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31/01/2020

"Queen II" (1974) - Queen - Minirece


Moonlight drive


L’Unione Europea avvia operazione navale/militare nello Stretto di Hormuz


Una missione militare navale europea diventa operativa nello strategico Stretto di Hormuz. A guidarla sarà la Francia. La missione si chiama “European Maritime Awareness in the Strait of Hormuz” (EMASOH) ed è l’operazione multinazionale lanciata lo scorso 20 gennaio per la sorveglianza dello Stretto di Hormuz volta ad “assicurare la libertà di navigazione ed evitare, in seguito agli incidenti verificatisi negli ultimi mesi, possibili rischi a navi ed equipaggi in transito”.

Il documento che avvia l’operazione EMASOH è stata firmato da Francia, Belgio, Danimarca, Germania, Grecia, Italia, Olanda, Portogallo.

La nuova operazione militare/navale europea è stata varata dopo un tentativo inglese di adottare una iniziativa simile a seguito del sequestro nello Stretto di Hormuz della nave britannica “Stena Impero” avvenuto come ritorsione al sequestro, avvenuto a Gibilterra da parte della Gran Bretagna della petroliera “Grace 1”, una nave panamense riconducibile a interessi iraniani.

Questa operazione navale europea e guidata dalla Francia si affianca, ma si differenzia, da quella a guida statunitense già attiva nella zona: la Operation Sentinel dedicata a fini analoghi nell’area più vasta che include oltre al Golfo e ad Hormuz, il Golfo di Oman e lo Stretto di Bab el Mandeb, con una partecipazione che ha visto però impegnate solo Gran Bretagna, Corea del Sud ed Israele.

Assente da entrambe le operazioni navali/militari risulta ancora la Germania.

Per quanto riguarda l’Italia non si hanno ancora conferme dell’invio di navi o aerei militari nella missione in attesa di un dibattito quanto meno nelle commissioni Difesa di Camera e Senato in vista del rinnovo del Decreto Missioni.

Indiscrezioni riferite dal sito specializzato AnalisiDifesa.it riferiscono che l’Italia potrebbe aderire a EMASOH con una fregata tipo FREMM con a bordo 2 elicotteri e circa 200 uomini d’equipaggio inclusi piloti, tecnici di volo e i lagunari delle forze speciali del reggimento San Marco.

Ogni singolo Stato, Italia inclusa, manterrà il controllo sulle proprie navi che applicheranno regole d’ingaggio nazionali: prerogative che lascerebbero al Francia il ruolo di coordinamento della flotta multinazionale europea.

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Gran Bretagna - Fallita la privatizzazione delle ferrovie. Anche i Tories ora lo ammettono

Il governo conservatore di Boris Johnson ha annunciato che rinazionalizzerà le linee ferroviarie britanniche. È un’ulteriore prova che la privatizzazione è ormai screditata in tutto il mondo.

La prima volta che sono salito su un Nothern Train, sono stato investito dalla pioggia all’interno della carrozza grazie a un buco nel tetto. Virgin Trains avrà per sempre un posto nel mio cuore come la peggiore impresa ferroviaria che abbia mai avuto la sfortuna da usare, ma gli amici che ogni giorno fanno i pendolari usando Northern odiano questa compagnia oltre ogni misura – sempre in ritardo, troppo poche corse, di scarsa qualità e, come con tutti i viaggi in treno in Gran Bretagna, decisamente troppo costosa.

Quindi l’annuncio che il governo conservatore sta rinazionalizzando il trasporto ferroviario, dopo ripetuti fallimenti, è stato accolto con gioia da molti.

All’inizio di questo mese, il ministro dei trasporti, il conservatore Grant Shapps, ha annunciato che Virgin sarebbe stata privata della sua concessione. Poi, all’improvviso, è arrivata notizia che avrebbe dovuto essere rinazionalizzato tutto il sistema ferroviario britannico.

Il secondo più grande servizio ferroviario per pendolari, South Western Railway, è anche minacciato di rinazionalizzazione a causa delle prestazioni spaventose e della costante minaccia di azioni di sciopero risultanti dal suo modo di trattare il personale, nonché dalle pessime retribuzioni e condizioni di lavoro.

Ideologia e realtà: lo scontro sulle nazionalizzazioni

Dopo aver seminato paure pre-elettorali, secondo cui Jeremy Corbyn e il Labour avrebbero nazionalizzato tutte le società sotto il cielo britannico come preludio per portare l’intera economia sotto la proprietà pubblica, i Tories sono stati straordinariamente rapidi a rinazionalizzare e a parlare della prospettiva di ulteriore nazionalizzazioni.

Questo, per alcuni aspetti, non sorprende: durante le elezioni, Boris Johnson ha dimostrato che non gli importava molto della verità o dell’onestà intellettuale, ma solo di infangare il Labour per aumentare i voti, seminando divisione e paura nell’elettorato.

Sfruttare i suoi Tories per un’inversione di marcia politica non ha molta importanza, perché questi non si preoccupano né della politica, delle inversioni a U, né della loro immagine pubblica.

Il ministro-ombra del trasporto del Labour, Andy McDonald, aveva ragione quando affermava: “Tutti i contratti ferroviari sull’orlo del fallimento dovrebbero essere presi sotto il controllo pubblico, come un passo importante verso l’unione di binari e treni” (la Gran Bretagna – come in Italia le Fs – hanno scorporato la gestione della rete ferroviaria dal servizio passeggeri e merci, ndr). Ha inoltre sottolineato che il governo avrebbe potuto intervenire molto prima per acquisire Arriva, la società che gestisce Northern Rail, rimettendola in sesto.

Arriva ha anche citato in giudizio il governo, come fanno molte altre aziende private, cosa che costa ai contribuenti altri milioni a causa dell’incompetenza dei Tories, oltre che per il ridicolo sistema privatizzato.

Tutto ciò dimostra la lenta inevitabilità della nazionalizzazione: due terzi dei cittadini sono favorevoli a riportare le ferrovie nella proprietà pubblica, compresi molti come me, che neanche ricordano un momento in cui non fossero privatizzate.

Persone di tutte le età usano il sistema ferroviario, vedono le tariffe esorbitanti, verificano personalmente quanti reni sono in ritardo o cancellati, i grandi sovraffollamenti, e sanno che qualcuno, da qualche parte, sta facendo soldi con il nostro disagio, su un servizio che di solito è di monopolio e che non ci lascia altra scelta che continuare ad usarlo.

Quando le aziende ferroviarie falliscono, lasciarle semplicemente collassare significherebbe rendere impossibile effettuare milioni di viaggi per lavoro o per visite a familiari e amici. Oltre alla perdita di produttività, farebbe infuriare ogni persona colpita. Il governo non può permettersi che ciò accada, quindi interviene per rinazionalizzare quando è necessario, indipendentemente dal contesto ideologico.

Ferrovie britanniche a pezzi

Man mano che sempre più concessioni vengono bloccate, sequestrate ​​e rinazionalizzate, la privatizzazione si dimostra un fallimento. L’insoddisfazione nei confronti del servizio è dilagante e, nonostante un consenso pressoché universale nel Regno Unito sul fatto che il cambiamento climatico sia un problema, spesso finisce per essere più economico prendere un volo molto breve rispetto a un treno a lunga percorrenza.

La maggior parte di quelli che lo fanno tendono ad essere viaggiatori regolari – la maggior parte delle persone non trova una buona idea prendere un volo da Londra alla Scozia – ma il costo del viaggio in treno, incluso la disastrosa ed esorbitante ristrutturazione del treno Caledonian Sleeper, rende tale viaggi più allettanti. Senza una ferrovia più economica e affidabile, il numero di voli nazionali non diminuirà mai e le compagnie private non avranno alcun incentivo ad abbassare le tariffe.

Ma anche il personale delle ferrovie merita di meglio. Sono schiacciati come i passeggeri: ogni volta che pensano di scioperare vengono demonizzati dalla stampa allo stesso modo del personale degli aeroporti. Per il fatto di scegliere razionalmente momenti di traffico particolarmente denso per scioperare, in modo da avere la massima leva negoziale, sono descritti sulla stampa unicamente come “vendicativi”, allo stesso modo che per gli scioperi di insegnanti o infermieri, come se i ferrovieri desiderassero personalmente “rovinare il Natale” ad altri.

In realtà, il personale delle varie compagnie ha sollevato preoccupazioni per le minacce alla sicurezza derivante dalla scarsezza del personale, i numerosi rischi per i passeggeri dei treni senza conducente, i bassi salari, le condizioni di lavoro più sfavorevoli e la cancellazione del pagamento delle ore di lavoro straordinarie. Se il governo desidera un servizio più affidabile, è un approccio molto più snello e razionale gestire unitariamente più compagnie e la forza lavoro con un approccio integrato.

Ma la rete ferroviaria ha bisogno di qualcosa di più di una semplice nazionalizzazione: ha anche bisogno di ingenti investimenti, infrastrutture radicalmente migliori e di invertire i tagli ai servizi fatti in precedenza. Il paese è pieno di linee ferroviarie abbandonate grazie ai tagli delle tratte, che chiudono le linee e riducono i costi. Prima della decisione sulla Northern Train, il ministro dei trasporti Shapps ha affermato che la rinazionalizzazione della Northern Train comporterebbe anche l’abrogazione di alcuni tagli alle tratte, citando anche il collegio elettorale parlamentare della Blyth Valley – che alle elezioni generali è passata dal Labour ai Conservatori – come uno dei primi territori che potrebbero vedere una linea riaperta.

Questa è una politica molto cinica: l’intero Regno Unito ha bisogno di più linee ferroviarie e stazioni, non solo le aree dei Tories. Su vaste aree dell’Irlanda del Nord, della Scozia e del Galles spostarsi in treno è impossibile; e poiché l’obiettivo di qualsiasi governo ora dovrebbe essere quello di ridurre l’uso dell’auto, le infrastrutture di trasporto attraverso il Regno Unito devono essere considerate attentamente, con particolare attenzione a come la demografia e le esigenze sono cambiate negli ultimi anni. Riaprire una manciata di vecchie linee non cambierà molto; la chiave è pensare a dove le persone vogliono andare e cosa potrebbero fare se potessero arrivarci con i mezzi pubblici.

Nessuna pianificazione ferroviaria sarà effettivamente utile senza considerare anche gli autobus locali: anche se i costi individuali sono qui più piccoli, anche questo sistema è un disastro. Andare da un amico per la conferenza del Tory Party a Manchester, qualche anno fa, mi è costato circa 16 sterline, pagate a due diverse compagnie, per fare un breve viaggio di ritorno che ha coinvolto quattro autobus in totale. Lo stesso viaggio via Uber è durato 10 minuti, anziché più di un’ora, e costa solo 4 sterline a tratta. Il trasporto privatizzato ha rovinato l’esperienza del viaggio ma è anche profondamente disfunzionale, anche se gode ancora di finanziamenti pubblici.

La marea si sta inesorabilmente orientando verso la nazionalizzazione; anche i Tories non possono fermarla. Ma è importante riconoscere di cosa si tratta. Non segnala alcun cambiamento di ideologia da parte dei conservatori. Piuttosto, riflette un discreto riconoscimento del fatto che il capitalismo ha fallito nelle ferrovie del Regno Unito e che, sì, il Labour aveva ragione: i trasporti e molte altre cose dovrebbero essere gestiti dal popolo per il popolo.

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Brancaccio - "Self made man" un corno!

RAI Radio Uno – ERESIE, 31 gennaio 2020 – Gli Stati Uniti d’America terra delle opportunità, in cui contano ingegno e tenacia e non è importante se sei nato ricco o povero? E Trump come perfetta incarnazione di questo “sogno americano”? La doccia fredda dei dati, come al solito, ci svela una realtà ben diversa. E l’Italia, purtroppo, non è messa meglio. Cinque minuti con l’economista Emiliano Brancaccio dell’Università del Sannio.


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Coronavirus. Emergenza globale, la Cina mette in campo tutti i mezzi contro l’epidemia


L’Organizzazione mondiale della Sanità ha dichiarato l’epidemia del nuovo Coronavirus cinese un’emergenza sanitaria pubblica di rilievo internazionale. Lo ha reso noto da Ginevra il direttore generale dell’organizzazione, Tedros Adhanom Ghebreyesus. A Ginevra si era riunito un panel di esperti per decidere sull’innalzamento dell’allarme che prima era limitato soltanto alla Cina.

Intanto è salito a 213 il numero delle vittime da Coronavirus in Cina. Le autorità sanitarie del Paese hanno comunicato che il numero dei casi, in totale, è arrivato a 9.692, con un aumento di 1982 casi rispetto al giorno precedente. Una cifra che supera il numero di casi registrato per l’epidemia di Sars nel 2003.

Anche se, occorre dire, che i dati ufficiali dichiarati nell’ultimo report dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (30 gennaio) sono diversi. Si parla infatti di 7818 casi confermati di cui 7736 in Cina e di 12.167 casi sospetti. I casi confermati al di fuori della Cina sono 82 in 18 paesi. Il livello di allarme è stato dichiarato sia a livello regionale (Asia) che a livello globale.

La rivista scientifica The Lancet scrive che il numero crescente di casi e l’ampliamento della diffusione geografica della malattia destano serie preoccupazioni sulla futura traiettoria dell’epidemia, in particolare con l’avvicinarsi del capodanno lunare cinese. In circostanze normali, quest’anno sarebbero previsti circa 3 miliardi di viaggi in occasione del Festival di Primavera, con 15 milioni di viaggi in corso a Wuhan (epicentro dell’epidemia, ndr). Il virus potrebbe diffondersi ulteriormente in altri luoghi durante questo periodo del festival e causare epidemie, specialmente se ha acquisito la capacità di trasmettersi in modo efficiente da persona a persona.

Di conseguenza, l’epidemia del 2019-nCoV ha portato all’attuazione di misure straordinarie di sanità pubblica per ridurre l’ulteriore diffusione del virus in Cina e altrove.


In Cina

L’agenzia cinese Xinua riferisce che il presidente Xi Jinping ha ordinato ai militari cinesi di tenere ben presente la propria missione e di assumersi la responsabilità di dare il proprio contributo per vincere la battaglia contro la nuova epidemia di coronavirus.

In un editoriale, il quotidiano cinese Global Times scrive che: “Un improvviso cambiamento è avvenuto nella vita del popolo cinese negli ultimi 10 giorni. Le festività del Festival di primavera sono state disturbate e la provincia di Hubei nella Cina centrale è quasi interamente chiusa. Molte persone hanno ridotto la frequenza di uscita, i trasporti nazionali sono diminuiti, l’attività economica si è ridotta e il turismo si è quasi fermato. Ciò non è accaduto nemmeno durante lo scoppio della SARS nel 2003”.

Il quotidiano sottolinea l’emergenza e le priorità con cui la Cina deve misurarsi: “la lotta contro la nuova polmonite correlata al coronavirus ha raggiunto uno stadio critico. Al momento, la cosa più importante è fermare l’ulteriore diffusione del virus e raggiungere un punto in cui il numero di nuovi casi e di decessi diminuiscono”.

In un altro passaggio il Global Times non lesina critiche e autocritiche sulla gestione della prima fase dell’epidemia ma invita anche al massimo impegno per superare l’emergenza: “Abbiamo pagato per la nostra negligenza locale e nazionale dell’epidemia iniziale... Nell’era di Internet, tutto sembra diverso e complicato. Potremmo essere stati lenti nel rispondere al coronavirus all’inizio, ma presto è stata istituita una linea di difesa nazionale. Ciò testimonia la nostra capacità di salvaguardare i nostri interessi. Ma al momento, la cosa più importante non è calcolare le responsabilità. La lotta continua e il campo di battaglia si espande. La situazione potrebbe diventare più grave. Dovremmo trattare seriamente ogni combattimento e vincere ogni battaglia, e questo determinerà la situazione generale della lotta contro la nuova epidemia di coronavirus. Questo è legato agli interessi vitali di tutti. In questo momento, dobbiamo formare una forte linea di battaglia nazionale. Se prendiamo misure efficaci e precise, la situazione assisterà a una svolta dopo un breve periodo di misure ad alta intensità”.

Sarà bene, su questo argomento, tenersi alla larga dalle strumentalizzazioni e dalle manipolazioni dei mass media che stanno usando l’epidemia del coronavirus come clava politica anticinese.

Le ripercussioni economiche

Sul piano economico tutte le Borse (ed in particolare quelle asiatiche) segnalano cadute significative, ma le ripercussioni appaiono assai più ampie. Il calo cinese potrebbe avere ripercussioni mondiali: se i picchi del contagio arrivano tra febbraio e marzo – ipotizza un report della banca d’affari Morgan Stanley diffuso dall’agenzia Reuters – la crescita globale potrebbe calare tra 0,15 e 0,3 punti nel primo trimestre dell’anno ma se l’emergenza passa come si prevede e spera, si dovrebbero smaltire gli effetti negativi nel corso dell’anno.

Il settore manifatturiero cinese è bloccato. La crisi del coronavirus è scoppiata durante le feste per il Capodanno cinese quindi gli stabilimenti erano chiusi ma causa influenza non hanno riaperto. Quindi adesso sono ferme sia le fabbriche automobilistiche – Toyota ha fermato la produzione in Cina fino al 9 febbraio – sia quelle dell’hi-tech dove si producono i componenti degli smartphone diffusi in tutto il mondo. “Forse non sarà solo il Pil della Cina a risentire della paralisi ma anche i conti di grandi aziende” scrive il Sole 24 Ore. “L’americana Tesla prevede già che un ritardo dell’uscita delle auto Model 3 prodotte a Shanghai potrebbe pregiudicare i profitti del primo trimestre del 2020. Apple ha chiuso tutti i negozi in Cina, ha limitato i viaggi, si sta preparando a eventuali interruzioni della produzione e ha già annunciato ricadute per l’incertezza dovuta all’epidemia”.

In Italia

Il Consiglio dei ministri ha decretato lo stato di emergenza per il rischio sanitario da coronavisus. Il Cdm è terminato, la riunione a Palazzo Chigi è durata circa un’ora. “C’erano due casi sospetti, abbiamo avuto l’aggiornamento: questi due casi sono confermati. Anche in Italia abbiamo i primi due casi, due turisti cinesi da qualche giorno nel nostro paese”, lo ha dichiarato il Presidente del Consiglio Conte. Il ministro Roberto Speranza ha definito “fuori luogo” ogni “allarmismo”. Tesi sostenuta anche da Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’ospedale Spallanzani dove sono ricoverati i due cinesi: “I due pazienti sono stati immediatamente ricoverati, posti in isolamento, sono in buone condizioni. La tempestività dell’intervento ci fa pensare che non ci siano persone esposte perché come sapete di norma l’infezione si trasmette dopo la comparsa dei sintomi”. L’Italia intanto ha deciso di chiudere il traffico aereo da e per la Cina.

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Oliver Stone: "Gli Stati Uniti sono diventati una forza del male contro le persone che vogliono cambiare le cose"



La conversazione tra Rafael Correa e Oliver Stone inizia con un breve viaggio attraverso la vita del regista. La giovinezza con suo padre economista, repubblicano e conservatore, a Wall Street. Stone ricorda come è cresciuto in quei valori e in un ambiente in cui pensava "New York era il centro del mondo". Non gli piaceva il sistema in cui viveva, quindi si unì alla Marina mercantile e andò in Vietnam, un paese in cui tornò con le forze armate. Un'esperienza che avrebbe segnato "un approccio diverso alla vita" e segnato alcuni dei suoi film.

Dopo il Vietnam, Stone, che si considera un antisistema, è tornato negli Stati Uniti. Entrò nella scuola di cinema, lavorò come tassista e solo sei anni dopo scrisse la sceneggiatura del mitico film "Fuga di Mezzanotte", che ebbe un successo internazionale e vinse il suo primo Oscar nel 1978. Successivamente vinse altri due premi nel 1986 con "Platoon" e nel 1989 con "Nato il 4 luglio".

"Gli Stati Uniti sono la più grande ipnosi attiva che il mondo abbia mai visto (...) Vende la stessa storia, ancora e ancora, che è il miglior paese del mondo"

Stone afferma che nell'industria cinematografica americana non è più possibile realizzare film come quelli realizzati in precedenza. "Si potrebbe dire che Hollywood è cambiata dal 2001 [anno degli attacchi terroristici commessi da al Qaeda negli Stati Uniti]. C'è più censura", secondo Stone.

Ma, inoltre, dalla caduta dell'Unione Sovietica nel 1991, "le cose hanno preso improvvisamente una direzione in cui gli Stati Uniti si sono sentiti sempre più potenti, hanno ritenuto che fossero l'unica potenza, la forza dominante nell'universo, e cominciato a comportarsi sempre più come tale. Sono stati coinvolti nella guerra in Iraq, Panama e Granada, e di nuovo, naturalmente, per l'Iraq e poi in Afghanistan è stato uno dopo l'altro, una guerra dopo l'altra. Sono stati molto coinvolti, i media l'hanno accettato".

Correa, d'altra parte, ricorda che "i grandi imperi sono crollati per aver aperto troppi fronti" e anche "per mantenere guerre che non possono essere vinte e che sono sostenute nel tempo contro nemici che non si arrenderanno mai".

"Negli Stati Uniti non c'è più una vera sinistra. Si tratta di partiti di destra che combattono contro altri partiti di destra."

"Obiettivamente, Trump ha parlato molto, ma ha fatto poco. Le sanzioni contro il Venezuela sono iniziate con Obama", ricorda l'ex presidente ecuadoriano. Il regista è d'accordo e sottolinea persino il fatto che "negli Stati Uniti non c'è più una vera sinistra". "Questi sono partiti di destra che combattono contro altri partiti di destra".

Ad esempio, Stone ritiene che l'ex candidato alla presidenza Hillary Clinton sia un "falco" e, al contrario, Donald Trump, abbia avuto un messaggio "più pacifico". "Ha detto: 'Perché stiamo combattendo i russi?' Ha allarmato lo stato industriale militare, lo stato politico e i media, che hanno iniziato ad attaccarlo prima che diventasse presidente".

Per quanto riguarda Trump: "La cosa peggiore e più pericolosa è che ha rotto l'accordo nucleare (...) Stiamo mettendo il mondo intero a rischio di guerra nucleare, stiamo sviluppando in modo aggressivo nuove armi nucleari (...) il fatto è destabilizzare il mondo".

In breve, gli Stati Uniti, afferma Stone, sono "la più grande ipnosi attiva che il mondo abbia mai visto (...) vendono la stessa storia, ancora e ancora, che è il miglior paese del mondo. Le prove mostrano che il contrario: un gran numero di persone sono state uccise in tutti quei paesi: dall'Iraq alla Siria, all'Afghanistan, al Vietnam, alla Corea..."

America Latina

Nel film documentario 'Al Sur de la Frontera' (2009), il regista ha intervistato gli allora leader di Venezuela, Bolivia, Brasile, Argentina, Paraguay, Cuba ed Ecuador.

"Chavez è stata la base, il nucleo, che ci ha presentato tutti i leader: sono andato a trovare Lula, Nestor Kirchner e Cristina Kirchner, a Lugo in Paraguay ed Ecuador e Cuba in Bolivia si ... E fu un'esperienza che mi ha aperto gli occhi" dice Stone.

Un documentario, osserva il regista, che è stato totalmente ignorato dai media mainstream negli Stati Uniti. "Ero un nemico", dice, ricordando che una volta era stato invitato al New York Times e gli editori gli hanno chiesto come era arrivato a rispettare Chavez.

"La stessa cosa che è successa con l'Unione Sovietica accadrà con gli Stati Uniti. Sta per succedere qualcosa perché ci siamo spinti al limite, stiamo corrompendo completamente la storia".

"Era chiaro per me: non c'è modo di vincere il dibattito sul Sud America", afferma. Stone descrive come "farsa" gli eventi accaduti in Brasile con l '"impeachment" dell'ex presidente Dilma Rousseff e la successiva prigionia di Lula.

Un estremo con cui Correa concorda, definendo farsa ciò che è accaduto in Bolivia [il colpo di stato contro Evo Morales] e in Venezuela, con l'autoproclamato presidente Juan Guaidó, riconosciuto da Washington.

"La questione boliviana non è rappresentabile. È un chiaro colpo di stato, ma si vede il doppio standard internazionale: riconoscono immediatamente quel governo di fatto se è funzionale ai loro interessi", spiega Correa. "Non uccidono più le persone, ma uccidono la reputazione dei leader della sinistra", aggiunge.

Infine, Stone riflette: "La stessa cosa che è successa con l'Unione Sovietica, accadrà con gli Stati Uniti (...) qualcosa accadrà perché ci siamo spinti al limite, stiamo corrompendo completamente la storia. Sfortunatamente, perché voglio bene al mio paese, siamo diventati una forza del male. Una forza del male contro le persone. Contro le persone che vogliono le riforme, che vogliono cambiare le cose".

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Il peso di Blackrock nella controriforma pensionistica francese e in Atlantia


Una doppia mezza pagina di Le Monde diplomatique di gennaio 2020 illustra con un tono un po’ preoccupato, un po’ scanzonato, il caso di un grande gruppo finanziario, forse il più grande esistente al mondo, un agglomerato che controlla 6.000 miliardi di dollari, dal nome fatidico di BlackRock. (Sylvain Leder, “BlackRock, la finance chevet de retraités Français”).

Per dare un ordine di grandezza, il fatturato delle prime 500 imprese del globo, analizzate da Fortune, è di 30.000 miliardi di dollari e i profitti superano di poco i 2.000 miliardi. Nella sezione del diplo dedicata alla trasformazione del molto contrastato sistema pensionistico francese, e che attribuisce un non trascurabile peso ai suggerimenti – o alla moral suasion – del grande gruppo mondiale sulla governance transalpina, si indica tra l’altro chi sia il massimo dirigente e fondatore, Mister Fink, si descrivono i suoi artifici, si allude ai rapporti con l’alta finanza francese e la Borsa connessa, si insinua che vi siano vaste entrature nell’ambiente altrimenti protetto dell’Eliseo, dimora proverbiale dei maggiori poteri del Paese fratello.

Comprensibile che anche per la povera, disastrata, Italia si voglia conoscere l’eventuale interesse della grandissima e superarmata finanza mondiale, nella sua massima rappresentanza “blackrockiana”. Nell’opaco periodo attraversato da Poveritalia, l’arrivo di capitali stranieri è benvenuto. Nessuno chiede il perché e il percome. Il capofila della finanza mondiale ci stima, ci compra, non ha timore di noi, dei nostri numeri, del nostro spread. Cosa volere di più? Tra l’altro agisce anche in uno degli irrisolti casi italiani, quello delle autostrade. Perché andare per il sottile? Se si facesse qualche controllo, qualche resistenza, avvertono i competenti, l’acquisto azionario sarebbe dirottato altrove e l’italico spread crescerebbe a dismisura.

Il gruppo sullodato figura, in Atlantia, con un 5% variabile come secondo azionista a fianco del clan Benetton, titolare del 30%. Il gruppo Benetton si può descrivere, immaginosamente, come un palazzo con molti piani. BlackRock con Atlantia, sta a un piano di prestigio, mentre un piano sotto, quello della società operativa Autostrade c’è un altro socio-inquilino importante, l’assicuratore tedesco Allianz. Questi sta elevando vibrate proteste contro la legge italiana delle mille proroghe che danneggia il valore azionario del suo investimento in Autostrade. Non si tratta qui di una discussione sul funzionamento più o meno regolamentato dell’ascensore condominiale, come sono indotti a far credere quelli di Allianz. Essi ritengono che le persone normali debbano portare massima venerazione agli emblemi della finanza, tanto generale che locale, come avrebbe dovuto fare Guglielmo Tell davanti al cappello dell’imperatore.

Il mondo non va così, non va ancora così. BlackRock ha la presenza azionaria di altri 5% variabili in svariate grandi imprese italiane. Tra queste, Banca Intesa, Unicredit, Prysmian, Moncler, Enel; e poi ancora Azimut (6,5%) e Fineco (8,8%). Non siamo affatto sicuri che non vi sia dell’altro, ignoto anche alla Consob cui abbiamo affidato il controllo sulle società e la Borsa.

Solo Mediobanca, ai buoni vecchi tempi, aveva simili cifre d’investimento, ma il governo, i partiti, la Chiesa, la Fiat, le grandi imprese italiane, le partecipazioni statali, le grandi famiglie, quei Capitani Coraggiosi che uno dopo l’altro si presenteranno sul palcoscenico, tutti insieme, insomma, gli iscritti al club dei Pezzi Grossi (allora si parlava anche, borghesemente, di salotto buono) pensavano che Mediobanca fosse uno snodo del potere nazionale, della sua sistemazione autorevole e accurata, del buon patto generale, non scritto nero su bianco ma accettato da tutti. (Anche se poi, molto dopo, arrivati a metà gli anni ‘80, si seppe che il patto pubblico-privato c’era, ma ben pochi ne erano a conoscenza). Per questo ognuno dei potenti, di nascosto agli altri, cercava di contare di più in Via Filodrammatici il nome giornalistico, per competenti, della Banca d’affari e quindi teneva celati i propri contatti, convinto di essere molto avvantaggiato da quell’eventuale rapporto coperto.

Forse è prematuro ritenere che BlackRock abbia preso il posto tenuto per molti decenni da Enrico Cuccia, fatidico capo di Mediobanca e dai suoi, ma è certo che i consigli di Mediobanca, per pessimi che fossero, non erano quelli di spremere le imprese partecipate per fare soprattutto soldi. Il disegno era più ampio (e complicato) e i poteri prima elencati pensavano – ciascuno per conto suo – di esserne al corrente.

BlackRock non è certo l’unica causa del modello ‘valoriale’ cresciuto da qualche anno nel Sistema Italia e divenuto ormai prevalente. Certo che la sua forza di persuasione è molto efficace. Il dividendo, prima di tutto è alto, che faccia invidia a coloro che non capiscono e vorrebbero investire in macchinari e crescere e assumere. Per fare dividendi, però, occorrono profitti, e quindi rilevanti tagli nelle altre voci di bilancio.

Atlantia – e non solo essa – può andare avanti benissimo riducendo al minimo le manutenzioni, una spesa inutile che, come si sa bene, è fatta contro ogni prospettiva di valore sensata, non dà profitto e riduce a fine anno il dividendo. La connessione sfruttamento-licenziamenti è un po’ più complessa, ma si possono ben sfruttare i lavoratori che agiscono fuori e a bassa paga e incassare dividendi dentro o altrove.

Le ultime dichiarazioni di Mister Fink, riportate anche sulle Alpi svizzere di Davos e diffuse da un autorevole organo del gruppo finanziario mediatico Gedi, la Repubblica, lasciano pensare a un giro di walzer di BlackRock nel settore ambientale.

In primo luogo, la promessa – o la minaccia – di evitare nel futuro le iniziative finanziarie caratterizzate da eccessivi impegni fossili. Questo primo luogo rallegra molto gli industriali travestiti in verde, o grigio verde, verrebbe da dire, come gli antichi fanti italiani. Il secondo punto è assai più serio: la compagnia finanziaria americana informa che voterà contro gli amministratori delegati e i presidenti delle imprese che non terranno conto dei loro desiderata, ambientali e non, naturalmente. Amministratori delegati e presidenti, è ovvio, non possono permettersi di essere contraddetti dalla finanza mondiale.

C’è poi il caso francese, indicato dall’articolo del diplo dal quale siamo partiti. BlackRock intende partecipare, da dietro le quinte, per ora, alle contese politiche e sociali nei Paesi nei quali investe e dirige gli investimenti dei suoi clienti, risparmiatori, piccoli e grandi che siano, provenienti da ogni parte del mondo, ma sempre ben abbienti che sono, sempre o quasi sempre avidi di guadagni. Peggio dei francesi, noi italiani? Meno aperti alla finanza mondiale?

Per il futuro, si vedrà.

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Mahle: scatta la cassa integrazione, rinviati i licenziamenti. Le crisi aziendali richiedono risposte

Ci sarà per ora la cassa integrazione ma non ci saranno licenziamenti alla Mahle. Lo prevede l’accordo raggiunto al tavolo presso il ministero per lo Sviluppo Economico.

La multinazionale tedesca che produce componentistica per il settore automotive – in particolare per i motori diesel – nel novembre scorso ha annunciato la chiusura dei due stabilimenti piemontesi e il licenziamento di 452 lavoratori: 209 dello stabilimento di Saluzzo e 243 di quello di La Loggia (Torino).

La Mahle ha motivato la decisione di chiudere gli stabilimenti italiani facendo leva sulla difficile situazione del mercato globale, che si traduce in un calo degli ordini a livello europeo, che ha riguardato soprattutto la produzione di motori diesel.

La multinazionale ha un fatturato di 14 miliardi di euro, 79mila dipendenti e decine di stabilimenti in giro per l’Europa ed aveva fatto sapere che i prodotti prima fabbricati in Italia, definiti “non strategici,” sarebbero destinati ad uno stabilimento in Polonia, un nuovo caso di delocalizzazione produttiva che penalizza l’occupazione nel nostro paese.

L’azienda ha preso l’impegno di ritirare la procedura di licenziamento entro il 7 febbraio, chiedendo un anno di cassa integrazione e avviando il processo di reindustrializzazione sotto la supervisione del ministero.

La Regione metterà a disposizione varie misure per la formazione e la ricollocazione dei lavoratori. Allo studio un accordo con i sindacati e la Mahle per favorire e incentivare l’allontanamento volontario dall’azienda.

Si rimette così in moto il meccanismo perverso che vede le istituzioni accompagnare le chiusure di fabbriche, subire le delocalizzazioni e accettare le crisi aziendali. Anche alla luce della vicenda Whirlpool, diventa sempre più urgente mettere in campo una proposta generale di gestione delle aziende in crisi che salvaguardi occupazione, salari e produzioni e la ritirata dello Stato da questa urgenza appare sempre più inaccettabile.

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Aria nuova nel Mediterraneo: dall’egemonia americana a quella russa

Quasi 35 anni fa nell’aprile 1986 il bombardamento di Tripoli da parte degli Usa trovò un preciso atteggiamento da parte dell’Urss:
le navi sovietiche dislocate nel Mediterraneo si tennero il più possibile lontano dalla zona delle manovre militari. Qualcosa di simile è accaduto durante la prima guerra del golfo (1990) e la seconda (2003).

Oggi la Russia ha da tempo inviato in Cirenaica i contractor della famosa agenzia Wagner, vere truppe speciali privatizzate, supporta la logistica militare dell’esercito di Haftar, impone Mosca come capitale diplomatica delle trattative sulla Libia e gli Usa si tengono più lontano possibile.

È evidente che, da tempo, gli Usa stanno tenendo, globalmente, una strategia che li allontana dall’intervento militare diretto – almeno quello con le truppe sul campo – concentrandosi sulla supremazia militare nell’aria, quella tecnologica e quella finanziaria (vedi attacco alla Lira turca due anni fa...) come mezzo di risoluzione delle controversie a proprio favore. Questo comporta una occupazione del terreno da parte delle potenze che trovano ancora conveniente l’invasione sul campo, nel Mediterraneo, per esercitare egemonia sulla produzione e sulla circolazione delle materie prime.

Negli ultimi anni, non senza qualche significativa frizione, Russia e Turchia questo campo se lo sono allargato: dalla Siria al terreno, se l’accordo di Mosca sulla tregua viene chiuso, della Libia magari divisa di nuovo in Tripolitania e Cirenaica. E l’Europa, l’Italia? Esprimono le stesse esigenze degli Usa – per esigenze Nato ma anche economiche – senza la capacità americana di far valere la supremazia tecnologica e finanziaria nella definizione delle controversie.

E in Europa solo la Germania è in grado davvero di trovarsi sia una ruolo presso la Russia sia una capacità di coordinamento degli altri paesi Ue. Resta l’Italia, spiazzata dal disimpegno Usa, lo stesso paese capofila dei bombardamenti contro la Libia del 2011, logorata dalla concorrenza francese ma anche con importanti interessi in Libia. L’Italia ha infatti un ruolo fondamentale nell’estrazione ed esportazione di idrocarburi (gas e petrolio): un settore di grandissima importanza per l’economia libica.

Per comprendere a pieno la centralità degli idrocarburi per Tripoli basta citare due dati: ovvero il 70% del PIL nazionale e il 95% dell’export libico che si basano su questa industria. Inoltre, la rendita che deriva dal settore degli idrocarburi rappresenta circa il 90% delle entrate statali, ed è utilizzata dal governo libico per consolidare il consenso interno. L’importanza dell’Italia è legata alla presenza di ENI nel processo di estrazione ed esportazione del petrolio e del gas.

Per quanto riguarda l’estrazione, ENI è il principale produttore internazionale in Libia. Per quanto riguarda l’esportazione, una parte consistente degli idrocarburi libici raggiunge il nostro paese. L’esempio più significativo del legame tra Italia e Libia è quello del gas di Wafa e Bahr Essalam, che viene trasportato attraverso il gasdotto Greenstream fino al terminale di Gela in Sicilia. Se L’Eni non mantiene questo ruolo le conseguenze si faranno sentire sia in bolletta sia a livello di Pil. A differenza del passato però l’interlocutore importante per l’Eni non passa più da Washington ma tra Mosca e Ankara. E i cambiamenti in corso sono irreversibili.

Presentiamo di seguito due articoli in materia dei quali non condividiamo diversi aspetti ma che sono utili come fonti.

Conte ad Ankara cerca un ruolo nella crisi libica ma ora decide Mosca (Formiche.net)

Il cessate il fuoco si firma a Mosca: il trionfo di Putin e Erdogan (Analisi difesa)

Fonte

30/01/2020

"Americani" (1992) di James Foley - Minirece


Cina-Myanmar, amici come prima

La recente visita in Myanmar del presidente cinese, Xi Jinping, ha messo in evidenza il persistere di legami strettissimi tra i due paesi, nonostante il rimescolamento strategico che era seguito o avrebbe dovuto seguire il ritorno formale alla democrazia dell’ex Birmania. I due vicini, per meglio dire, stanno di fatto tornando alla partnership che caratterizzava i loro rapporti prima del breve idillio con l’Occidente. Un’evoluzione, quella in corso, che risponde alla necessità per il Myanmar di evitare l’isolamento internazionale e per la Cina di sfruttare le opportunità strategiche di ampio respiro offerte dall’alleato.

La questione che ha maggiormente contribuito a incrinare le relazioni tra il Myanmar e l’Occidente è la persecuzione, al limite del genocidio, della minoranza Rohingya di fede musulmana, stanziata soprattutto nelle regioni occidentali del paese del sud-est asiatico. La durissima repressione messa in atto dai militari birmani è stata il culmine di decenni di soprusi ed emarginazione e ha costretto centinaia di migliaia di Rohingya a fuggire nel vicino Bangladesh.

La condanna internazionale del comportamento del Myanmar è stata inevitabile, viste le dimensioni dei crimini ben documentati. Lo sdegno, tuttavia, si è intrecciato ad aspetti diplomatici e strategici, in particolare per quel che riguarda le reazioni degli Stati Uniti, il cui atteggiamento nei confronti delle violazioni dei diritti umani da parte di governi stranieri risulta come sempre estremamente selettivo.

In altre parole, la durezza dei toni spesso utilizzati per denunciare il trattamento dei Rohingya rivelava una certa impazienza verso i leader birmani, troppo cauti sia nell’abbracciare l’Occidente e le sue richieste di “riforma” sia nel prendere le distanze dalla Cina. Anche la stessa “icona democratica” Aung San Suu Kyi è uscita in fretta dalle grazie di Washington e Bruxelles, proprio perché incapace di denunciare il genocidio dei Rohingya e, ancor più, per il consolidamento dei rapporti con Pechino promosso dal governo che di fatto presiede.

Singolarmente, così, le prime settimane di gennaio hanno visto il quasi sovrapporsi della visita di Xi, la prima di un leader cinese da quasi due decenni, al verdetto della Corte Internazionale di Giustizia che ha imposto al Myanmar di adottare provvedimenti per proteggere la minoranza musulmana. La mancata implementazione della sentenza potrebbe spingere i paesi occidentali a reintrodurre sanzioni punitive contro il paese asiatico.

L’Europa, ad esempio, aveva già ipotizzato, tra l’altro, la sospensione del “trattamento preferenziale” concesso all’export birmano, con conseguenze pesanti sull’occupazione e l’economia di questo paese. In un’intervista rilasciata settimana scorsa a Bloomberg News, il ministro del Commercio del Myanmar, Than Myint, è partito proprio da questa minaccia per avvertire a sua volta che eventuali sanzioni occidentali provocherebbero un ulteriore avvicinamento tra il suo paese e gli “alleati asiatici”, a cominciare dalla Cina.

Il monito dell’esponente del governo birmano è apparso particolarmente efficace perché lanciato pochi giorni dopo la già ricordata visita in Myanmar del presidente cinese. Durante la sua trasferta oltre il confine sud-occidentale, Xi ha firmato più di trenta accordi con i leader birmani, relativamente alla costruzione di nuove infrastrutture e a progetti vari, e rilanciato l’integrazione del Myanmar nella cosiddetta “Nuova Via della Seta” o “Belt and Road Initiative” (BRI).

In un articolo pubblicato questa settimana dalla testata on-line Asia Times, il giornalista svedese ed esperto di Birmania, Bertil Lintner, ha scritto che l’idea di partnership che si sta formando tra Cina e Myanmar ha implicazioni che andranno oltre i piani previsti dalla BRI, dal momento che essa avrà “risvolti strategici vastissimi per tutta l’Asia meridionale e sud-orientale”.

I quattro punti cardine del nuovo impulso alla cooperazione bilaterale includono: un progetto di ferrovia ad alta velocità per collegare la Cina meridionale con la città di Mandalay, nel centro del Myanmar, e da qui alla costa sud del paese; lo sviluppo del porto di Kyaukphyu, affacciato strategicamente sul golfo del Bengala; la costruzione di una “nuova città” nei pressi della principale metropoli birmana, Yangon; la creazione di una “zona di cooperazione economica di confine”.

Questi piani, se portati a compimento, permetterebbero alla Cina di “rafforzare il proprio ascendente economico e strategico” sul Myanmar e, soprattutto, di ottenere “uno sbocco diretto sull’Oceano Indiano per la prima volta nella sua storia”. Quest’ultimo fattore va collegato agli sforzi cinesi degli ultimi anni per assicurarsi l’accesso a una serie di porti strategicamente fondamentali in Asia meridionale, da quello di Hambantota in Sri Lanka a quello di Gwadar in Pakistan.

Ciò, assieme ai tentativi più o meno efficaci di estendere l’influenza di Pechino in paesi-isole come Maldive e Seychelles, nonché alla costruzione della prima base militare all’estero nello stato del Corno d’Africa di Gibuti, dovrebbe assicurare alla Cina una presenza strategica nell’Oceano Indiano necessaria a “proteggere i propri crescenti interessi nella regione e non solo”. Se questo processo non si presenta ovviamente privo di ostacoli, esso implica potenzialmente il primato cinese in un’area controllata finora da potenze come Stati Uniti e India, ma anche Francia e Gran Bretagna, con le quali Pechino potrebbe entrare sempre più in rotta di collisione.

Nei piani cinesi, ad ogni modo, il Myanmar gioca un ruolo decisivo e, secondo la già citata analisi proposta da Asia Times, anche superiore a quello svolto da altri partner asiatici di Pechino, come ad esempio il Pakistan, per via di fattori geografici e strategici. La chiave per la realizzazione della visione della Cina tramite la collaborazione con la ex Birmania è appunto la possibilità di raggiungere in maniera sicura lo sbocco sull’Oceano Indiano, “bypassando il Mar Cinese Meridionale”, perennemente oggetto di dispute territoriali, e “un congestionato Stretto di Malacca”, esposto al blocco americano in caso di conflitto militare.

Da queste vie navali transita d’altronde la maggior parte dei commerci e delle importazioni energetiche cinesi. Più in generale, lungo queste rotte passano “i quattro quinti del traffico di container tra l’Asia e il resto del pianeta”, così come “i tre quinti delle forniture mondiali di petrolio”. Alla luce di questi dati, è facile comprendere come l’eventuale concretizzazione delle ambizioni di Pechino, grazie anche alla partnership con il Myanmar, potrebbe fare della Cina la potenza dominante del continente asiatico, con tutte le conseguenze del caso sul piano degli equilibri strategici consolidati dal secondo dopoguerra a oggi.

Per quanto riguarda il governo birmano, è evidente che all’interno della sua classe dirigente esistono profonde divisioni sull’opportunità di vincolare i piani di sviluppo del paese pressoché unicamente alla Cina. La diversificazione della propria politica estera era alla base delle aperture all’Occidente di qualche anno fa e, con ogni probabilità, continua a essere auspicata da molti.

L’avanzata cinese rappresenta però una minaccia crescente soprattutto per gli Stati Uniti, che, sempre più, appaiono ostili a scelte diplomatiche indipendenti o neutrali dei propri potenziali alleati. Per il Myanmar risulta comunque sempre meno attuabile uno sganciamento da Pechino, visto l’appeal economico rappresentato dalla Cina che l’Occidente, a tutt’oggi, non sembra in grado nemmeno lontanamente di potere avvicinare.

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USA - Tutti contro Sanders

A poco meno di due settimane dall’inizio delle primarie per le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, è partito nei confronti del candidato considerato più a sinistra di tutto il panorama “mainstream” di Washington un vero e proprio fuoco incrociato di attacchi politici e personali diretti ad affondare una campagna elettorale che continua a fare registrare un certo successo. Contro Bernie Sanders si sono già mobilitati alcuni dei pesi massimi degli ambienti “liberal” americani, a cominciare dal clan Clinton e da alcuni dei media più potenti legati a quel Partito Democratico per cui lo stesso senatore del Vermont è alla ricerca della nomination.

La prima imboscata di rilievo era stata portata a termine la scorsa settimana in collaborazione tra una sfidante di Sanders, la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, e la CNN. La prima, visti anche i suoi indici di gradimento in netta flessione, aveva sostenuto che Sanders, in una conversazione del 2018, le aveva confidato di credere che una candidata di sesso femminile non avrebbe potuto vincere contro Trump nella corsa alla Casa Bianca del 2020.

Opportunamente, la Warren si era assicurata di spiegare che alla conversazione non erano presenti altri testimoni. Sanders, da parte sua, ha negato in maniera ferma di avere espresso questa opinione, definendola assurda alla luce anche dei risultati del 2016 che videro Hillary Clinton superare nettamente Donald Trump nel voto popolare.

La polemica era comunque esplosa sui giornali, gran parte dei quali non hanno perso tempo a inquadrare la vicenda nella campagna, a dir poco strumentale, condotta da qualche anno in nome della parità di genere. Qualche giorno più tardi, la questione è stata poi ripresa e rilanciata per colpire ulteriormente Sanders davanti a una platea di americani ancora più ampia.

Nel corso dell’ultimo dibattito tra i candidati democratici alla presidenza prima dei “caucus” dell’Iowa, la moderatrice della CNN ha chiesto a Sanders della presunta conversazione rivelata dalla Warren. Quando il senatore del Vermont ha negato ancora una volta di avere fatto l’affermazione incriminata, la giornalista del network ha rivolto l’attenzione alla Warren per porgerle una domanda sullo stesso argomento, partendo dal presupposto che Sanders, malgrado la smentita appena espressa, aveva effettivamente sostenuto che una donna non avrebbe avuto chances contro Trump a novembre.

Al termine del dibattito, i due candidati si sono avvicinati e, quando Sanders ha cercato di stringere la mano alla Warren, quest’ultima si è rifiutata. Con i microfoni della CNN debitamente aperti, la senatrice democratica ha rimproverato il collega per averla definita una “bugiarda”. L’acceso scambio di battute è subito rimbalzato sui media americani, creando un nuovo motivo di imbarazzo per Sanders.

Parecchio spazio ha trovato inoltre sui media americani una recente intervista di Hillary Clinton nella quale ha discusso ampiamente del suo sfidante nelle primarie del 2016, clamorosamente manipolate dai vertici del Partito Democratico per favorire l’ex segretario di Stato. L’intervista fa parte di un documentario in uscita a breve e in essa la Clinton spara a zero su un Sanders che, a suo dire, sarebbe disprezzato da chiunque al Congresso. Durante la sua carriera politica, sempre secondo la ex first lady, Sanders “non ha combinato nulla”, mentre egli stesso e il suo staff si distinguerebbero per atteggiamenti “irrimediabilmente sessisti”.

Fermo restando che un attacco da parte di Hillary Clinton, tra i politici più odiati in assoluto negli Stati Uniti, non comporta necessariamente un danno per il destinatario di esso, le parole dell’ex candidata alla Casa Bianca prospettano una sorta di ammutinamento di ampi settori del Partito Democratico nel caso Sanders dovesse conquistare la nomination al termine delle primarie.

Alla domanda se fosse disponibile ad appoggiare il senatore del Vermont in un eventuale confronto con Trump, la Clinton si è infatti rifiutata di rispondere positivamente. Ciò lascia aperta l’ipotesi di un possibile “endorsement”, più o meno esplicito, per Donald Trump. Più probabilmente, se Sanders fosse il candidato democratico per la presidenza, i vertici del partito potrebbero attivarsi per provocare il fallimento della sua campagna elettorale. D’altra parte, in questi ambienti viene visto con maggiore preoccupazione un presidente approdato alla Casa Bianca sull’onda di una mobilitazione popolare attorno a un’agenda progressista rispetto a un secondo mandato del presidente probabilmente più reazionario della storia degli Stati Uniti.

Come spiegato in precedenza, sono anche i media e i commentatori vicini al Partito Democratico a prendere di mira Bernie Sanders. Il New York Times ha ad esempio appoggiato gli attacchi contro quest’ultimo dopo la polemica con la senatrice Warren. Uno dei suoi editorialisti più noti, il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, ha contribuito tra gli altri a gettare benzina sul fuoco, screditando Sanders in seguito a un’altra controversia esplosa durante la campagna.

Krugman ha portato un attacco – decisamente sproporzionato – contro Sanders dopo che quest’ultimo aveva denunciato, del tutto legittimamente, l’ex vice-presidente Joe Biden per alcune sue passate dichiarazioni sulla necessità di tagliare la spesa destinata al welfare dei pensionati americani. Sanders è stato così dipinto come una versione democratica di Trump, intento a “mentire” e a “demonizzare” chiunque non la pensi come lui e “incapace di ammettere di avere torto”.

Sempre il New York Times questa settimana ha dato particolare enfasi alla decisione del suo comitato di redazione di appoggiare ufficialmente per la nomination democratica due candidate donne: la senatrice del Minnesota Amy Klobuchar e, appunto, Elizabeth Warren. La scelta e i commenti che l’hanno seguita sono significativi e sembrano essere diretti proprio a danneggiare la candidatura di Bernie Sanders.

La Warren è la rivale più immediata di Sanders per la conquista dei consensi della sinistra del Partito Democratico. L’opzione Klobuchar, invece, esprime l’intenzione di sostenere praticamente chiunque non sia Sanders, poiché la senatrice democratica “moderata” è tra i candidati meno conosciuti a livello nazionale e i sondaggi le attribuiscono livelli di gradimento decisamente trascurabili. Anche la stessa decisione di puntare su due donne riflette il tentativo di promuovere le questioni di genere rispetto a quelle economiche e di classe, con l’obiettivo ancora una volta di penalizzare soprattutto Sanders.

Le ragioni di questa offensiva contro il senatore “democratico-socialista” del Vermont sono da ricondurre ai timori per l’evolversi di una campagna elettorale che minaccia di mettere al centro del dibattito le disuguaglianze sociali esplosive, la necessità di un sistema sanitario pubblico e il pacifismo. L’establishment del Partito Democratico, l’industria finanziaria e determinati settori dell’apparato della “sicurezza nazionale” (CIA) sono i principali oppositori di Sanders e, come si è visto in questi giorni e in occasione delle primarie del 2016, faranno di tutto per far naufragare la sua candidatura.

Questo assalto coordinato rappresenta un segnale indiscutibile sia della natura del Partito Democratico e della classe dirigente americana sia del carattere illusorio di una campagna elettorale che pretende di essere “rivoluzionaria”, come appunto quella di Sanders, anche se combattuta sotto le insegne democratiche.

Il 78enne senatore è cioè tutt’altro che “socialista” o “rivoluzionario”, nonostante la retorica elettorale, ma tutt’al più riconducibile a un progressismo che fino a pochi decenni fa risultava perfettamente integrato nella politica ufficiale di Washington. Sanders si era d’altronde affrettato nel 2016 a sostenere Hillary Clinton dopo le primarie e nonostante le manovre attuate nei suoi confronti, contribuendo al dissolvimento pacifico del movimento popolare favorito dalla sua candidatura.

In sostanza, Sanders non costituisce di per sé alcun pericolo per il capitalismo americano, ma ne auspica se mai la riforma per salvarlo dal rischio di una mobilitazione dal basso contro la deriva autoritaria e ultra-classista che interessa gli Stati Uniti. Il suo successo, però, rischierebbe di alimentare pericolose speranze di cambiamento che potrebbero sfuggire di mano e minacciare il controllo quasi assoluto esercitato, per conto e a favore di una ristretta élite, dai due principali partiti politici americani.

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Il ministero della Sanità russo individua tre farmaci in grado di curare il nuovo coronavirus cinese

Il Ministero della Salute russo ritiene che il nuovo coronavirus possa essere combattuto con ribavirina, lopinavir/ritonavir e interferone beta-1b. Questi farmaci sono generalmente usati per trattare rispettivamente l'epatite C, l'HIV e la sclerosi multipla.

L'advisory del Ministero della salute non offre solo raccomandazioni, ma descrive anche come funzionano i trattamenti e in quali quantità dovrebbero essere prescritti. Le linee guida sono destinate ai medici negli ospedali di tutto il paese euro asiatico.

Uno dei farmaci raccomandati, la ribavirina, è stato utilizzato nel trattamento dell'epidemia di SARS cinese del 2003, che ha infettato oltre 8.000 persone provocando la morte di 774 pazienti in 17 paesi diversi.

Il nuovo coronavirus ha mostrato una notevole somiglianza genetica con la SARS, con un confronto di sequenze che mostra una corrispondenza del 79,5%.

Il ministero russo indica inoltre che, al fine di prevenire e ridurre la gravità dei sintomi, i farmaci devono essere assunti entro due giorni dal contatto con una persona infetta. Le loro raccomandazioni di prevenzione includono anche norme sanitarie e igieniche, come il lavaggio delle mani e l'uso di maschere protettive.

Ieri, il vice primo ministro russo della salute Tatyana Golikova ha spiegato che esiste un rischio considerevole che il coronavirus entri in Russia, nonostante l'attuale numero di casi confermati rimanga a zero.

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La politica a 100 secondi dalla mezzanotte

di Manlio Dinucci – da il manifesto 28 gennaio 2020

La lancetta dell’«Orologio dell’apocalisse» – il segnatempo simbolico che sul Bollettino degli Scienziati atomici statunitensi indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare – è stata spostata in avanti a 100 secondi a mezzanotte.

È il livello più alto di allarme da quando l’«Orologio» fu creato nel 1947 (come termine di paragone, il massimo livello durante la guerra fredda fu di 2 minuti a mezzanotte).

La notizia è però passata in Italia quasi inosservata o segnalata come una sorta di curiosità, quasi fosse un videogioco. Si ignora il fatto che l’allarme è stato lanciato da un comitato scientifico di cui fanno parte 13 Premi Nobel.

Essi avvertono: «Siamo di fronte a una vera e propria emergenza, uno stato della situazione mondiale assolutamente inaccettabile che non permette alcun margine di errore né ulteriore ritardo».

La crisi mondiale, aggravata dal cambiamento climatico, rende «realmente possibile una guerra nucleare, iniziata in base a un piano oppure per errore o semplice fraintendimento, che metterebbe fine alla civiltà».

La possibilità di guerra nucleare – sottolineano – è stata accresciuta dal fatto che, l’anno scorso, sono stati cancellati o minati diversi importanti trattati e negoziati, creando un ambiente favorevole a una rinnovata corsa agli armamenti nucleari, alla loro proliferazione e all’abbassamento della soglia nucleare.

La situazione – aggiungono gli scienziati –  è aggravata dalla «cyber-disinformazione», ossia dalla continua alterazione della sfera dell’informazione, da cui dipendono la democrazia e il processo decisionale, condotta attraverso campagne di disinformazione per seminare sfiducia tra le nazioni e minare gli sforzi interni e internazionali per favorire la pace e proteggere il pianeta.

Che cosa fa la politica italiana in tale situazione estremamente critica? La risposta è semplice: tace.

Domina il silenzio imposto dal vasto arco politico bipartisan responsabile del fatto che l’Italia, paese non-nucleare, ospiti e sia preparata a usare armi nucleari, violando il Trattato di non-proliferazione che ha ratificato.

Responsabilità resa ancora più grave dal fatto che l’Italia si rifiuta di aderire al Trattato sulla proibizione delle armi nucleari votato a grande maggioranza dall’Assemblea delle Nazioni Unite.

All’Articolo 4 il Trattato stabilisce: «Ciascuno Stato parte che abbia sul proprio territorio armi nucleari, possedute o controllate da un altro Stato, deve assicurare la rapida rimozione di tali armi». Per aderire al Trattato Onu, l’Italia dovrebbe quindi richiedere agli Stati Uniti di rimuovere  dal suo territorio le bombe nucleari B-61 (che già violano il Trattato di non-proliferazione) e di non installarvi le nuove B61-12 né altre armi nucleari.

Inoltre, poiché l’Italia fa parte dei paesi che (come dichiara la stessa Nato) «forniscono all’Alleanza aerei equipaggiati per trasportare bombe nucleari, su cui gli Stati Uniti mantengono l’assoluto controllo, e personale addestrato a tale scopo», per aderire al Trattato Onu l’Italia dovrebbe chiedere di essere esentata da tale funzione.

Lo stesso avviene con il Trattato sulle forze nucleari intermedie affossato da Washington. Sia in sede Nato, Ue e Onu, l’Italia si è accodata alla decisione statunitense, dando in sostanza luce verde alla installazione di nuovi missili nucleari Usa sul proprio territorio.

Ciò conferma che l’Italia non ha – per responsabilità del vasto arco politico bipartisan – una politica estera sovrana, rispondente ai principi della propria Costituzione e ai reali interessi nazionali. Al timone che determina gli orientamenti fondamentali della nostra politica estera c’è la mano di Washington, o direttamente o tramite la Nato.

L’Italia, che nella propria Costituzione ripudia la guerra, fa così parte dell’ingranaggio che ci ha portato a 100 secondi dalla mezzanotte della guerra nucleare.

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Terra desolata

di Sandro Moiso

Alessia Turri, Wasteland. Viaggio nella California dimenticata tra città fantasma e deserti addormentati, con 62 fotografie dell’autrice, 10 di Elia Sequani e 9 di John Hwang, CIERRE edizioni, Verona 2017, pp. 149, euro 12,50
Che radici premono, quali rami crescono
Da questi resti in pietra? Figlio dell’uomo,
Tu, non puoi dire o pensare, perché tu sai solo
Di un mucchio d’immagini rotte, dove batte il sole,
Dove l’albero morto non ripara, il grillo non
conforta,
E la pietra riarsa non dà suono d’acqua. Solo
Con questi resti ho alzato argini
Alle mie rovine. (La terra desolata – Thomas Stearns Eliot)
Sicuramente Alessia Turri deve amare profondamente gli Stati Uniti e le infinite storie che si possono trarre dal loro paesaggio e dalle loro piccole e disperse comunità delle quali da anni è instancabile ricercatrice e fotografa. Ma è proprio questo amore, poiché è bene ripeterlo non si tratta di un invaghimento giovanile o superficiale, a spingerla a scavare nella Storia e nelle storie di quell’immenso paese per trarne non le abituali visioni monumentali (dai grattacieli ai canyon fino alle forme bizzarre delle rocce rosse e altissime della Monument Valley), cui ci hanno abituati il cinema di Hollywood nel passato e i depliant pubblicitari ancora oggi, ma altre immagini ugualmente folgoranti.

Immagini forti e coinvolgenti, sia che si tratti di fotografie o di storie raccolte sul campo oppure ancora rivissute con la forza dell’immaginazione, ispirate più alle cronache di Joan Didion o al realismo visionario di Cormac McCarthy e alle catastrofi, sia della ragione che naturali, di James Ballard che all’epica di John Ford o ai sogni “on the road” di Jack Kerouac. Storie e immagini che per forza di cose finiscono col rendere un ritratto dell’anima profonda di un’America del Nord troppo spesso idealizzata, tanto per essere ammirata quanto per essere odiata, come uniformemente ricca e agiata, ma che invece spesso nasconde contraddizioni sociali violente e forme di povertà ed emarginazione estrema.

Forme di disagio che si trasmettono anche attraverso le sue strade, i suoi luoghi di villeggiatura passati di moda e abbandonati, i laghi inquinati e una Natura che ha subito ripetutamente gli assalti dell’Uomo così come le popolazioni originarie, che con essa vivevano a stretto contatto, hanno subito prima l’invasione e i soprusi degli Spagnoli e poi degli Anglosassoni e di tutti gli altri giunti al loro seguito.

Lo fa a partire proprio dalla California, il Golden State con un PIL pari a 2.602.672 milioni di dollari nel 2016 (pari a un decimo del Pil complessivo degli Stati Uniti e superiore a quello italiano e quasi pari a quelli di Francia e Regno Unito), che vede i villaggi di tende degli homeless occupare le strade di Los Angeles e il Sunset Boulevard perché non è tutto oro quel che luccica.

Alessia ci racconta, così come ha fatto anche nel successivo Everland (qui), la storia e la realtà profonda di un paese destinato a segnare ancora per lungo tempo l’immaginario del mondo occidentale, non solo per scelta politica e culturale delle élite dirigenti ma, ancor di più, perché ne indica, da più di un secolo, in anticipo il destino.

Tutto questo e altro ancora ci racconta l’autrice, con le parole e le fotografie e, in entrambi i casi, lo fa molto bene.
È da vent’anni che le tilapie muoiono a migliaia sulle spiagge del lago Salton. Il 4 agosto del 1999 si registrò un lugubre record di 7,6 milioni di pesci morti. La temperatura altalenante dell’acqua si è rivelata fatale per i pesci tropicali, inseriti nel lago per la loro incredibile capacità di adattamento all’acqua salata. Anche le infiltrazioni di veleni agricoli nelle falde acquifere potrebbero aver causato qualche problema. Il Salton, infatti, è come un enorme livido sul viso di un deserto agricolo. Arida chiazza di morte, avvolta da una cornice di frutteti e foreste di palme. Piantagioni d’arance, limoni e pompelmi si alternano a campi di tenera lattuga, granturco profumato e alberi d’ulivo. Dalle fronde appuntite dei palmeti, grappoli di datteri maturi attraggono le api e le foglie dei pomodori verdi rinfrescano l’aria. Spruzzi d’acqua dissetano le piante, prendendosi cura di quell’oasi agricola in pieno deserto. Un progetto riuscito. Una bonifica straordinaria. Florido angolo d’orgoglio californiano.
Alle sue spalle, però, fluttuano le ceneri del fratello fallito. Quell’enorme lago salato, progettato per diventare paradiso, destinato a diventare inferno. Discarica di sogni a cielo aperto, zombie invidioso, osserva di traverso il rigoglio agricolo che gli fiorisce accanto accogliendo a bocca aperta i suoi rifiuti. Pesticidi, inquinamento, veleni. Come una spugna, il lago beve tutto per poi risputarlo sotto forma di pesci, alghe e uccelli morti.
Le sue rive sono coperte di carcasse, scheletri e rifiuti di modernariato. I suoi villaggi sono comunità devastate, corrose, dimenticate. I suoi abitanti sono pochi, accaniti sognatori che non si arrendono allo scorrere del tempo. Non temono la solitudine e nemmeno le bufere di polveri tossiche. Affrontano il caldo, le zanzare e la morte. Protestano alzando la voce, avvolti da nubi di sabbia salata.[…] Oasi di dinosauri, indiani, invasori, minatori, turisti e tilapie. Il lago più grande della California, il più inquinato, il più enigmatico. Enorme livido sul viso di un deserto agricolo.1
Note:

1) A. Turri, Wasteland, pp. 32-33

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Usa - Censurato il libro-scoop di John Bolton

Siamo in democrazia, no? E la prima democrazia del mondo è quella americana, vero? E la prima libertà democratica è quella di parola, giusto?

Beh, ci sono novità. E pure rilevanti: se vuoi pubblicare un libro che rivela qualcosa sui tuoi pessimi rapporti con il presidente degli Stati Uniti ti può arrivare un divieto formale. Anche – o forse soprattutto – se sei stato il suo consigliere per la sicurezza nazionale e il peggiore dei reazionari che siano entrati per lavoro alla Casa Bianca.

Chiaro che con quell’incarico qualche limite te lo devi porre da solo, o comunque devi sottoporre il testo all’approvazione dei nuovi-vecchi addetti alla “sicurezza nazionale” perché – anche in democrazia – non è che puoi spiattellare i segreti di Stato dopo appena qualche mese (anziché i soliti 30 anni, minimo).

Però in questo caso le cose stanno molto diversamente.

La Casa Bianca ha vietato all’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, di pubblicare il suo libro di memorie, perché contiene informazioni classificate, top secret. Fin qui sarebbe tutto normale, se non fosse che lo stesso John Bolton è stato richiesto come testimone nella procedura di impeachment contro lo stesso Trump. E non per riferire “segreti di Stato”, ma più banalmente per raccontare se è vero o no che il presidente avesse sospeso gli aiuti militari all’Ucraina fin quando il suo neoeletto presidente, Zeleznij, non avesse accettato di far indagare dalla magistratura di Kiev il figlio di Joe Biden. Ossia di uno dei più forti candidati democratici nelle ormai prossime elezioni presidenziali (si vota in novembre).

Che lo stop al libro di Bolton arrivi per questa ragione e non per i “top secret” violati è insomma qualcosa più che un sospetto. Anche perché l’ex consigliere per la sicurezza non è un quaquaraqua qualsiasi pescato in qualche università di provincia, ma uno dei leader neocon da almeno 30 anni a questa parte. Insomma, un super-falco che – in teoria – dovrebbe essere disposto a farsi fucilare piuttosto che fare un danno agli States.

E Trump lo sa benissimo, visto che proprio su questo punto – poche ore prima dell’annuncio del veto al libro – ha sparato i suoi tweet contro Bolton: “Se l’avessi ascoltato, saremmo alla Sesta Guerra Mondiale”.

La censura preventiva, comunque, non blocca il pressing “democratico” al Congresso, dove comunque la sua testimonianza viene richiesta con ancora più decisione.

L’ex consigliere, un tempo considerato un “falco” dell’amministrazione, è poi entrato in rotta di collisione con il presidente sulla questione Iran fino alle dimissioni, improvvise, a inizio settembre.
Si voterà venerdì sull’eventuale testimonianza di Bolton. Ma intanto il Consiglio per la sicurezza nazionale – che valuta questo come tutti i libri a firma di ex dipendenti della struttura – ha riferito che il suo libro, in uscita imminente, dal titolo The Room Where It Happened: A White House Memoir, contiene “significativa quantità di materiale classificato e top secret”.

Ovviamente senza specificare di quali argomenti si tratti.

Nel libro, Bolton sostiene che Trump gli avrebbe detto, nell’agosto scorso, di voler legare il blocco dei fondi per la sicurezza destinati all’Ucraina all’avvio di un’indagine della procura speciale di Kiev nei confronti di Hillary Clinton e Joe Biden.

Ma non nutrite strani sogni: i conservatori “blinderanno” Trump perché non possono fare altro. Il libro di Bolton uscirà in versione “purgata” ad elezioni avvenute (magari con qualche succosa e ben pagata “anticipazione” giornalistica. E dunque tutta questa storia dell’impeachment finirà in una bolla di retorica utile – in versione ovviamente opposta – ad entrambi gli schieramenti elettorali Usa.

Con buona pace dei princìpi della democrazia descritti dagli enciclopedisti.

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Dal voto per vendetta al voto di paura

Sul rapporto tra azione/funzione politica ed elezioni è tempo di parole “segnanti”, se non definitive.

Inevitabilmente ogni tornata elettorale (e nel nostro paese si vota piuttosto spesso) diventa un tormentone nel quale evaporano dati sostanziali e prevalgono quelli emotivi e congiunturali.

Questa emozione nelle urne altro non è che il riflesso della prevalenza della percezione rispetto alla realtà, della “società astratta” (come la definitiva il sociologo Filippo Viola) rispetto a quella reale.

Già nei giorni scorsi il nostro giornale ha segnalato analisi più strutturate sui flussi elettorali in Emilia Romagna. Altre se ne stanno producendo in queste ore, ma è evidente come il risultato emiliano sia la vittoria del “voto della paura”, declinato stavolta anche sul Pd invece che solo sulla Lega.

Occorre infatti ammettere che entrambi hanno puntato e giocato sulla paura per ottenere il risultato. La Lega sulla paura verso i migranti, la “percezione di insicurezza”, per la giustizia-fai-da-te. Il Pd e le Sardine sulla paura di Salvini, per la pura conservazione di un sistema di potere definito acriticamente come “buona amministrazione”. Che infatti, dopo la vittoria, ha subito rimesso al primo posto quella “autonomia differenziata” che è storico cavallo di battaglia... della Lega!

Negli anni scorsi avevamo invece assistito al “voto per vendetta”, con cui milioni di persone – tra i ceti medi e i settori popolari – avevano mandato a quel paese il sistema politico esistente (bipolare, trasversale, molto spesso convergente sugli interessi da affermare). Quel voto per vendetta, sbrigativamente archiviato come “antipolitica”, era stato consegnato ad occhi chiusi al M5S, ma oggi è in ritirata; si disgrega e si bi-polarizza nuovamente sull’arcipelago della destra e sul mondo piddino.

È ormai evidente che in tale contesto sono saltati tutti i parametri della rappresentanza politica tradizionale (interessi sociali definiti, diversità e contrapposizione tra contenuti programmatici).

Quando – sul piano di questi parametri – le compagne e i compagni di Potere al Popolo in Emilia Romagna hanno affermato che “Bonaccini e Borgonzoni/Salvini sono due facce della stessa medaglia”, hanno affermato un dato di verità. Che però è stato completamente occultato dal voto di paura. E sul piano della proiezione elettorale non poteva esserci partita. Ce lo dicevano gli stessi compagni che firmavano per le liste di PaP, premettendo che “però il voto, no”.

Partiamo da questo per rovesciare i termini del ragionamento e aprire la discussione tra chi, in questo paese e in questa fase storica, non intende rinunciare ad una ipotesi alternativa e di classe da giocare dentro lo scontro politico.

Se contenuti, coscienza e contrapposizione di interessi sociali definiti non hanno più spazio sul piano elettorale, significa che rimane solo uno spazio politico – in gran parte da costruire, non dato a prescindere – sul quale agire.

Una parte di questo spazio – ma solo una parte – possono essere le occasioni elettorali. Però queste devono e possono essere vissute e attraversate solo come una occasione di visibilità, propaganda, allargamento dell’intervento e delle relazioni sui territori. Non hanno dunque una possibilità di “risultato” immediato sul piano elettorale, neanche mettendo insieme cocci, pezzi e frammentini di una “sinistra” ormai estenuata. Il tormentone su questa invocazione dell’unità come soluzione salvifica è fuorviante e inservibile. E non da ora.

Si tratta allora di scegliere come stare in campo nelle contraddizioni reali del paese e negli spazi possibili del conflitto politico e sociale.

È evidente come non sia affatto una comfort zone. Al contrario somiglia molto di più ad una traversata del deserto o, come scrivono i compagni emiliani, ad “una lunga marcia che comincia sempre con dei piccoli passi”.

Gli scattisti frustrati sono destinati a uscirne morti per consunzione o stress da prestazione.

Potremmo raccontare come esperienze politiche siano passate attraverso questi snodi e non ne siano affatto uscite morte, al contrario.

Dunque hic Rhodus hic salta, o si comincia a ragionare e ad agire con la piena consapevolezza del contesto, della funzione e delle possibilità in cui agiamo, oppure ci sia adagerà dentro un scenario in cui la gabbia del bipolarismo e del maggioritario di fatto inchioderanno tutte e tutti alla catena del “meno peggio”.

E questa non è, non sarà mai, la nostra scelta.

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Il ragionamento dei compagni della RdC ha la sua fondatezza, tuttavia trascura il dato essenziale dell'intera questione.

Nello specifico, quando scrivono che "si tratta allora di scegliere come stare in campo nelle contraddizioni reali del paese e negli spazi possibili del conflitto politico e sociale" viene evaso il "per fare cosa" e soprattutto supportati da quale analisi.

Quello dell'analisi è un tema completamente trascurato da PaP, in ogni ambito: dalle riflessioni fondamentali in merito alla struttura organizzativa di una nuova soggettività, al posizionamento internazionale dell'organizzazione (vogliamo parlare del supporto acritico ai curdi nel quadrante siriano o del rifiuto ad affrontare in termini dialettici tutte le rivolte "spontanee" che si stanno verificando dal vicino all'estremo oriente?) all'approccio alla questione europea che chiama direttamente in causa l'analisi economica su cui ci si esprime soltanto a slogan.

Perseverando in questo approccio si otterrà un unico e scontato risultato, l'incartarsi per l'ennesima volta contro un muro.

Zaia maestro revisionista


Il solito post rivela una gaffe orrenda che poi si è cercato di cancellare. Questa volta è toccato al governatore leghista del Veneto, Luca Zaia, secondo cui il contingente militare spedito dal fascismo a combattere insieme ai nazisti contro l’URSS nella Seconda Guerra Mondiale vide “sacrificare vite per ideali di libertà e democrazia”.

La gaffe di Zaia è doppia. Non solo quella fu una delle più sanguinose e fallimentari avventure belliche del regime fascista, ma i soldati inviati al fronte erano coscritti e non certo volontari. Insomma ne avrebbero fatto volentieri a meno, tanto più che oltre ad essere inviati a combattere malamente equipaggiati contro un altro lontanissimo popolo e paese, erano obbligati a farlo e non lo fecero certo per una scelta ideale.

Dei 200mila soldati inviati da Mussolini in Russia prima con il Csir (Corpo di Spedizione Italiano in Russia) e poi con l’Armir (Armata Italiana in Russia) durante la tormentata ritirata riuscirono a tornarne in Italia solo 10.032. I caduti e i dispersi furono circa 95mila, ma non si hanno cifre precise di quanti tra questi dispersi siano morti in battaglia o a causa di congelamento e spossatezza durante la ritirata, o ancora quanti siano stati fatti prigionieri. Non si hanno notizie di altri 75mila. Sotto molti punti di vista la sconfitta del fascismo in Italia cominciò proprio con il fallimento della spedizione militare in Russia.

La gaffe di Zaia è stata immortalata prima di essere cancellata ed è lì a testimoniare come il ciarpame reazionario abbia perso i freni inibitori in un paese con la Costituzione del 1947 ancora vigente. Un ciarpame in cui convivono nostalgici del fascismo e parolai indecenti, miracolati da una fortuna politica che contiamo di vedersi esaurire il prima possibile.

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La Brexit è realtà. Al Parlamento europeo il valzer dell’addio alla Gran Bretagna

La plenaria del Parlamento europeo ha approvato ieri a Bruxelles, con 621 voti a favore, 49 contro e 13 astenuti, la posizione a favore dell’Accordo di recesso della Gran Bretagna dall’Ue più noto come Brexit. Dopo il voto, tutti gli eurodeputati in piedi e dandosi la mano hanno cantato la canzone d’addio il “Valzer delle candele”. Una immagine che tanto somiglia a coloro che danzavano mentre il Titanic si apprestava ad affondare.

Oggi, giovedì 30 gennaio, si svolgerà invece la procedura scritta da parte del Consiglio Europeo che anticipa di 24 ore il giorno ufficiale dell’uscita della Gran Bretagna all’UE la quale avverrà formalmente domani, 31 gennaio, una data destinata a restare storica.

Il Parlamento britannico aveva votato lo scorso 20 dicembre per chiudere la Brexit entro il 31 gennaio 2020. La Camera dei Comuni aveva infatti confermato il testo modificato dal governo di Boris Johnson dopo la vittoria elettorale del 12 dicembre, dando il via libera nella cosiddetta seconda lettura all’EU Withdrawal Agreement Bill con 358 sì e 234 no.

La Brexit è diventato legge in Gran Bretagna il 23 gennaio con la firma della Regina che ha dato il “Royal Assent” al testo dello European Union Withdrawal Agreement Act che mercoledì 22 gennaio aveva concluso l’iter di ratifica parlamentare a Westminster.

Domani 31 gennaio dunque, alle ore 11, Londra lascerà l’Unione Europea, ma tutto il resto è ancora da definire: giuridicamente, la Gran Bretagna sarà legata alle strutture comunitarie fino al 31 dicembre 2020 e dovrà applicare le regole europee.

Dal primo febbraio partiranno gli 11 mesi di transizione che serviranno per concludere un accordo commerciale completo, ma Michel Barnier, capo negoziatore UE, ha più volte espresso la preoccupazione che non sia un tempo sufficiente.

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Davos: la sfilata dell’ipocrisia

Che il forum di Davos fosse un luogo dove REALMENTE si decidono cose utili alla maggior parte dell’umanità – quella non ricchissima, diciamo – non lo pensava nessuno di noi. Ma che almeno ci fosse la decenza di non prendere in giro chi si batte sul serio per questioni come la diseguaglianza sociale nel mondo ed il disastro ambientale imminente, quello magari sì. Ma il capitalismo d’assalto ed iperliberista che sta portando il mondo alla distruzione, in effetti, non è che si sia mai curato nemmeno della decenza. A meno che non fosse portatrice di profitto.

E quindi non sorprende che banche, fondi pensione, fondi di investimento ed altri big della finanza, presenti a Davos a discutere di cambiamento climatici e di buone pratiche, siano in affari con le più importanti aziende di combustibili fossili. A denunciarlo è un report di Greenpeace, che evidenzia come molte delle società che quest’anno erano presenti al meeting annuale del World Economic Forum siano esposti finanziariamente con le aziende di combustibili fossili per un valore di 1.400 miliardi di dollari.

Una cifra enorme, che porta con sé interessi altrettanto grandi. E davvero, questi amministratori delegati vorrebbero far credere al mondo di essere veramente interessati ad un drastico cambio di passo? Una modifica strutturale ai progetti di investimento che preveda di voltare le spalle a petrolio e gas? Eppure è così, a Davos erano presenti le cinque compagnie assicurative con i maggiori investimenti a copertura di impianti e infrastrutture legate al carbone, che è il peggior combustibile fossile. Lo denuncia chiaramente Greenpeace nel rapporto “It’s the finance sector, stupid”.

Il rapporto di Greenpeace

Il rapporto – citiamo direttamente il comunicato di Greenpeace – “denuncia come banche, fondi pensione e assicurazioni che prendono parte al Forum di Davos ne tradiscano di fatto, sia da un punto di vista ambientale che economico, l’obiettivo di “migliorare lo stato del mondo”. Il rapporto mostra anche come lobbisti e imprese di pubbliche relazioni stiano lavorando per conto di questi attori della finanza globale e dell’industria fossile contro gli obiettivi dell’Accordo di Parigi”. “Le banche, i fondi pensione e le assicurazioni riuniti a Davos sono colpevoli per l’emergenza climatica. Nonostante i numerosi avvertimenti sia dal punto di vista ambientale che economico, questi colossi stanno alimentando un’altra crisi finanziaria globale continuando a sostenere l’industria dei combustibili fossili” , afferma Jennifer Morgan, direttore esecutivo di Greenpeace International. “Sono semplicemente degli ipocriti: dicono di voler salvare il Pianeta ma lo stanno uccidendo per fare profitti”.

Prendendo come riferimento il periodo che va dalla firma dell’accordo di Parigi al 2018, ad esempio, viene fuori che le 24 banche presenti a Davos hanno finanziato l’industria dei combustibili fossili per un valore, come detto, di circa 1.400 miliardi di dollari: stiamo parlando di una cifra che equivale al patrimonio complessivo dei 3,8 miliardi di persone più povere del Pianeta nel 2018.

“Non abbiamo più tempo da perdere con chiacchiere e falsi annunci. I decisori politici e le autorità che regolano il settore devono mettersi all’opera prima che sia troppo tardi”, ha proseguito nella sua dichiarazione Morgan. “Gli attori della finanza mondiale devono cambiare atteggiamento e smettere di comportarsi come se tutto andasse bene, perché non è così. Siamo in emergenza climatica e non ci sarà economia su un Pianeta morto”.

Il problema è che il capitalismo ed i suoi attori hanno dimostrato di essere interessati al breve termine, e di non preoccuparsi realmente di quello che potrebbe avvenire in futuro. Lo dicono i fatti: sono gli stati che dovrebbero costringere le grandi industrie ad un atteggiamento diverso: con multe, tasse e altri strumenti che rendano in del tutto sconveniente ad una azienda pensare solo a far profitto con l’inquinamento.

Ma ci sono, esistono governi che hanno questa forza? Che sono veramente così liberi, e così interessati esclusivamente al benessere della collettività, da essere intransigenti con i più ricchi del mondo?

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Intanto nelle stanze del potere reale...

Mentre la gran parte degli italiani grida al bau bau Salvini, come per 25 anni ha gridato al bau bau Berlusconi, vi dico cosa succede nelle stanze del potere reale, fonte Il Messaggero di oggi.

Cassa Depositi e Prestiti aveva in precedenza deliberato un comitato nomine di 5 membri, di cui 2 indipendenti. Ieri c'è stato il blitz del Ministero del Tesoro, che controlla l'82% della Cassa e ha stabilito un Comitato nomine di 3 membri: il primo, presidente della cassa, espressione delle fondazioni bancarie, il secondo rappresentato dal ministero del Tesoro, il terzo l'amministratore delegato della cassa, che è espressione del ministero del Tesoro. 2 a 1, bingo.

Indovinate chi c'è al Ministero del Tesoro e a quale partito appartiene. Ebbene, il ministero del Tesoro esprimerà la maggioranza del Comitato nomine della Cassa Depositi e Prestiti, il quale sceglierà gli amministratori delegati Snam, Terna e Fincantieri, vale a dire decine di miliardi di investimenti, decine e decine di miliardi di fatturato, centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Il Ministero del Tesoro ha fatto questo blitz a seguito dell'esito delle elezioni in Emilia, comunicando che vuole capitalizzare il risultato. Mi raccomando, andate dietro le sardine, fate il bau bau a Salvini. Il potere, intanto, marcia trionfante.

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Whirlpool conferma che abbandonerà lo stabilimento di Napoli. Il governo cerca “prenditori”

Whirlpool ha confermato che abbandonerà lo stabilimento di Napoli. La conferma, è arrivata nell’incontro di ieri pomeriggio a Roma al ministero dello Sviluppo Economico sotto al quale erano presenti un folto gruppo di lavoratori della fabbrica.

Il governo ha dato incarico a Invitalia di cercare un nuovo soggetto che subentri alla multinazionale statunitense entro il prossimo luglio. Il ministro Patuanelli ha dichiarato inaccettabile la chiusura entro il 31 marzo ma l’azienda Usa non sembra esserne rimasta particolarmente impressionata.

L’amministratore delegato di Whirlpool Italia, Luigi La Morgia, ha ribadito che a Napoli non c’è più sostenibilità economica della produzione di lavatrici. Ma avrebbe anche confermato che l’Italia (ma meglio sarebbe dire il “mercato italiano”, ndr) resta strategica per il gruppo, che ha ancora 5 mila dipendenti in tutto il Paese. Secondo Whirlpool le difficoltà sarebbero relative al solo stabilimento campano.

Invitalia e il governo parlano di un piano industriale solido e “credibile”, in grado di prospettare una ripresa delle attività produttive sostenibile nel lungo periodo, in linea con le caratteristiche del territorio. La ricerca del compratore sarà rivolta ad aziende e gruppi sia nazionali sia internazionali, non necessariamente attivi nel settore dell’elettrodomestico. Nella fase iniziale, per quanto riguarda aziende internazionali, si guarderà a quelle già presenti “con successo” in Italia o che abbiano già palesato prospettive di insediamento nel Paese.

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Avanti così, in modo da passare più velocemente possibile da "paese in via di sviluppo" a "terzo mondo". 

29/01/2020

"Django Unchained" (2012) di Quentin Tarantino - Minirece


Cina - Il tasso di crescita giornaliero di nuovi casi di coronavirus diminuisce

Mentre nel mondo sale l’apprensione per la diffusione dell’ormai famigerato coronavirus la giornata di martedì ha portato un barlume di speranza per la Cina in quanto almeno 10 province, tra cui la provincia di Hubei della Cina centrale, epicentro dell'epidemia, hanno riportato un calo del numero di nuovi pazienti infetti rispetto al giorno precedente, come riporta il quotidiano cinese Global Times.

Notizie confortanti in arrivo anche da altre province: Jilin nella Cina nord-orientale, la provincia di Henan nella Cina centrale, la provincia di Sichuan nella Cina sud-occidentale, la provincia di Guizhou nella Cina sud-occidentale, la regione autonoma uigura dello Xinjiang della Cina nord-occidentale, la provincia di Hainan nella Cina meridionale, la provincia del Fujian della Cina orientale, la provincia del Qinghai nella Cina nord-occidentale e la provincia dello Shaanxi nella Cina nord-occidentale.

Alla giornata di oggi, mercoledì 29, la Commissione Nazionale per la Sanità della Repubblica Popolare Cinese riferisce di 5.974 casi confermati in 31 province (incluse regioni e comuni autonomi), con 1.239 persone in gravi condizioni e 132 morti. Un totale di 103 pazienti sono guariti e, di conseguenza, sono stati dimessi dagli ospedali.

Il 28 gennaio 840 nuovi casi di polmonite sono stati segnalati nella provincia di Hubei. Il 27, tuttavia, ci sono stati 1.291 casi segnalati.

In un totale di 65.537 persone che sono state a contatto con infettati, 1.604 persone sono state rimosse dall'osservazione medica alla giornata di martedì, con 59.990 persone messe sotto osservazione medica.

Si segnalano, infine, otto casi confermati nella regione amministrativa speciale di Hong Kong, sette nella regione amministrativa speciale di Macao e otto sull'isola di Taiwan.

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Un’altra scossa di repressione

Circa un anno fa ci siamo occupati della questione della repressione e dell’uso del taser da parte delle forze dell’ordine e di guardie giurate ingaggiate da grandi e piccoli gruppi industriali. Nel frattempo, il Governo è cambiato, da gialloverde(nero) a giallorosa, ‘l’odio’ non è più a Palazzo Chigi, ma la repressione permane. Come vedremo, essa ha un solo obiettivo, comune a tutti gli esecutivi che si sono alternati negli ultimi decenni: salvaguardare gli interessi del capitale.

Ricordiamo velocemente che cos’è il taser. Si tratta di un’arma, nota anche come “storditore elettrico” e “dissuasore elettrico” che, per l’appunto, somministra scosse elettriche. I soggetti colpiti si trovano immobilizzati a causa della contrazione dei muscoli dovuta alle scosse. Seppur generalmente definita come “non letale”, l’arma ha causato, secondo Amnesty International, oltre 500 morti negli Stati Uniti tra il 2001 e il 2012. Nel 2018, la stessa organizzazione ha aggiornato il conteggio, parlando di circa 1000 morti tra Stati Uniti e Canada (sempre a partire dal 2001). Si trattava di soggetti, nel 90 percento dei casi, disarmati. Il taser può, quindi, condurre alla morte. Ciò accade soprattutto quando colpisce persone con problemi cardiaci, è vero, ma anche quando le persone che subiscono la scossa sono sotto l’effetto di alcol o droghe o soltanto provate da uno sforzo fisico particolarmente impegnativo, come una fuga disperata. Inoltre, l’arma è in grado di danneggiare in maniera irreversibile il cuore e il sistema respiratorio dei soggetti.

Proprio negli ultimi giorni il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio e del Ministro dell’interno Lamorgese, ha approvato una modifica al DpR 359 del 1991, ovvero il regolamento sull’armamento e le munizioni in dotazione alle forze dell’ordine. Tale modifica regolamentare prevede l’introduzione del taser tra le armi delle forze dell’ordine, “dando quindi piena attuazione – scrive l’Osservatorio sulla repressione – alla misura voluta da Salvini quando era ministro degli interni”.

Sarebbe, però, ingiusto attribuire la diffusione del taser solo a quest’ultimo. Non bisogna essere ingenerosi con gli attuali avversari di Salvini, cioè PD e M5S. Non solo perché, come si è visto, l’ultimo ‘ok’ è figlio del Governo attualmente in carica, ma anche perché ci sono dei precedenti che portano firme ben precise. L’ultimo via libera, per fare un esempio, è arrivato dopo la sperimentazione dell’arma da parte delle forze dell’ordine in 12 città, prevista nel decreto-legge 119 del 2014, emanato dal Governo Renzi con la firma di Angelino Alfano, all’epoca inquilino del Viminale. In sostanza, esponenti dei recenti Governi di tutti gli schieramenti hanno adottato misure volte a estendere l’utilizzo di quest’arma.

Nei fatti, ci vorrà ancora un anno perché la misura funzioni a pieno regime (tempo necessario per l’addestramento del personale all’uso dell’arma e per organizzare l’acquisto della stessa). Dopo, sarà utilizzata abitualmente da Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza. Le novità, però, vanno ad aggiungersi alla sperimentazione dell’uso del taser da parte della Polizia Municipale, grazie al decreto sicurezza (decreto-legge 113/2018) fortemente voluto da Matteo Salvini quando era Ministro dell’Interno, approvato dal Governo Conte-I e confermato in Parlamento dai gialloverdi nel dicembre 2018. Assistiamo, dunque, all’emanazione di una serie di atti normativi che mostrano come, al di là delle discussioni di facciata, le principali forze politiche condividano una tendenza alla repressione delle classi subalterne.

Un ulteriore segno di questa preoccupante comunanza di visioni si è avuta molto di recente. A Prato, proprio in questi giorni, è stata caricata dalle forze dell’ordine una manifestazione organizzata dal sindacato ‘SI Cobas’ per protestare contro le multe comminate ad alcuni lavoratori e studenti accusati di aver effettuato un “blocco stradale” durante una manifestazione svoltasi il 16 ottobre 2019, reato reintrodotto dai decreti sicurezza di Salvini. Queste multe sembrano essere le prime sanzioni derivanti dalla reintroduzione del reato di blocco stradale.

Per riassumere, la destra ha scritto e approvato leggi che aumentano la repressione, mentre è sotto il Governo del sedicente ‘centro-sinistra’ insieme ai 5 Stelle che queste leggi trovano applicazione. La repressione, lo ribadiamo, è bipartisan, mette d’accordo tutti. E il motivo è semplice: la destra e i partiti dell’attuale Governo hanno molto in comune e gli interessi che difendono sono quelli del capitale. Mentre la prima esibisce un finto anti-europeismo, i secondi cercano di far presa sull’elettorato di riferimento con vaghi e strumentali richiami ai sacrosanti diritti civili. Il contrasto tra i due gruppi esiste, ma è un contrasto interno al capitale, per la gestione ordinata dell’austerità e della lotta contro le rivendicazioni dei lavoratori. Ecco spiegato perché i decreti sicurezza, che tanto sono stati criticati dall’opposizione al Governo Conte-I, non vengono abrogati quando le stesse forze politiche entrano nel Governo Conte-bis, ma sono anzi implementati con misure attuative.

Il problema non si limita, tuttavia, alla contingenza, ma si inserisce in un consolidato meccanismo attraverso il quale la repressione viene impartita ai lavoratori, attraverso emergenze e stati di eccezione. Si creano emergenze ad hoc, come, ovviamente, la cosiddetta “invasione” di immigrati dipinti, da Salvini e dai suoi sodali, come corpi estranei parassitari, pronti a trasformare le nostre città in veri e propri inferni di criminalità. Si dice che l’attuale sistema giuridico non è preparato ad affrontarla, perché i giudici sono buonisti, ottimisti e di sinistra. Poi se ne parla, se ne parla, se ne parla, fino a quando diventa il problema principale del Paese (invece dei salari bassi, dei tagli alla scuola pubblica, del pareggio di bilancio, dei problemi della sanità). A quel punto qualcuno si fa carico del problema, si propone la legge speciale, questa viene approvata e poi resta nel sistema giuridico. E produce effetti non solo sugli immigrati, ma anche sui lavoratori indigeni. La legge speciale diventa normale e accettata da tutti. E la repressione aumenta.

Certo, l’Italia non è il paese di Bengodi. Soprattutto nelle periferie delle grandi città, il problema sicurezza, declinato nelle azioni della macro e della microcriminalità, è particolarmente sentito e si aggiunge alla carenza di servizi, alla povertà e all’emarginazione sociale. Ma è legittimo dubitare che il taser possa costituire un deterrente per mafiosi, rapinatori e stupratori. Quella dell’emergenza sicurezza sembra, molto più realisticamente, l’ennesima scusa per giustificare l’estensione delle modalità attraverso le quali si esercita la repressione di elementi ‘scomodi’.

Quella del nemico alle porte è una narrazione tossica, volta allo scopo di creare una continua tensione nel Paese che porti la gente a votare per la repressione e ad accettare sempre più controlli e sempre maggiori restrizioni alla libertà personale, mentre il mercato è sempre più libero e senza barriere, libero anche di far bastonare i lavoratori e far dare loro ‘salutari’ scosse elettriche.

Se si fosse preoccupati per la sicurezza, ci si dovrebbe domandare quanto si possa essere sicuri in un sistema così repressivo e quanto si sia controllati ogni giorno. Ci si dovrebbe chiedere dov’è la sicurezza se strade e ponti crollano, se la sanità pubblica è sotto attacco e colpita da tagli da decenni, se si continuano a contare i morti sul lavoro (quasi mille vittime nel 2019 e i dati disponibili si fermano a novembre).

È giusto che i cittadini si preoccupino per la sicurezza, ma non guardando con paura l’immigrato, il povero o il manifestante, bensì guardando con rabbia i politici e i padroni, chiedendo la sicurezza di poter vivere dignitosamente e liberamente. Una società senza povertà ed emarginazione è una società, oltre che più giusta, anche più sicura.

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