ladri (sappiamo bene che tra i tanti mestieri alcuni immigrati fanno anche questo, e non certo perché “gli italiani non vogliano più farlo”, anzi...).
Hai preso il numero della targa e hai chiamato la polizia, perché non lasciare che sia lo Stato – la sua parte che più viene invocata in questi mesi – ad occuparsene con la competenza professionale, la conoscenza delle leggi, le “regole di ingaggio” elaborate nel corso dei secoli?
Non sei un poliziotto o un carabiniere, non hai alcun titolo e tantomeno alcuna esperienza per stare lì, nella notte, a chilometri da casa, a cercare di fermare un uomo che è “sospetto” soltanto in base a un’impressione tua o, peggio ancora, per quelle autoconvinzioni collettive che generano da sempre i mostri peggiori.
C’è però l’ipotesi in molti sensi peggiore. Quei due uomini magari non erano dei ladri. E quando hanno visto un certo numero di persone arrabbiate dirigersi verso di loro sono scappati. Di questi tempi, con quante ne succedono in Italia, signora mia, prima mettersi in salvo e poi cercare di capire...
Non c’è nulla da minimizzare, ci sembra. Quando il ministro dell’interno e vicepresidente del consiglio auspica e sostiene l’uso della violenza privata dei cittadini in base alla “presunzione di colpevolezza” fondata sul colore della pelle, ogni zucca vuota si sentirà autorizzata a far-da-sé.
Le conseguenze possibili sono già sotto i nostri occhi. E ancora non si sono verificati gli episodi che faranno certamente cortocircuitare parecchi cervelli. Ci sono ormai alcuni milioni di cittadini italiani con il colore della pelle “non bianco padano”. Ne vediamo tanti nel calcio, nell’atletica leggera, nelle università e persino sull’altare a dire messa.
Ce n’erano già sotto il fascismo... Uno di loro diventò persino generale dell’aviazione!
Per non dire poi di quegli italiani da mille generazioni che però hanno il “piccolo difetto” di essere un po’ “scuretti”, come tanti calabresi, siciliani, pugliesi, sardi o persino di qualche piccola valle bergamasca.
Aizzare l’odio sociale verso chi si porta in giro questi “segni di riconoscimento” è come piazzare una bomba nella propria auto e poi mettersi a guidare. L’unica incognita è l’ora dell’esplosione...
p.s. Neanche il tempo di scrivere e uno degli episodi “temuti” – perché statisticamente inevitabili – è avvenuto, a Moncalieri. Un’atleta della nazionale italiana di atletica, Daisy Osakue, di origine sudafricana, è stata aggredita ieri sera da un gruppo di giovani. Stava semplicemente rientrando a casa sua...
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Nella tarda serata di sabato, intorno alle due, alcuni “cittadini preoccupati” hanno messo in piedi una “ronda” improvvisata, girando per le strade di un quartiere che di recente era stato teatro di alcuni furti. Una di quelle sciocchezze che si fanno quando si è esasperati e che, mille volte su mille, si traducono in una camminata a vuoto nella sera afosa. Se anche i ladri si fanno vivi, vedono che c’è casino e se ne vanno...
Ieri, invece, alcuni di questi “cittadini inquieti” avvistano quella che viene individuata subito come “un’auto sospetta”.
C’è da chiedersi da quali caratteristiche, un normale cittadino che nella vita fa tutt’altro, possa arrivare a una simile conclusione, problematica spesso anche per agenti di polizia di provata esperienza. L’auto ha una targa straniera e i due a bordo hanno tratti somatici da “marocchino” e tanto basta per scatenare una mini-caccia all’uomo.
La “macchina sospetta” scappa via, i prodi “rondoni” improvvisati montano sulla propria auto e si gettano all’inseguimento. Qualcuno chiama il 112, ma i tre non aspettano. Pochi minuti di folle imitazione di un film americano e l’auto fuggitiva esce di strada. Dei due a bordo uno fugge, uno resta sul posto, forse stordito dall’incidente.
Dei tre inseguitori, uno certamente lo colpisce – una o più volte, non è stato ancora ufficialmente chiarito – con pugni e forse calci. Il fuggitivo muore. L’autista resta sul posto e chiama la polizia, mentre gli altri se ne vanno. Soltanto più tardi uno si presenterà dai carabinieri dopo aver saputo di essere “attenzionato”.
I carabinieri, di fronte a questa prima sommaria ricostruzione, denunciano i due per “omicidio preterintenzionale” e li rimandano a casa.
Parte la “narrazione minimizzante”, che vede tutti compatti – con accenti diversi – i media “liberal” e quelli forcaioli.
L’uomo ucciso è effettivamente un marocchino, “ha un precedente penale” enfatizzano tutti, ma solo per documenti falsi (cosa abbastanza frequente, nel primo periodo di permanenza, tra quanti sono costretti alla clandestinità). Troppo poco per giustificare un omicidio...
E allora ecco spuntare uno zainetto “contenente arnesi da scasso”. Definizione generica, che si può attagliare a un cacciavite, a un piede di porco, a un seghetto... Chissà.
Anche per l’“omicida preterintenzionale” scatta la difesa d’ufficio accettando senza problemi la sua versione: si è difeso quando «ha visto il marocchino infilare le mani nel marsupio».
Batte tutti il Corriere della Sera, che riferisce senza alcun dubbio: “L’unico elemento che finora sembra emergere con chiarezza è che dietro alla vicenda non ci sia alcun motivo razziale”. La targa straniera e il look mediorientale sono eliminati con un tratto di penna...
Non sappiamo chi siano i “tre italiani incensurati”, tutti quarantenni come il marocchino morto. E avanziamo qui le domande che non possiamo far loro.
Ipotizziamo pure che i due fuggitivi fossero davvero dei ladri (sappiamo bene che tra i tanti mestieri alcuni immigrati fanno anche questo, e non certo perché “gli italiani non vogliano più farlo”, anzi...).
Hai preso il numero della targa e hai chiamato la polizia, perché non lasciare che sia lo Stato – la sua parte che più viene invocata in questi mesi – ad occuparsene con la competenza professionale, la conoscenza delle leggi, le “regole di ingaggio” elaborate nel corso dei secoli?
Non sei un poliziotto o un carabiniere, non hai alcun titolo e tantomeno alcuna esperienza per stare lì, nella notte, a chilometri da casa, a cercare di fermare un uomo che è “sospetto” soltanto in base a un’impressione tua o, peggio ancora, per quelle autoconvinzioni collettive che generano da sempre i mostri peggiori.
C’è però l’ipotesi in molti sensi peggiore. Quei due uomini magari non erano dei ladri. E quando hanno visto un certo numero di persone arrabbiate dirigersi verso di loro sono scappati. Di questi tempi, con quante ne succedono in Italia, signora mia, prima mettersi in salvo e poi cercare di capire...
Non c’è nulla da minimizzare, ci sembra. Quando il ministro dell’interno e vicepresidente del consiglio auspica e sostiene l’uso della violenza privata dei cittadini in base alla “presunzione di colpevolezza” fondata sul colore della pelle, ogni zucca vuota si sentirà autorizzata a far-da-sé.
Le conseguenze possibili sono già sotto i nostri occhi. E ancora non si sono verificati gli episodi che faranno certamente cortocircuitare parecchi cervelli. Ci sono ormai alcuni milioni di cittadini italiani con il colore della pelle “non bianco padano”. Ne vediamo tanti nel calcio, nell’atletica leggera, nelle università e persino sull’altare a dire messa.
Ce n’erano già sotto il fascismo... Uno di loro diventò persino generale dell’aviazione!
Per non dire poi di quegli italiani da mille generazioni che però hanno il “piccolo difetto” di essere un po’ “scuretti”, come tanti calabresi, siciliani, pugliesi, sardi o persino di qualche piccola valle bergamasca.
Aizzare l’odio sociale verso chi si porta in giro questi “segni di riconoscimento” è come piazzare una bomba nella propria auto e poi mettersi a guidare. L’unica incognita è l’ora dell’esplosione...
p.s. Neanche il tempo di scrivere e uno degli episodi “temuti” – perché statisticamente inevitabili – è avvenuto, a Moncalieri. Un’atleta della nazionale italiana di atletica, Daisy Osakue, di origine sudafricana, è stata aggredita ieri sera da un gruppo di giovani. Stava semplicemente rientrando a casa sua...
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La periferia alle porte
Di Max Ferrero
Viaggio fotografico in un vasto territorio degli USA che porta i segni di una crisi economica e demografica
GILBERTON – PENNSYLVANIA – La chiamano "Rust belt", la cintura di ruggine. È un territorio non perfettamente definito che abbraccia la zona nord-est degli Stati Uniti, partendo dai territori a ovest dello stato di New York, passando per i ricchi giacimenti di carbone della Pennsylvania fino a raggiungere i territori dei grandi laghi e le città industriali di Cleveland, nell'Ohio, e Detroit, nel Michigan. Dalle viscere della Pennsylvania si estraeva la forza motrice per la produzione: il carbone fossile era imbarcato in enormi chiatte che attraversavano i fiumi Monongahela e Allegheny. Pittsburgh e i suoi dintorni erano una distesa infinita di acciaierie attive di giorno e di notte. I fumi e gli scarti della lavorazione appestavano l'aria e le terre, ma la gente lavorava ed era felice di possedere un impiego e una precisa collocazione. Le navi e i carri armati che, nelle due guerre mondiali, hanno impedito il sopravvento degli Imperi Centrali prima e dei nazisti poi, sono state prodotte qui e in questo luogo gli Stati Uniti d'America si sono imposti come prima potenza economica mondiale.
Fino al termine degli anni '50 era il cuore pulsante della produttività made in USA, il suo soprannome era di ben altra fattura: "Manufactoring belt" o "Factory belt", la cintura industriale. Poi il lento declino, la delocalizzazione di alcune grandi industrie negli Stati del sud-ovest per sfruttare una mano d'opera dal minor costo e poi, con la stessa cinica imprenditorialità, una successiva dislocazione delle industrie pesanti nei paesi in via di sviluppo.
ASHLAND – PENNSYLVANIA – Il declino industriale, iniziato negli anni '60, provocò effetti molteplici e concatenati: all'industria seguì la crisi dell'indotto, la mancanza di una qualsiasi politica di welfare obbligò alla fuga la popolazione meno agiata, le città cominciarono a spopolarsi, i comuni percepirono meno introiti dalle tasse e i servizi primari collassarono, spingendo anche la classe media a emigrare. Chiusero anche molti esercizi commerciali, persino la cultura diventò un lusso di cui si poteva fare a meno, nelle città e nei villaggi spopolati rimasero solo gli ultimi. Una popolazione che è ormai a preminenza latina e afroamericana, da sempre abituata a vivere ai margini. È una reazione a catena che ha portato città come Detroit, che nel 1950 contava 1.860.000 abitanti, a perdere oltre il 64% della sua popolazione, arrivando a contare nel 2015 solo 677.000 cittadini.
Il fenomeno non ha colpito solamente i grandi centri urbani, anche i piccoli borghi, sorti e prosperati con il ritmo della produzione dell'acciaio, sono delle "ghost town" che non hanno più nessuna somiglianza a ciò che rappresentavano mezzo secolo fa. Interi quartieri sono inesistenti, le case vengono abbattute dalle amministrazioni oppure trasferite direttamente dai vecchi abitanti in fuga. Molte altre sono abbandonate, lasciate al loro lento declino ai bordi di strade dissestate senza alcuna cura o manutenzione. Alcune abitazioni sono ricoveri di fortuna per poveri disperati che cercano riparo, i passati proprietari se ne sono andati in cerca di fortuna: la loro vecchia abitazione aveva perso valore così velocemente da non lasciar loro nemmeno la speranza di recuperare qualche dollaro per la nuova avventura.
Coloro che rimangono fanno parte di una popolazione demotivata, senza prospettive e incapace di credere in un futuro migliore. Sono la rappresentazione del territorio che li circonda: sospettosi e prudenti difendono all'estremo quei pochi beni di cui dispongono con circospezione.
Solo Pittsburgh sta vivendo una rinascita: sebbene la sua popolazione sia dimezzata rispetto ai floridi anni dell'industrializzazione selvaggia, ha puntato sulla sanità, sull'educazione, sulla tecnologia e il sistema bancario, diventando un simbolo della trasformazione industriale. Nominata "Smoke City", ai tempi dell'industria pesante, quando si accendevano le luci anche di giorno per rischiarare le strade ingolfate di pulviscolo e nebbia, ora è considerata un modello di progresso e rinnovamento. Ma la trasformazione si ferma alla prima periferia, gli altri sobborghi, sorti intorno alla città sono in balia di un declino che pare non aver fine.
HOMESTEAD – PENNSYLVANIA – Homestead, piccolo paese di circa 3000 abitanti, sorge a sole sei miglia da Pittsburgh, la ferrovia taglia in due il paese: a nord ovest il centro commerciale Waterfront è il parco giochi degli abitanti della metropoli, a sud la desolazione dei quartieri operai semi disabitati. Il centro commerciale, sorto sulle rovine della Homestead Steel Works, osserva divertito le dodici ciminiere davanti all'enorme parcheggio, è tutto ciò che rimane di un'industria che aveva 20.000 lavoratori durante la seconda guerra mondiale e parecchie migliaia fino agli anni '70. Due sole strade ingolfate dal traffico attraversano la ferrovia per collegare la parte sud del borgo. Al di là della strada ferrata il rinnovamento non è mai arrivato, le case che erano il rifugio degli operai sono vuote, semideserte o abbandonate. Si adagiano sulla collina prospiciente alla vecchia fabbrica osservando il parco acquatico e i concertini organizzati davanti ai negozi, così vicini in linea d'aria ma così distanti e separati da quella linea ferroviaria che si trasforma in una demarcazione logistica e sociale.
RANKIN – PENNSYLVANIA – A Rankin, sobborgo a otto miglia dalla città di Pittsburgh, è possibile visitare la vecchia Carrie Furnace. Gli abitanti del posto l'hanno trasformata in un luogo di memoria e cultura. Ogni fine settimana vengono organizzate delle escursioni guidate all'interno di ciò che un tempo era un'enorme bocca di fuoco. Eric racconta con enfasi i vari passaggi del processo produttivo, descrive con dovizia le particolarità e la professionalità dei lavoratori, ricorda ed elenca tutti i ponti di Pittsburgh costruiti e assemblati con le travi di acciaio speciale prodotte nella fornace Carrie. È troppo giovane per aver lavorato qui ma è emotivamente coinvolto, probabilmente la sua famiglia ha avuto una storia e un benessere prodotti da quest'industria. Ci si accorge della sua forte partecipazione quando comincia a elencare il numero di acciaierie ancora in funzione solo una ventina di anni fa, descrive la vita di decine di migliaia di persone che si recavano al posto di lavoro per poi affermare tristemente che l'unica fabbrica superstite si trova a un solo miglio e i lavoratori si contano in poche centinaia di unità.
BRADDOCK – PENNSYLVANIA – L'acciaieria di Braddock è sopravvissuta grazie alla modernizzazione, alla robotizzazione che preserva la produzione ma non i lavoratori. E proprio a un miglio di distanza, dopo aver superato il Rankin bridge che attraversa il fiume Monongahela, s'intravede il "mostro" fumante. Il fiume e le chiatte vuote adibite al trasporto del materiale fanno presagire un ridotto funzionamento dell'impianto. Tutto il paese si adagia sulla collina opposta, un'enorme agglomerato di case basse e fuligginose si addossano antistanti l'industria. Un tempo luogo di riposo dei lavoratori, oggi piattaforma di osservazione per la maggior parte dei residenti, che vive di espedienti e piccole attività saltuarie. L'aria è pesante, le case sono ricoperte di una leggera fuliggine, le ciminiere sputano in continuazione fumi nell'aria; ma la gente pare non accorgersene, tollerando il "piccolo disagio" pur di avere ancora qualche centinaio di buste paga assicurate. Il Sindaco John Fetterman è al suo secondo mandato, afferma che "Nessun altro luogo, oltre a Braddock, ha perso il 90% della popolazione a causa della deindustrializzazione". Da quando è stato eletto ha cercato in vari modi di migliorare l'abitabilità del suo paese incentivando la street art, ha dedicato i primi tre anni del suo mandato a ripristinare il verde pubblico e un campo da basket per l'attività sportiva dei giovani. Attraverso il Braddock Youth Project ha creato una fattoria urbana di quasi un ettaro d'estensione per la produzione di ortaggi. "Avere un luogo più pulito e sano non ha compensato il lavoro perso" ha commentato in un articolo di un giornale locale: una dimostrazione lampante di quanto sia ancora distante la fase di normalizzazione dell'intera area.
MCKEESPORT – PENNSYLVANIA – In altri posti il destino sembra ancora più infelice. A Mckeesport, cittadina di circa 20.000 abitanti, il degrado sembra non aver risparmiato nulla. Il centro cittadino è un insieme di negozi abbandonati. L'hotel Penn McKee con 100 camere per gli ospiti (chiuso nel marzo del 1980) sembra aspettare con impazienza la riapertura delle industrie poste nei suoi pressi, ma la vicina acciaieria US Steel National Tube Works è ferma, immota come tutte le altre fabbriche nei paraggi. Poco più in là, attraversando la Lysle Boulevard, s'incontra il palazzo del quotidiano cittadino: il Daily News, chiuso anch'esso il 31 dicembre del 2015. Nella sua ultima edizione scriveva che non ci sarebbe stato più nessuno a elencare i deceduti, tantomeno annunciare le nascite o i matrimoni. Con esso chiudeva un pezzo d'indiscrezione, il pettegolezzo frivolo e vitale per le piccole città che si sentono grandi. Anche il senso mistico e irrazionale degli americani ha messo il cartello di demolizione: la chiesa dell'Evangelical Congregation Church in Olive Street 409 sarà demolita a breve e il Tempio Massonico è un luogo di culto abbandonato che osserva stancamente i pochi abitanti che passano ai suoi piedi.
YOUNGSTOWN – OHIO – La cintura e la ruggine continuano, estendendosi da Pittsburgh nell'Ohio. Youngstown, la "città dell'acciaio", è ora un luogo dove la natura sta riprendendo i suoi spazi. I fondi del cosiddetto stimulus package (misure anticrisi varate dall'amministrazione Obama nel 2009) sono stati utilizzati per demolire parte delle case abbandonate e rifugio di "delinquenti" e vagabondi. Interi quartieri sono stati abbattuti o ridimensionati. Youngstown è a tutti gli effetti una città deindustrializzata, il tasso di povertà della sua popolazione si aggira intorno al 70%; nonostante ciò si nota un germoglio di speranza attivato dalla sua stessa crisi. Gli immobili rimasti sfitti o in vendita hanno raggiunto dei prezzi talmente bassi da attirare l'attenzione di una popolazione pioneristica che intende intraprendere una vita alternativa, meno competitiva e alienante. Negli ultimi anni si è riscontrata un'intensa attività di orti urbani sorti come avvicendamento a un sistema di lavoro e di vita basato sul mero consumo. Librerie autogestite offrono in prestito gratuito la cultura dei loro volumi e incoraggiano il book crossing, cioè lo scambio dei volumi come veicolo di aggregazione culturale. Secondo alcuni studiosi la degenerazione strutturale che ha attanagliato la Rust belt non potrà essere ridotta attraverso politiche di reindustrializzazione e ripopolamento, ma sperimentando una migliore gestione degli spazi e delle opportunità. Un'amministrazione comunale non potrà mantenere in ordine le strade di una città che conta 3000 abitanti ma che ha un'urbanizzazione di 20.000. I luoghi si devono ristrutturare, abbattere intere zone abbandonate, lasciare che la natura riprenda i suoi spazi e che le strutture urbane ritornino a dimensioni adatte alla loro popolazione. Il traguardo è distante, ma l'abbandono e lo sconforto non sono più le sole compagne di vita.
È proprio in queste terre del midwest che il motto del presidente Trump "Make America great again", durante la campagna elettorale del 2016, ha raggiunto l'obiettivo di battere la rivale Hilary Clinton. Sempre in Pennsylvania, ma molto più a est, nelle contee di Columbia e di Northumberland la popolazione, per gran parte impiegata nell'estrazione del carbone, ha visto un miglioramento delle proprie condizioni non tanto per qualche politica promessa e mai applicata, quanto per l'uscita dagli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici che hanno fatto innalzare il valore del minerale. Dopo più di cinque anni di continuo ribasso, toccando i 65 dollari a tonnellata nel 2015, è bastato l'annuncio del Presidente Trump per recuperare i 90-92 dollari.
Quando chiedo a Robert Shingara Jr, titolare della miniera sotterranea di carbone di Trevorton, se Trump ha realizzato qualcuna delle promesse elettorali, mi risponde candidamente: "No, non ha fatto attualmente nulla, ma nel 2020 voterò ancora per lui".
Le foto sottostanti sono parte di un reportage intitolato “La Periferia alle Porte” realizzato da Max Ferrero e Renata Busettini nella zona del Midwest statunitense detta Rust Belt (Cintura di ruggine) luogo dove un tempo la ricchezza era determinata dal lavoro nelle innumerevoli acciaierie ora quasi del tutto scomparse o abbandonate alla disoccupazione. Gli stessi autori sono in partenza per il secondo capitolo del reportage sugli USA di Trump per realizzare “La Frontiera alle Porte”, viaggio lungo il muro che divide il primo mondo degli USA dal resto dell’America meridionale. Il racconto si dipana attraverso dei semplici ritratti di persone comuni dei luoghi visitati.
Fonte
Quello appena proposto credo sia un contributo di grandissimo valore per comprendere le dinamiche sociali che hanno determinato i fenomeni politici degli ultimi anni (in una parola l'ondata populista) con cui, tanto la classe dirigente "liberale", quanto le compagini progressiste faticano a fare i conti e, in merito a queste ultime, intavolare un'azione che ambisca ad essere risolutiva seppur su tempi che non possono essere quelli istantanei con cui siamo ormai abituati a misurare ogni nostra azione.
Eppure il testo proposto, ma soprattutto le fotografie (per altro, davvero notevoli, segno che al netto dell'abuso di smartphone e dell'effettistica "fotocopia" applicata ad ogni scatto, la fotografia può ancora dare tantissimo all'arte) non lasciano spazio ad alcun fraintendimento: il rancore odierno delle popolazioni è il frutto dell'abbandono che hanno subito da parte di una classe politica votata alla tutela esclusiva di un modo di produzione che ha esaurito la fase in cui la generazione di ricchezza ricadeva, in parte, anche nelle tasche delle braccia di chi contribuiva materialmente a forgiarla.
Quei tempi, che gli USA hanno vissuto con largo anticipo – nel testo si fa riferimento a crisi che fanno data addirittura agli anni '60 con Cleveland andata in bancarotta addirittura nel 1978 – hanno lasciato macerie sociali e demografiche insanabili all'interno dei vigenti rapporti di produzione che, peraltro, si candidano ad esacerbare sempre più la situazione stante il vertiginoso sviluppo dell'automazione ormai applicabile ad ogni ambito produttivo compreso quello "mentale".
C'è dunque tanto da lavorare e imparare, soprattutto ora che quelle dinamiche stanno aprendo voragini anche alle nostre latitudini, magari scrostandosi dalla ricerca di soluzioni all'interno di categorie ormai del tutto ingessate. In questo senso l'arte (la musica in particolare) potrebbe rivelarsi una fonte ispirativa formidabile.
Viaggio fotografico in un vasto territorio degli USA che porta i segni di una crisi economica e demografica
GILBERTON – PENNSYLVANIA – La chiamano "Rust belt", la cintura di ruggine. È un territorio non perfettamente definito che abbraccia la zona nord-est degli Stati Uniti, partendo dai territori a ovest dello stato di New York, passando per i ricchi giacimenti di carbone della Pennsylvania fino a raggiungere i territori dei grandi laghi e le città industriali di Cleveland, nell'Ohio, e Detroit, nel Michigan. Dalle viscere della Pennsylvania si estraeva la forza motrice per la produzione: il carbone fossile era imbarcato in enormi chiatte che attraversavano i fiumi Monongahela e Allegheny. Pittsburgh e i suoi dintorni erano una distesa infinita di acciaierie attive di giorno e di notte. I fumi e gli scarti della lavorazione appestavano l'aria e le terre, ma la gente lavorava ed era felice di possedere un impiego e una precisa collocazione. Le navi e i carri armati che, nelle due guerre mondiali, hanno impedito il sopravvento degli Imperi Centrali prima e dei nazisti poi, sono state prodotte qui e in questo luogo gli Stati Uniti d'America si sono imposti come prima potenza economica mondiale.
Gilberton, Pennsylvania, © Max Ferrero |
Fino al termine degli anni '50 era il cuore pulsante della produttività made in USA, il suo soprannome era di ben altra fattura: "Manufactoring belt" o "Factory belt", la cintura industriale. Poi il lento declino, la delocalizzazione di alcune grandi industrie negli Stati del sud-ovest per sfruttare una mano d'opera dal minor costo e poi, con la stessa cinica imprenditorialità, una successiva dislocazione delle industrie pesanti nei paesi in via di sviluppo.
Ashland, Pennsylvania, © Max Ferrero |
ASHLAND – PENNSYLVANIA – Il declino industriale, iniziato negli anni '60, provocò effetti molteplici e concatenati: all'industria seguì la crisi dell'indotto, la mancanza di una qualsiasi politica di welfare obbligò alla fuga la popolazione meno agiata, le città cominciarono a spopolarsi, i comuni percepirono meno introiti dalle tasse e i servizi primari collassarono, spingendo anche la classe media a emigrare. Chiusero anche molti esercizi commerciali, persino la cultura diventò un lusso di cui si poteva fare a meno, nelle città e nei villaggi spopolati rimasero solo gli ultimi. Una popolazione che è ormai a preminenza latina e afroamericana, da sempre abituata a vivere ai margini. È una reazione a catena che ha portato città come Detroit, che nel 1950 contava 1.860.000 abitanti, a perdere oltre il 64% della sua popolazione, arrivando a contare nel 2015 solo 677.000 cittadini.
Il fenomeno non ha colpito solamente i grandi centri urbani, anche i piccoli borghi, sorti e prosperati con il ritmo della produzione dell'acciaio, sono delle "ghost town" che non hanno più nessuna somiglianza a ciò che rappresentavano mezzo secolo fa. Interi quartieri sono inesistenti, le case vengono abbattute dalle amministrazioni oppure trasferite direttamente dai vecchi abitanti in fuga. Molte altre sono abbandonate, lasciate al loro lento declino ai bordi di strade dissestate senza alcuna cura o manutenzione. Alcune abitazioni sono ricoveri di fortuna per poveri disperati che cercano riparo, i passati proprietari se ne sono andati in cerca di fortuna: la loro vecchia abitazione aveva perso valore così velocemente da non lasciar loro nemmeno la speranza di recuperare qualche dollaro per la nuova avventura.
Coloro che rimangono fanno parte di una popolazione demotivata, senza prospettive e incapace di credere in un futuro migliore. Sono la rappresentazione del territorio che li circonda: sospettosi e prudenti difendono all'estremo quei pochi beni di cui dispongono con circospezione.
Solo Pittsburgh sta vivendo una rinascita: sebbene la sua popolazione sia dimezzata rispetto ai floridi anni dell'industrializzazione selvaggia, ha puntato sulla sanità, sull'educazione, sulla tecnologia e il sistema bancario, diventando un simbolo della trasformazione industriale. Nominata "Smoke City", ai tempi dell'industria pesante, quando si accendevano le luci anche di giorno per rischiarare le strade ingolfate di pulviscolo e nebbia, ora è considerata un modello di progresso e rinnovamento. Ma la trasformazione si ferma alla prima periferia, gli altri sobborghi, sorti intorno alla città sono in balia di un declino che pare non aver fine.
Homestead, Pennsylvania, © Max Ferrero |
HOMESTEAD – PENNSYLVANIA – Homestead, piccolo paese di circa 3000 abitanti, sorge a sole sei miglia da Pittsburgh, la ferrovia taglia in due il paese: a nord ovest il centro commerciale Waterfront è il parco giochi degli abitanti della metropoli, a sud la desolazione dei quartieri operai semi disabitati. Il centro commerciale, sorto sulle rovine della Homestead Steel Works, osserva divertito le dodici ciminiere davanti all'enorme parcheggio, è tutto ciò che rimane di un'industria che aveva 20.000 lavoratori durante la seconda guerra mondiale e parecchie migliaia fino agli anni '70. Due sole strade ingolfate dal traffico attraversano la ferrovia per collegare la parte sud del borgo. Al di là della strada ferrata il rinnovamento non è mai arrivato, le case che erano il rifugio degli operai sono vuote, semideserte o abbandonate. Si adagiano sulla collina prospiciente alla vecchia fabbrica osservando il parco acquatico e i concertini organizzati davanti ai negozi, così vicini in linea d'aria ma così distanti e separati da quella linea ferroviaria che si trasforma in una demarcazione logistica e sociale.
Rankin, Pennsylvania, © Max Ferrero |
RANKIN – PENNSYLVANIA – A Rankin, sobborgo a otto miglia dalla città di Pittsburgh, è possibile visitare la vecchia Carrie Furnace. Gli abitanti del posto l'hanno trasformata in un luogo di memoria e cultura. Ogni fine settimana vengono organizzate delle escursioni guidate all'interno di ciò che un tempo era un'enorme bocca di fuoco. Eric racconta con enfasi i vari passaggi del processo produttivo, descrive con dovizia le particolarità e la professionalità dei lavoratori, ricorda ed elenca tutti i ponti di Pittsburgh costruiti e assemblati con le travi di acciaio speciale prodotte nella fornace Carrie. È troppo giovane per aver lavorato qui ma è emotivamente coinvolto, probabilmente la sua famiglia ha avuto una storia e un benessere prodotti da quest'industria. Ci si accorge della sua forte partecipazione quando comincia a elencare il numero di acciaierie ancora in funzione solo una ventina di anni fa, descrive la vita di decine di migliaia di persone che si recavano al posto di lavoro per poi affermare tristemente che l'unica fabbrica superstite si trova a un solo miglio e i lavoratori si contano in poche centinaia di unità.
Braddock, Pennsylvania, © Max Ferrero |
BRADDOCK – PENNSYLVANIA – L'acciaieria di Braddock è sopravvissuta grazie alla modernizzazione, alla robotizzazione che preserva la produzione ma non i lavoratori. E proprio a un miglio di distanza, dopo aver superato il Rankin bridge che attraversa il fiume Monongahela, s'intravede il "mostro" fumante. Il fiume e le chiatte vuote adibite al trasporto del materiale fanno presagire un ridotto funzionamento dell'impianto. Tutto il paese si adagia sulla collina opposta, un'enorme agglomerato di case basse e fuligginose si addossano antistanti l'industria. Un tempo luogo di riposo dei lavoratori, oggi piattaforma di osservazione per la maggior parte dei residenti, che vive di espedienti e piccole attività saltuarie. L'aria è pesante, le case sono ricoperte di una leggera fuliggine, le ciminiere sputano in continuazione fumi nell'aria; ma la gente pare non accorgersene, tollerando il "piccolo disagio" pur di avere ancora qualche centinaio di buste paga assicurate. Il Sindaco John Fetterman è al suo secondo mandato, afferma che "Nessun altro luogo, oltre a Braddock, ha perso il 90% della popolazione a causa della deindustrializzazione". Da quando è stato eletto ha cercato in vari modi di migliorare l'abitabilità del suo paese incentivando la street art, ha dedicato i primi tre anni del suo mandato a ripristinare il verde pubblico e un campo da basket per l'attività sportiva dei giovani. Attraverso il Braddock Youth Project ha creato una fattoria urbana di quasi un ettaro d'estensione per la produzione di ortaggi. "Avere un luogo più pulito e sano non ha compensato il lavoro perso" ha commentato in un articolo di un giornale locale: una dimostrazione lampante di quanto sia ancora distante la fase di normalizzazione dell'intera area.
Mckeesport, Pennsylvania, © Max Ferrero |
MCKEESPORT – PENNSYLVANIA – In altri posti il destino sembra ancora più infelice. A Mckeesport, cittadina di circa 20.000 abitanti, il degrado sembra non aver risparmiato nulla. Il centro cittadino è un insieme di negozi abbandonati. L'hotel Penn McKee con 100 camere per gli ospiti (chiuso nel marzo del 1980) sembra aspettare con impazienza la riapertura delle industrie poste nei suoi pressi, ma la vicina acciaieria US Steel National Tube Works è ferma, immota come tutte le altre fabbriche nei paraggi. Poco più in là, attraversando la Lysle Boulevard, s'incontra il palazzo del quotidiano cittadino: il Daily News, chiuso anch'esso il 31 dicembre del 2015. Nella sua ultima edizione scriveva che non ci sarebbe stato più nessuno a elencare i deceduti, tantomeno annunciare le nascite o i matrimoni. Con esso chiudeva un pezzo d'indiscrezione, il pettegolezzo frivolo e vitale per le piccole città che si sentono grandi. Anche il senso mistico e irrazionale degli americani ha messo il cartello di demolizione: la chiesa dell'Evangelical Congregation Church in Olive Street 409 sarà demolita a breve e il Tempio Massonico è un luogo di culto abbandonato che osserva stancamente i pochi abitanti che passano ai suoi piedi.
Youngstown, Ohio, foto © Max Ferrero |
YOUNGSTOWN – OHIO – La cintura e la ruggine continuano, estendendosi da Pittsburgh nell'Ohio. Youngstown, la "città dell'acciaio", è ora un luogo dove la natura sta riprendendo i suoi spazi. I fondi del cosiddetto stimulus package (misure anticrisi varate dall'amministrazione Obama nel 2009) sono stati utilizzati per demolire parte delle case abbandonate e rifugio di "delinquenti" e vagabondi. Interi quartieri sono stati abbattuti o ridimensionati. Youngstown è a tutti gli effetti una città deindustrializzata, il tasso di povertà della sua popolazione si aggira intorno al 70%; nonostante ciò si nota un germoglio di speranza attivato dalla sua stessa crisi. Gli immobili rimasti sfitti o in vendita hanno raggiunto dei prezzi talmente bassi da attirare l'attenzione di una popolazione pioneristica che intende intraprendere una vita alternativa, meno competitiva e alienante. Negli ultimi anni si è riscontrata un'intensa attività di orti urbani sorti come avvicendamento a un sistema di lavoro e di vita basato sul mero consumo. Librerie autogestite offrono in prestito gratuito la cultura dei loro volumi e incoraggiano il book crossing, cioè lo scambio dei volumi come veicolo di aggregazione culturale. Secondo alcuni studiosi la degenerazione strutturale che ha attanagliato la Rust belt non potrà essere ridotta attraverso politiche di reindustrializzazione e ripopolamento, ma sperimentando una migliore gestione degli spazi e delle opportunità. Un'amministrazione comunale non potrà mantenere in ordine le strade di una città che conta 3000 abitanti ma che ha un'urbanizzazione di 20.000. I luoghi si devono ristrutturare, abbattere intere zone abbandonate, lasciare che la natura riprenda i suoi spazi e che le strutture urbane ritornino a dimensioni adatte alla loro popolazione. Il traguardo è distante, ma l'abbandono e lo sconforto non sono più le sole compagne di vita.
È proprio in queste terre del midwest che il motto del presidente Trump "Make America great again", durante la campagna elettorale del 2016, ha raggiunto l'obiettivo di battere la rivale Hilary Clinton. Sempre in Pennsylvania, ma molto più a est, nelle contee di Columbia e di Northumberland la popolazione, per gran parte impiegata nell'estrazione del carbone, ha visto un miglioramento delle proprie condizioni non tanto per qualche politica promessa e mai applicata, quanto per l'uscita dagli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici che hanno fatto innalzare il valore del minerale. Dopo più di cinque anni di continuo ribasso, toccando i 65 dollari a tonnellata nel 2015, è bastato l'annuncio del Presidente Trump per recuperare i 90-92 dollari.
Quando chiedo a Robert Shingara Jr, titolare della miniera sotterranea di carbone di Trevorton, se Trump ha realizzato qualcuna delle promesse elettorali, mi risponde candidamente: "No, non ha fatto attualmente nulla, ma nel 2020 voterò ancora per lui".
Trevorton, Pennsylvania, © Max Ferrero |
Le foto sottostanti sono parte di un reportage intitolato “La Periferia alle Porte” realizzato da Max Ferrero e Renata Busettini nella zona del Midwest statunitense detta Rust Belt (Cintura di ruggine) luogo dove un tempo la ricchezza era determinata dal lavoro nelle innumerevoli acciaierie ora quasi del tutto scomparse o abbandonate alla disoccupazione. Gli stessi autori sono in partenza per il secondo capitolo del reportage sugli USA di Trump per realizzare “La Frontiera alle Porte”, viaggio lungo il muro che divide il primo mondo degli USA dal resto dell’America meridionale. Il racconto si dipana attraverso dei semplici ritratti di persone comuni dei luoghi visitati.
Trevorton - Pennsylvania (Max Ferrero) |
Trevorton - Pennsylvania (Renata Busettini) |
Clairton - Pennsylvania (Max Ferrero) |
Clairton - Pennsylvania (Renata Busettini) |
Aliquippa - Pennsylvania (Max Ferrero) |
Ashland - Pennsylvania (Renata Busettini) |
Mckeesport - Pennsylvania (Max Ferrero) |
Youngstown - Ohio (Max Ferrero) |
Detroit - Michigan (Renata Busettini) |
Fonte
Quello appena proposto credo sia un contributo di grandissimo valore per comprendere le dinamiche sociali che hanno determinato i fenomeni politici degli ultimi anni (in una parola l'ondata populista) con cui, tanto la classe dirigente "liberale", quanto le compagini progressiste faticano a fare i conti e, in merito a queste ultime, intavolare un'azione che ambisca ad essere risolutiva seppur su tempi che non possono essere quelli istantanei con cui siamo ormai abituati a misurare ogni nostra azione.
Eppure il testo proposto, ma soprattutto le fotografie (per altro, davvero notevoli, segno che al netto dell'abuso di smartphone e dell'effettistica "fotocopia" applicata ad ogni scatto, la fotografia può ancora dare tantissimo all'arte) non lasciano spazio ad alcun fraintendimento: il rancore odierno delle popolazioni è il frutto dell'abbandono che hanno subito da parte di una classe politica votata alla tutela esclusiva di un modo di produzione che ha esaurito la fase in cui la generazione di ricchezza ricadeva, in parte, anche nelle tasche delle braccia di chi contribuiva materialmente a forgiarla.
Quei tempi, che gli USA hanno vissuto con largo anticipo – nel testo si fa riferimento a crisi che fanno data addirittura agli anni '60 con Cleveland andata in bancarotta addirittura nel 1978 – hanno lasciato macerie sociali e demografiche insanabili all'interno dei vigenti rapporti di produzione che, peraltro, si candidano ad esacerbare sempre più la situazione stante il vertiginoso sviluppo dell'automazione ormai applicabile ad ogni ambito produttivo compreso quello "mentale".
C'è dunque tanto da lavorare e imparare, soprattutto ora che quelle dinamiche stanno aprendo voragini anche alle nostre latitudini, magari scrostandosi dalla ricerca di soluzioni all'interno di categorie ormai del tutto ingessate. In questo senso l'arte (la musica in particolare) potrebbe rivelarsi una fonte ispirativa formidabile.
Egitto - Il pugno di ferro di Al Sisi fa i conti con le crescenti proteste sociali
Un tribunale del Cairo ha condannato a morte 75 militanti islamisti fra cui alcuni dirigenti dei Fratelli Musulmani. I prigionieri sono accusati di aver partecipato ad una manifestazione nel 2013. Il 3 luglio del 2013 il generale Al Sisi aveva rovesciato con un golpe militare il governo di Mohamed Morsi, espressione dei Fratelli Musulmani. Si tratta del più alto numero di condanne alla pena capitale in un singolo processo.
Secondo la prassi egiziana, i giudici chiederanno il parere del gran mufti che dovrà confermare o meno le condanne; dopo che la massima autorità religiosa sunnita egiziana si sarà pronunciata i condannati potranno presentare appello.
Intanto nel paese crescono le proteste contro il presidente/generale Al Sisi. #Sisi vattene (#Sisi leave) è l’hashtag comparso nei giorni scorsi in rete per denunciare la situazione della crisi economica in Egitto da parte del presidente Abdel Fatah el Sisi, il quale si dice “irritato” dai post che hanno inondato la rete.
Le critiche online sono comparse a seguito dei forti aumenti dei prezzi di carburante, acqua ed elettricità come parte delle misure di austerità annunciate in obbedienza ai diktat del 2016 da parte del Fmi.
L’agenzia Nena News riporta che all’inizio di giugno il governo ha annunciato un incremento dei salari di 6,5 milioni di dipendenti pubblici del 10-15%, per introdurre poco dopo un aumento del costo del carburante del 60% e dell’energia elettrica del 26%. Ed è di sabato l’annuncio di un nuovo aumento: +75% nel costo del gas da cucina. Il tutto mentre i parlamentari egiziani si sono auto approvati, una settimana fa, il raddoppio di stipendio: il 100% in più per stipendi già alti, 2.530 dollari al mese.
Ma l’attuale capo dello Stato non ci sta e alle critiche ha reagito intervenendo in diretta televisiva, definendo le critiche “inappropriate” e sottolineando che ha lavorato duramente per tirare l’Egitto fuori dalla crisi economica. “Ci hanno spinto a diventare una nazione povera, una nazione di bisogno, ma quando inizio a lavorare per tirarci fuori da questa situazione, trovo l’hashtag #Sisi vattene. “Dovrei essere arrabbiato o no? Lo sono”, ha detto Al Sisi. E quando il generale è arrabbiato...
Fonte
Secondo la prassi egiziana, i giudici chiederanno il parere del gran mufti che dovrà confermare o meno le condanne; dopo che la massima autorità religiosa sunnita egiziana si sarà pronunciata i condannati potranno presentare appello.
Intanto nel paese crescono le proteste contro il presidente/generale Al Sisi. #Sisi vattene (#Sisi leave) è l’hashtag comparso nei giorni scorsi in rete per denunciare la situazione della crisi economica in Egitto da parte del presidente Abdel Fatah el Sisi, il quale si dice “irritato” dai post che hanno inondato la rete.
Le critiche online sono comparse a seguito dei forti aumenti dei prezzi di carburante, acqua ed elettricità come parte delle misure di austerità annunciate in obbedienza ai diktat del 2016 da parte del Fmi.
L’agenzia Nena News riporta che all’inizio di giugno il governo ha annunciato un incremento dei salari di 6,5 milioni di dipendenti pubblici del 10-15%, per introdurre poco dopo un aumento del costo del carburante del 60% e dell’energia elettrica del 26%. Ed è di sabato l’annuncio di un nuovo aumento: +75% nel costo del gas da cucina. Il tutto mentre i parlamentari egiziani si sono auto approvati, una settimana fa, il raddoppio di stipendio: il 100% in più per stipendi già alti, 2.530 dollari al mese.
Ma l’attuale capo dello Stato non ci sta e alle critiche ha reagito intervenendo in diretta televisiva, definendo le critiche “inappropriate” e sottolineando che ha lavorato duramente per tirare l’Egitto fuori dalla crisi economica. “Ci hanno spinto a diventare una nazione povera, una nazione di bisogno, ma quando inizio a lavorare per tirarci fuori da questa situazione, trovo l’hashtag #Sisi vattene. “Dovrei essere arrabbiato o no? Lo sono”, ha detto Al Sisi. E quando il generale è arrabbiato...
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Nicaragua: le lezioni di una rivolta
Tutto è iniziato il 16 aprile, in occasione dell’emanazione del decreto Presidenziale di riforma dell’INSS, l’Istituto di Previdenza Sociale che in Nicaragua si occupa sia del settore pensionistico sia di quello previdenziale.
Questo provvedimento legislativo d’urgenza, deciso ed emesso senza alcuna consultazione delle parti sociali stabiliva che “i pensionati di vecchiaia, invalidità e incapacità daranno un apporto mensile del 5% dell’ammontare delle proprie pensioni a favore del Ramo Malattia e Morte”[1], oltre ad un aumento dei contributi a carico sia dei lavoratori che dei datori di lavoro e alla riduzione del tetto dell’importo pensionistico dall’80% al 70% della media salariale degli ultimi anni. Provvedimento peraltro dettato da specifico documento del Fondo Monetario Internazionale emesso nell’estate del 2017.
Si tenga presente che in Nicaragua il PIL procapite è di 5.500 cordoba mensili (circa 180 dollari) a fronte di un paniere di base di 13.392 cordoba, quindi la maggioranza dei nicaraguensi non dispone di un reddito sufficiente per garantirsi i beni fondamentali.
Le manifestazioni contro la riforma, scoppiate il giorno successivo sono degenerate in violenti scontri, che ad oggi hanno provocato circa 300 morti, tra i dimostranti da un lato e polizia e giovani filogovernativi dall’altro. L’elemento scatenante delle violenze è stato l’intervento di questi ultimi, che hanno deriso, provocato e aggredito i manifestanti, tra i quali molti anziani, causando la reazione dei giovani universitari e della popolazione in generale.
Per cancellare ogni dubbio su questa interpretazione dei fatti basta rivedere l’intervista rilasciata in quei giorni da Humberto Ortega, non certo sospettabile di complottismo essendo il fondatore dell’esercito sandinista e fratello del presidente: Humberto Ortega faceva appello al governo perché sul contenuto della riforma si riprendesse la prassi della trattativa tripartita (ossia governo-imprenditori e sindacati) e si arrivasse ad un consenso di tutti le parti in causa, evitando quelle decisioni verticistiche che avevano provocato le proteste. “È stato legittimo dunque – continuava Humberto Ortega – che la popolazione manifestasse, e la polizia deve svolgere il suo ruolo, che non è quello di reprimere la protesta, ma di garantire che i dimostranti vengano rispettati e che rispettino i diritti degli altri. E la polizia deve assicurare che non arrivi gente in moto, com’è successo ieri, armata con bastoni e spranghe di ferro, ad aggredire i manifestanti”.
A chi ritiene che questa improvvisa esplosione di manifestazioni di piazza sia la prova di un piano prestabilito bisogna ricordare che in Nicaragua le proteste anche violente sono ricorrenti. Basta guardare gli scontri avvenuti l’anno scorso nella località di Mina el Limón tra dimostranti e polizia, delle quali si trova in Youtube abbondante documentazione video.
E bisogna rilevare che in Nicaragua covava da tempo sotto la cenere un malcontento popolare profondo e generalizzato contro il governo della coppia Ortega-Murillo, nonostante l’ampio consenso ottenuto dal partito di governo alle ultime elezioni del 2016 (72%).
Certo, è difficile parlare di regime in senso “tecnico” per uno schieramento che ha raggiunto un risultato così netto, ma per inquadrare meglio la situazione è bene fare un breve riassunto delle vicende politiche del Nicaragua degli ultimi anni.
Nel 2016 Daniel Ortega si è riconfermato per la terza volta consecutiva alla guida del Paese dopo il 2006 e il 2011.
I sandinisti avevano governato il Paese dopo la liberazione dalla dittatura di Somoza (19 luglio 1979) e Ortega aveva già ricoperto la carica di presidente fra il 1985 e il 1990. Nel 1988 furono firmati gli accordi di pace che conclusero la guerra civile, e due anni dopo la destra vinse le elezioni e i sandinisti passarono all’opposizione, con il Paese dissanguato dall’aggressione controrivoluzionaria promossa dagli USA.
Il periodo della destra si caratterizzò per un estremo neoliberismo, con privatizzazioni di tutti i settori strategici del Paese, e una forte corruzione.
Nel 2006 la coalizione di Daniel Ortega tornò di nuovo al potere sconfiggendo la destra e ottenendo anche dei risultati interessanti dal punto di vista macroeconomico e sociale: tra il 2006 e il 2013 il Pil pro capite crebbe di quasi il 50% e la povertà crollò dal 48.3% al 29.6%. Tendenza questa, comune a tutti i paesi latinoamericani dall’inizio del nuovo millennio.
Ma il “Sandinismo 2.0”, vale a dire la nuova stagione di Ortega alla presidenza, aveva ben poco da spartire con quello del periodo rivoluzionario.
Daniel Ortega aveva ricercato innanzitutto il consenso della Chiesa cattolica locale, riscoprendo la fede religiosa. Ortega e l’attuale vicepresidente Rosario Murillo si sposarono in chiesa nel 2005 e promossero una legge contro l’aborto terapeutico, per riconciliarsi con uno dei nemici storici del sandinismo, l’ultrareazionario cardinale Miguel Obando y Bravo.
Ortega era anche riuscito a neutralizzare un pesantissimo scandalo a sfondo sessuale scoppiato nel 1998, quando la figlia di Rosario Murillo, Zoilamérica, l’aveva accusato di averla violentata ripetutamente fin dalla fine degli anni ’70. La denuncia cadde nel vuoto grazie alla presa di posizione della madre che difese a spada tratta il marito: “Ho provato una terribile vergogna per il fatto che si volesse distruggere una persona con un curriculum senza macchia, e che fosse la mia stessa figlia a volerla distruggere per questa ossessione e innamoramento morboso con il potere quando non ha visto soddisfatta la sua ambizione”. A seguito di questo episodio la Murillo si guadagnò una rendita di posizione colossale nel sistema di potere nicaraguense.
Rosario Murillo e gli alberi della vita
Rosario Murillo, “la Chayo” è nata a Managua nel 1951 e proviene da una famiglia agiata. È figlia di Zoilamérica Zambrana Sandino, nipote dell’eroe nazionale Augusto Cesar Sandino.
Quale oppositrice del dittatore Somoza, nel 1977 fu costretta all’esilio, prima a Panama e in Venezuela, poi in Costa Rica dove cominciò a militare per il Fronte Sandinista. Fu in quel periodo che si rafforzò la relazione con Daniel Ortega.
Oggi viene considerata la vera presidente del Paese ed è soprannominata “La Strega” per la passione per la religione, le scienze occulte e la spiritualità.
Nel discorso politico di Murillo gli eroi della rivoluzione sono diventati santi mentre Dio e la Madonna sono sempre presenti, a ribadire continuamente la vocazione religiosa del governo nicaraguense. L’originaria Teologia della Liberazione che aveva ispirato la rivoluzione sandinista è stata così sostituita da una specie di “santeria” a metà tra la religiosità reazionaria e la superstizione. Una delle sue iniziative più vistose è stata quella di installare nelle strade principali di Managua e di altre città del Paese centinaia di “árboles de la vida” per allontanare il malocchio e attirare energia positiva. Gli alberi, che la gente chiama “arbolatas” [alberi di latta] o “chayopalos” [pali della Chayo] costano circa 20-30mila euro ciascuno e sono gigantesche strutture metalliche alte tra i 15 e i 20 metri, a colori vivaci e pieni di luci elettriche. I chayopalos, i più odiati simboli del potere personale della Murillo, sono stati le prime vittime delle manifestazioni di questi mesi.
Un mese dopo l’inizio dell’instabilità, Rosario Murillo ha dichiarato che nel Paese c’era un’invasione di “spiriti maligni” e ha pregato Dio di far cessare “questa mano diabolica che si muove nel nostro Paese e che nega la vita”.
Alleanze sottobanco
In questi anni “sotto un apparente discorso antimperialista – scrive il quotidiano progressista messicano la Jornada – il FSLN ha portato avanti la sua politica mascherando un’alleanza con la destra, ex alleati de Somoza e il capitale transnazionale. Le politiche neoliberiste sono state la controparte di un’alleanza spuria di Daniel Ortega con l’ex presidente di destra Arnoldo Alemán, il cui obiettivo è stato quello di spiazzare gli oppositori e configurare nuove relazioni di potere. È stata modificata la costituzione e si sono fatte concessioni alla Chiesa, agli imprenditori, al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale. Tutto sotto una presunta calma”.
Questa politica poco trasparente ha provocato l’allontanamento pressoché totale della vecchia guardia sandinista: “dei nove comandanti della Direzione Nazionale del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN) che ha guidato il destino del Nicaragua tra il 1979 e il 1990, solo uno fa parte dell’attuale governo dell’ex comandante e Presidente Daniel Ortega: Bayardo Arce, che è consigliere economico della presidenza. Degli altri, due sono morti, tre sono critici con il governo e gli altri due “indifferenti”.
Ernesto Cardenal, protagonista della Teologia della Liberazione e ministro dopo la vittoria contro la dittatura di Somoza, ha scritto in questi giorni all’ex Presidente uruguayano Pepe Mujica per far sapere ai progressisti del mondo quello che succede in Nicaragua. Le sue parole sono lapidarie: “Ortega e Murillo non possono continuare a trovare legittimità nei movimenti di sinistra, quelli che con le loro azioni senza scrupoli hanno tradito. Le vittime di Ortega e Murillo meritano giustizia”.
La risposta dell’ex guerrigliero Mujica non poteva essere più netta: “Ricordo compagni che hanno dato la vita in Nicaragua lottando per un sogno (...) e sento che quello che una volta fu un sogno oggi si trasforma e cade nell’autocrazia, e capisco che coloro che ieri erano rivoluzionari hanno perso il senso della vita. Ci sono momenti in cui bisogna dire me ne vado”.
Rodrigo Rivas, intellettuale cileno e oppositore della dittatura di Pinochet, scrive: “Le politiche di Ortega mi sembrano indubbiamente neoliberiste in campo economico e soprattutto subordinate al pensiero conservatore e reazionario riguardo le forme della politica e del rapporto Stato-popolazione. Se questo è lo scopo di una rivoluzione, allora preferisco altro”. In sintesi, come scrive Pagayo Matacuras, “il Nicaragua del 1978, quello di Somoza, era il secondo paese più povero del continente, oggi è ancora il secondo paese più povero del continente. Nonostante l’aiuto milionario che ha dato il Venezuela: un milione di dollari al giorno dal 2007 al 2016”. Oltre a non aver portato a termine una riforma agraria degna di questo nome e non aver dato impulso ai servizi pubblici (ad esempio l’assistenza sanitaria è di qualità scadente e chi ne ha le possibilità deve ricorrere al settore privato, nel quale pure sembra che vi siano investimenti dell’entourage governativo) il governo di Ortega-Murillo ha destato molto malcontento anche per la corruzione generalizzata, il nepotismo, il clientelismo e lo strapotere della vicepresidente con le sue iniziative bizzarre.
Nepotismo e clientelismo
Rafael Ortega, il figlio maggiore, controlla con la moglie Yarida Leets la Distribuidora Nicaragüense de Petróleo, un organismo chiave che gestisce gli acquisti del greggio venezuelano a prezzi scontati nell’ambito del programma Petrocaribe.
Un altro figlio di Ortega e Murillo che occupa un posto al vertice è Laureano, che dal 2009 gestisce ProNicaragua, l’ente che ha trattato con l’imprenditore cinese Wang Ying la costruzione del canale [transoceanico] del Nicaragua. Il progetto (che comporta un impatto ambientale devastante) prevede un investimento di 40 miliardi di dollari, ma nessuno può assicurare che verrà costruito da qui al 2025. Laureano è un gran personaggio in Nicaragua ed è noto per i suoi orologi di marca e vestiti eleganti. Inoltre è un tenore, con un’attiva partecipazione nel settore della lirica locale.
Ma ci sono altri figli di Daniel Ortega in posti importanti. È il caso di Maurice, che insieme ai suoi fratelli Daniel Edmundo e Carlos Enrique controllano tre canali privati di televisione (4,9 e 13), oltre a Canal 6, che è pubblico. La famiglia Ortega gestisce anche la Nuova Radio Ya, Radio Nicaragua e Radio Sandino.
E perché tutto rimanga in famiglia, nel 2010 Maurice si è sposato con Blanca Javiera Díaz, figlia del capo della Sicurezza Pubblica e vice direttore della Polizia Nazionale, Francisco Díaz. Hoy, Díaz occupa la Direzione della Polizia di Managua.
A sua volta, Juan Carlos Ortega Murillo, un altro dei figli della coppia presidenziale, controlla Canal 8.
Inoltre nel settore pubblico non vi è un solo posto che non venga assegnato per meriti politici.
E per le strade la gente grida “Daniel y Somoza son la misma cosa”...
Conclusioni
Il già citato Rodrigo Rivas scrive “Tra quelli che denunciano da tempo Ortega c’è tutto il Pantheon dei miei riferimenti intellettuali nicaraguensi. Ci sono anche molti latinoamericani che conosco e stimo, che hanno combattuto in Nicaragua (cileni e argentini in particolare) che non hanno dubbi: tutti contro Ortega”.
Ma in Italia non tutti condividono questa visione... “È un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Questa famosa citazione viene attribuita a vari presidenti statunitensi a proposito di diversi “figli di puttana”, cioè qualcuno tra i tanti dittatori-fantoccio che gli USA nel corso della storia hanno messo al potere in qualche loro colonia nel sud del mondo. Ma secondo la versione più accreditata sarebbe stato Roosevelt ad usare per la prima volta questa espressione proprio in riferimento al Nicaragua, parlando di Anastasio Somoza García, il dittatore che salì al potere nel 1937 e “regnò” fino al 1956, quando fu ucciso dal poeta Rigoberto López Pérez.
Questa frase è tornata alla mente di molti in questi mesi, ma in senso opposto rispetto alla formulazione originale. Da parte di alcuni settori che potremmo definire “filobolivariani” vi sono stati interventi di sostegno acritico alla coppia presidenziale nicaraguense (vedi per esempio i comunicati dell’Associazione nazionale Italia-Cuba o di Rifondazione Comunista).
Alcuni articoli e prese di posizione sono usciti addirittura su siti piuttosto ambigui, evidenziando un inquietante convergenza tra un antimperialismo di sinistra e quello tipico dell’estrema destra che vede il nemico solo in chiave anti-americana e anti-sionista (l’impero giudaico-massonico) e sostiene qualsiasi governo che sia al di fuori della sfera d’influenza statunitense (va bene il Venezuela e il Nicaragua ma vanno bene anche l’Iran degli ayatollah, la Siria di Assad o la Russia di Putin).
In questa visione tutta incentrata su una “geopolitica deviata”, dove contano solo gli equilibri tra Stati e governi anziché i popoli, il Nicaragua di Ortega nella scacchiera internazionale rappresenta una pedina dello schieramento “antimperialista” e quindi va sostenuto indipendentemente dalla vera natura del suo attuale governo. Del resto chi parla dell’Iran come di un Paese libero e pacifico di pelo sullo stomaco ne deve avere a quintali.
Così nella generalizzazione dietrologica tutte le vacche sono bigie: tutti i movimenti popolari nei Paesi del proprio schieramento devono essere descritti come frutto di agitatori pagati e di complotti orditi dalla CIA. Complotti che in Nicaragua sarebbero anche inspiegabili come sottolinea Pagayo Matacuras “Nel paese vivono e fanno affari lucrosi molti imprenditori gringos, grazie alle leggi in vigore e alla protezione governativa, che in questi anni hanno avuto la possibilità di arricchirsi sfruttando i lavoratori con stipendi non sufficienti per mettere insieme il pranzo con la cena e con condizioni lavorative assolutamente pessime”.
E sarebbe interessante capire come mai a Cuba, il Paese dove forse più di ogni altro gli Stati Uniti hanno scatenato una strategia terroristica di destabilizzazione e cercato di creare una opposizione interna, manifestazioni di massa antigovernative non ce ne siano mai state.
Sempre a proposito di Cuba, è singolare che in Italia negli incontri pubblici non si possa mai discutere con serenità delle interessanti prospettive del socialismo del dopo Fidel (così come lo si fa normalmente con i cubani) senza che intervenga un qualche “commissario del popolo” a censurare la discussione.
Eppure l’esperienza progressista latinoamericana, che oggi sta attraversando una profonda crisi, rappresenta per la sinistra europea un laboratorio imprescindibile per delineare anche le proprie strategie. E l’indubbia lezione che se ne trae in questo momento è che il futuro del “socialismo del XXI secolo” è in mano ai movimenti popolari, contadini e indigeni e non certo ai governi che a causa della controffensiva delle destre e dell’imperialismo statunitense, ma anche per errori limiti propri, risulta in chiara fase declinante dalla fine del 2015.
In Nicaragua la situazione è estremamente delicata: si rischia che l’assenza di alternative credibili a Ortega-Murillo e la prolungata instabilità affondino il Paese nella violenza endemica e nella paralisi politica che vivono i Paesi confinanti, in particolare l’Honduras, e che alla fine emerga una soluzione apertamente golpista. Anche per questo il sostegno internazionale al popolo nicaraguense è fondamentale perché dalla crisi si esca con un ritorno ai valori del vero sandinismo.
Realizzato in collaborazione tra:
Redazione pisana di Lotta Continua
Nello Gradirà per Senzasoste
28 luglio 2018
Fonte
Questo provvedimento legislativo d’urgenza, deciso ed emesso senza alcuna consultazione delle parti sociali stabiliva che “i pensionati di vecchiaia, invalidità e incapacità daranno un apporto mensile del 5% dell’ammontare delle proprie pensioni a favore del Ramo Malattia e Morte”[1], oltre ad un aumento dei contributi a carico sia dei lavoratori che dei datori di lavoro e alla riduzione del tetto dell’importo pensionistico dall’80% al 70% della media salariale degli ultimi anni. Provvedimento peraltro dettato da specifico documento del Fondo Monetario Internazionale emesso nell’estate del 2017.
Si tenga presente che in Nicaragua il PIL procapite è di 5.500 cordoba mensili (circa 180 dollari) a fronte di un paniere di base di 13.392 cordoba, quindi la maggioranza dei nicaraguensi non dispone di un reddito sufficiente per garantirsi i beni fondamentali.
Le manifestazioni contro la riforma, scoppiate il giorno successivo sono degenerate in violenti scontri, che ad oggi hanno provocato circa 300 morti, tra i dimostranti da un lato e polizia e giovani filogovernativi dall’altro. L’elemento scatenante delle violenze è stato l’intervento di questi ultimi, che hanno deriso, provocato e aggredito i manifestanti, tra i quali molti anziani, causando la reazione dei giovani universitari e della popolazione in generale.
Per cancellare ogni dubbio su questa interpretazione dei fatti basta rivedere l’intervista rilasciata in quei giorni da Humberto Ortega, non certo sospettabile di complottismo essendo il fondatore dell’esercito sandinista e fratello del presidente: Humberto Ortega faceva appello al governo perché sul contenuto della riforma si riprendesse la prassi della trattativa tripartita (ossia governo-imprenditori e sindacati) e si arrivasse ad un consenso di tutti le parti in causa, evitando quelle decisioni verticistiche che avevano provocato le proteste. “È stato legittimo dunque – continuava Humberto Ortega – che la popolazione manifestasse, e la polizia deve svolgere il suo ruolo, che non è quello di reprimere la protesta, ma di garantire che i dimostranti vengano rispettati e che rispettino i diritti degli altri. E la polizia deve assicurare che non arrivi gente in moto, com’è successo ieri, armata con bastoni e spranghe di ferro, ad aggredire i manifestanti”.
A chi ritiene che questa improvvisa esplosione di manifestazioni di piazza sia la prova di un piano prestabilito bisogna ricordare che in Nicaragua le proteste anche violente sono ricorrenti. Basta guardare gli scontri avvenuti l’anno scorso nella località di Mina el Limón tra dimostranti e polizia, delle quali si trova in Youtube abbondante documentazione video.
E bisogna rilevare che in Nicaragua covava da tempo sotto la cenere un malcontento popolare profondo e generalizzato contro il governo della coppia Ortega-Murillo, nonostante l’ampio consenso ottenuto dal partito di governo alle ultime elezioni del 2016 (72%).
Certo, è difficile parlare di regime in senso “tecnico” per uno schieramento che ha raggiunto un risultato così netto, ma per inquadrare meglio la situazione è bene fare un breve riassunto delle vicende politiche del Nicaragua degli ultimi anni.
Nel 2016 Daniel Ortega si è riconfermato per la terza volta consecutiva alla guida del Paese dopo il 2006 e il 2011.
I sandinisti avevano governato il Paese dopo la liberazione dalla dittatura di Somoza (19 luglio 1979) e Ortega aveva già ricoperto la carica di presidente fra il 1985 e il 1990. Nel 1988 furono firmati gli accordi di pace che conclusero la guerra civile, e due anni dopo la destra vinse le elezioni e i sandinisti passarono all’opposizione, con il Paese dissanguato dall’aggressione controrivoluzionaria promossa dagli USA.
Il periodo della destra si caratterizzò per un estremo neoliberismo, con privatizzazioni di tutti i settori strategici del Paese, e una forte corruzione.
Nel 2006 la coalizione di Daniel Ortega tornò di nuovo al potere sconfiggendo la destra e ottenendo anche dei risultati interessanti dal punto di vista macroeconomico e sociale: tra il 2006 e il 2013 il Pil pro capite crebbe di quasi il 50% e la povertà crollò dal 48.3% al 29.6%. Tendenza questa, comune a tutti i paesi latinoamericani dall’inizio del nuovo millennio.
Grafico: povertà in alcuni paesi latinoamericani e nell’intero sub continente periodo 2000-2010 (Fonte Cepal)
Ma il “Sandinismo 2.0”, vale a dire la nuova stagione di Ortega alla presidenza, aveva ben poco da spartire con quello del periodo rivoluzionario.
Daniel Ortega aveva ricercato innanzitutto il consenso della Chiesa cattolica locale, riscoprendo la fede religiosa. Ortega e l’attuale vicepresidente Rosario Murillo si sposarono in chiesa nel 2005 e promossero una legge contro l’aborto terapeutico, per riconciliarsi con uno dei nemici storici del sandinismo, l’ultrareazionario cardinale Miguel Obando y Bravo.
Ortega era anche riuscito a neutralizzare un pesantissimo scandalo a sfondo sessuale scoppiato nel 1998, quando la figlia di Rosario Murillo, Zoilamérica, l’aveva accusato di averla violentata ripetutamente fin dalla fine degli anni ’70. La denuncia cadde nel vuoto grazie alla presa di posizione della madre che difese a spada tratta il marito: “Ho provato una terribile vergogna per il fatto che si volesse distruggere una persona con un curriculum senza macchia, e che fosse la mia stessa figlia a volerla distruggere per questa ossessione e innamoramento morboso con il potere quando non ha visto soddisfatta la sua ambizione”. A seguito di questo episodio la Murillo si guadagnò una rendita di posizione colossale nel sistema di potere nicaraguense.
Rosario Murillo e gli alberi della vita
Rosario Murillo, “la Chayo” è nata a Managua nel 1951 e proviene da una famiglia agiata. È figlia di Zoilamérica Zambrana Sandino, nipote dell’eroe nazionale Augusto Cesar Sandino.
Quale oppositrice del dittatore Somoza, nel 1977 fu costretta all’esilio, prima a Panama e in Venezuela, poi in Costa Rica dove cominciò a militare per il Fronte Sandinista. Fu in quel periodo che si rafforzò la relazione con Daniel Ortega.
Oggi viene considerata la vera presidente del Paese ed è soprannominata “La Strega” per la passione per la religione, le scienze occulte e la spiritualità.
Nel discorso politico di Murillo gli eroi della rivoluzione sono diventati santi mentre Dio e la Madonna sono sempre presenti, a ribadire continuamente la vocazione religiosa del governo nicaraguense. L’originaria Teologia della Liberazione che aveva ispirato la rivoluzione sandinista è stata così sostituita da una specie di “santeria” a metà tra la religiosità reazionaria e la superstizione. Una delle sue iniziative più vistose è stata quella di installare nelle strade principali di Managua e di altre città del Paese centinaia di “árboles de la vida” per allontanare il malocchio e attirare energia positiva. Gli alberi, che la gente chiama “arbolatas” [alberi di latta] o “chayopalos” [pali della Chayo] costano circa 20-30mila euro ciascuno e sono gigantesche strutture metalliche alte tra i 15 e i 20 metri, a colori vivaci e pieni di luci elettriche. I chayopalos, i più odiati simboli del potere personale della Murillo, sono stati le prime vittime delle manifestazioni di questi mesi.
Un mese dopo l’inizio dell’instabilità, Rosario Murillo ha dichiarato che nel Paese c’era un’invasione di “spiriti maligni” e ha pregato Dio di far cessare “questa mano diabolica che si muove nel nostro Paese e che nega la vita”.
Alleanze sottobanco
In questi anni “sotto un apparente discorso antimperialista – scrive il quotidiano progressista messicano la Jornada – il FSLN ha portato avanti la sua politica mascherando un’alleanza con la destra, ex alleati de Somoza e il capitale transnazionale. Le politiche neoliberiste sono state la controparte di un’alleanza spuria di Daniel Ortega con l’ex presidente di destra Arnoldo Alemán, il cui obiettivo è stato quello di spiazzare gli oppositori e configurare nuove relazioni di potere. È stata modificata la costituzione e si sono fatte concessioni alla Chiesa, agli imprenditori, al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale. Tutto sotto una presunta calma”.
Questa politica poco trasparente ha provocato l’allontanamento pressoché totale della vecchia guardia sandinista: “dei nove comandanti della Direzione Nazionale del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN) che ha guidato il destino del Nicaragua tra il 1979 e il 1990, solo uno fa parte dell’attuale governo dell’ex comandante e Presidente Daniel Ortega: Bayardo Arce, che è consigliere economico della presidenza. Degli altri, due sono morti, tre sono critici con il governo e gli altri due “indifferenti”.
Ernesto Cardenal, protagonista della Teologia della Liberazione e ministro dopo la vittoria contro la dittatura di Somoza, ha scritto in questi giorni all’ex Presidente uruguayano Pepe Mujica per far sapere ai progressisti del mondo quello che succede in Nicaragua. Le sue parole sono lapidarie: “Ortega e Murillo non possono continuare a trovare legittimità nei movimenti di sinistra, quelli che con le loro azioni senza scrupoli hanno tradito. Le vittime di Ortega e Murillo meritano giustizia”.
La risposta dell’ex guerrigliero Mujica non poteva essere più netta: “Ricordo compagni che hanno dato la vita in Nicaragua lottando per un sogno (...) e sento che quello che una volta fu un sogno oggi si trasforma e cade nell’autocrazia, e capisco che coloro che ieri erano rivoluzionari hanno perso il senso della vita. Ci sono momenti in cui bisogna dire me ne vado”.
Rodrigo Rivas, intellettuale cileno e oppositore della dittatura di Pinochet, scrive: “Le politiche di Ortega mi sembrano indubbiamente neoliberiste in campo economico e soprattutto subordinate al pensiero conservatore e reazionario riguardo le forme della politica e del rapporto Stato-popolazione. Se questo è lo scopo di una rivoluzione, allora preferisco altro”. In sintesi, come scrive Pagayo Matacuras, “il Nicaragua del 1978, quello di Somoza, era il secondo paese più povero del continente, oggi è ancora il secondo paese più povero del continente. Nonostante l’aiuto milionario che ha dato il Venezuela: un milione di dollari al giorno dal 2007 al 2016”. Oltre a non aver portato a termine una riforma agraria degna di questo nome e non aver dato impulso ai servizi pubblici (ad esempio l’assistenza sanitaria è di qualità scadente e chi ne ha le possibilità deve ricorrere al settore privato, nel quale pure sembra che vi siano investimenti dell’entourage governativo) il governo di Ortega-Murillo ha destato molto malcontento anche per la corruzione generalizzata, il nepotismo, il clientelismo e lo strapotere della vicepresidente con le sue iniziative bizzarre.
Nepotismo e clientelismo
Rafael Ortega, il figlio maggiore, controlla con la moglie Yarida Leets la Distribuidora Nicaragüense de Petróleo, un organismo chiave che gestisce gli acquisti del greggio venezuelano a prezzi scontati nell’ambito del programma Petrocaribe.
Un altro figlio di Ortega e Murillo che occupa un posto al vertice è Laureano, che dal 2009 gestisce ProNicaragua, l’ente che ha trattato con l’imprenditore cinese Wang Ying la costruzione del canale [transoceanico] del Nicaragua. Il progetto (che comporta un impatto ambientale devastante) prevede un investimento di 40 miliardi di dollari, ma nessuno può assicurare che verrà costruito da qui al 2025. Laureano è un gran personaggio in Nicaragua ed è noto per i suoi orologi di marca e vestiti eleganti. Inoltre è un tenore, con un’attiva partecipazione nel settore della lirica locale.
Ma ci sono altri figli di Daniel Ortega in posti importanti. È il caso di Maurice, che insieme ai suoi fratelli Daniel Edmundo e Carlos Enrique controllano tre canali privati di televisione (4,9 e 13), oltre a Canal 6, che è pubblico. La famiglia Ortega gestisce anche la Nuova Radio Ya, Radio Nicaragua e Radio Sandino.
E perché tutto rimanga in famiglia, nel 2010 Maurice si è sposato con Blanca Javiera Díaz, figlia del capo della Sicurezza Pubblica e vice direttore della Polizia Nazionale, Francisco Díaz. Hoy, Díaz occupa la Direzione della Polizia di Managua.
A sua volta, Juan Carlos Ortega Murillo, un altro dei figli della coppia presidenziale, controlla Canal 8.
Inoltre nel settore pubblico non vi è un solo posto che non venga assegnato per meriti politici.
E per le strade la gente grida “Daniel y Somoza son la misma cosa”...
Conclusioni
Il già citato Rodrigo Rivas scrive “Tra quelli che denunciano da tempo Ortega c’è tutto il Pantheon dei miei riferimenti intellettuali nicaraguensi. Ci sono anche molti latinoamericani che conosco e stimo, che hanno combattuto in Nicaragua (cileni e argentini in particolare) che non hanno dubbi: tutti contro Ortega”.
Ma in Italia non tutti condividono questa visione... “È un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Questa famosa citazione viene attribuita a vari presidenti statunitensi a proposito di diversi “figli di puttana”, cioè qualcuno tra i tanti dittatori-fantoccio che gli USA nel corso della storia hanno messo al potere in qualche loro colonia nel sud del mondo. Ma secondo la versione più accreditata sarebbe stato Roosevelt ad usare per la prima volta questa espressione proprio in riferimento al Nicaragua, parlando di Anastasio Somoza García, il dittatore che salì al potere nel 1937 e “regnò” fino al 1956, quando fu ucciso dal poeta Rigoberto López Pérez.
Questa frase è tornata alla mente di molti in questi mesi, ma in senso opposto rispetto alla formulazione originale. Da parte di alcuni settori che potremmo definire “filobolivariani” vi sono stati interventi di sostegno acritico alla coppia presidenziale nicaraguense (vedi per esempio i comunicati dell’Associazione nazionale Italia-Cuba o di Rifondazione Comunista).
Alcuni articoli e prese di posizione sono usciti addirittura su siti piuttosto ambigui, evidenziando un inquietante convergenza tra un antimperialismo di sinistra e quello tipico dell’estrema destra che vede il nemico solo in chiave anti-americana e anti-sionista (l’impero giudaico-massonico) e sostiene qualsiasi governo che sia al di fuori della sfera d’influenza statunitense (va bene il Venezuela e il Nicaragua ma vanno bene anche l’Iran degli ayatollah, la Siria di Assad o la Russia di Putin).
In questa visione tutta incentrata su una “geopolitica deviata”, dove contano solo gli equilibri tra Stati e governi anziché i popoli, il Nicaragua di Ortega nella scacchiera internazionale rappresenta una pedina dello schieramento “antimperialista” e quindi va sostenuto indipendentemente dalla vera natura del suo attuale governo. Del resto chi parla dell’Iran come di un Paese libero e pacifico di pelo sullo stomaco ne deve avere a quintali.
Così nella generalizzazione dietrologica tutte le vacche sono bigie: tutti i movimenti popolari nei Paesi del proprio schieramento devono essere descritti come frutto di agitatori pagati e di complotti orditi dalla CIA. Complotti che in Nicaragua sarebbero anche inspiegabili come sottolinea Pagayo Matacuras “Nel paese vivono e fanno affari lucrosi molti imprenditori gringos, grazie alle leggi in vigore e alla protezione governativa, che in questi anni hanno avuto la possibilità di arricchirsi sfruttando i lavoratori con stipendi non sufficienti per mettere insieme il pranzo con la cena e con condizioni lavorative assolutamente pessime”.
E sarebbe interessante capire come mai a Cuba, il Paese dove forse più di ogni altro gli Stati Uniti hanno scatenato una strategia terroristica di destabilizzazione e cercato di creare una opposizione interna, manifestazioni di massa antigovernative non ce ne siano mai state.
Sempre a proposito di Cuba, è singolare che in Italia negli incontri pubblici non si possa mai discutere con serenità delle interessanti prospettive del socialismo del dopo Fidel (così come lo si fa normalmente con i cubani) senza che intervenga un qualche “commissario del popolo” a censurare la discussione.
Eppure l’esperienza progressista latinoamericana, che oggi sta attraversando una profonda crisi, rappresenta per la sinistra europea un laboratorio imprescindibile per delineare anche le proprie strategie. E l’indubbia lezione che se ne trae in questo momento è che il futuro del “socialismo del XXI secolo” è in mano ai movimenti popolari, contadini e indigeni e non certo ai governi che a causa della controffensiva delle destre e dell’imperialismo statunitense, ma anche per errori limiti propri, risulta in chiara fase declinante dalla fine del 2015.
In Nicaragua la situazione è estremamente delicata: si rischia che l’assenza di alternative credibili a Ortega-Murillo e la prolungata instabilità affondino il Paese nella violenza endemica e nella paralisi politica che vivono i Paesi confinanti, in particolare l’Honduras, e che alla fine emerga una soluzione apertamente golpista. Anche per questo il sostegno internazionale al popolo nicaraguense è fondamentale perché dalla crisi si esca con un ritorno ai valori del vero sandinismo.
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Redazione pisana di Lotta Continua
Nello Gradirà per Senzasoste
28 luglio 2018
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