Chi è Luis de Guindos, indicato come il prossimo numero due della Banca Centrale Europea? Sebbene sia un comprimario che lavorerà all’ombra del più influente Governatore, si tratta di una figura emblematica: nel suo piccolo, la parabola di de Guindos fornisce una perfetta rappresentazione di quella élite che tiene le redini dell’Europa. La sua storia è un affresco della crisi che parte dal crack finanziario globale del 2008 e giunge fino alle più drammatiche conseguenze dell’austerità in Europa. Come vedremo de Guindos, una vita dalla parte dei più forti, si è conquistato il posto di vicepresidente della BCE lavorando alacremente a quella lotta di classe dall’alto verso il basso che ha consentito ad una ristretta cerchia di affaristi, banchieri e speculatori edilizi di mettere in ginocchio l’intera Europa.
Il primo capitolo di questa storia ci porta a New York, nella notte del 15 settembre 2008, quando la Lehman Brothers – la quarta banca d’affari degli Stati Uniti – dichiara il fallimento scatenando una serie di insolvenze che farà crollare le borse statunitensi ed europee: è l’inizio della grande crisi. Nel fallimento della Lehman Brothers culminava la cosiddetta crisi dei subprime, mutui immobiliari concessi ai più poveri cittadini americani, debitori privi di alcuna garanzia (nè un reddito stabile, nè un lavoro sicuro per assicurare la restituzione del prestito). Questi mutui vengono successivamente impacchettati, attraverso alchimie contabili e con il beneplacito delle più autorevoli agenzie di rating, in succulenti prodotti finanziari diffusi in tutto il mondo. Nello specifico, stiamo parlando di particolari titoli derivati chiamati ABS (asset backed securities), spacciati ai risparmiatori come imperdibili affari ma in realtà una opaca trappola ad orologeria, pronta ad esplodere di lì a poco. Non appena la massa di working poors americani – soffocati dai debiti e impoveriti dallo scoppio di una bolla immobiliare – ha smesso di pagare le rate del proprio mutuo, come era facilmente prevedibile, il castello di carte costruito su quei prestiti spericolati è crollato, portando con sé una miriade di società finanziarie che si erano avventurate, con profitti straordinari, nella complessa galassia dei derivati. Bear Stearns, Freddie Mac, Fannie Mae, State Streets, Wells Fargo, il colosso assicurativo AIG, le banche internazionali Morgan Stanley, Citigroup e Merrill Lynch, in una parola l’intero sistema finanziario statunitense viene investito dal disastro dei subprime. Eppure, solo Lehman Brothers viene lasciata fallire dalle autorità statunitensi, che arrivano a spendere quasi 8.000 miliardi di dollari per salvare tutte le altre società coinvolte. Tutti salvi tranne la Lehman Brothers, perché? Tra le varie ipotesi c’è quella del “contagio strategico”: il colosso dei derivati sarebbe stato lasciato fallire strategicamente, per trasmettere alla finanza europea una crisi fino ad allora confinata negli Stati Uniti.
Il contagio si è effettivamente realizzato, in virtù delle profondissime connessioni emerse tra la Lehman Brothers ed alcuni nodi nevralgici del sistema finanziario europeo: dopo il più grande fallimento della storia statunitense, infatti, importanti banche anglosassoni, tedesche, francesi, olandesi e belghe entreranno in crisi a causa delle perdite inflitte dal crollo delle quotazioni dei derivati promossi anche in Europa dalla Lehman Brothers. Il salvataggio delle banche europee richiederà interventi pubblici per oltre 1.000 miliardi di euro (quando si tratta di difendere i propri interessi, i capitalisti non si mostrano troppo schizzinosi nei confronti dell’intervento pubblico in economia), costringendo i rispettivi governi ad uno sforzo finanziario che è il preludio della crisi del debito pubblico. In questo passaggio cruciale dal tracollo finanziario statunitense alla crisi europea fa la sua comparsa il nostro Luis de Guindos, che dal 2006 era il responsabile di Lehman Brothers per la Spagna e il Portogallo. Lo spagnolo non avrà certo ricoperto un ruolo fondamentale nelle vicende che abbiamo raccontato, ma il suo posizionamento è indicativo della sfera di interessi che rappresenta, e che si pongono tra l’altissima finanza – capace di veicolare l’instabilità finanziaria da un continente all’altro – e la grande speculazione edilizia: secondo uno schema identico a quello dei subprime statunitensi, si diffondono in Spagna in quegli anni mutui considerevoli privi di particolari garanzie che alimentano uno straordinario incremento dei prezzi degli immobili, una bolla speculativa che monta nel cuore dell’Europa mentre l’incendio divampa a Wall Street. Nel clamore del fallimento della Lehman Brothers rischiamo di perdere di vista il piccolo de Guindos, che ha la fortuna di essere assunto immediatamente dopo il crack come consulente dalla multinazionale Pricewaterhouse Coopers, proprio la società che si stava occupando della liquidazione del ramo europeo, con sede a Londra, della Lehman Brothers.
La storia continua in Spagna, dove nel 2011 Rajoy chiama de Guindos a ricoprire la carica di Ministro dell’Economia nel nuovo governo di centrodestra, che porterà avanti lo smantellamento dello stato sociale e la precarizzazione del mercato del lavoro, in piena continuità trasversale con i precedenti governi Aznar e Zapatero. Siamo in piena crisi del debito pubblico europeo con Grecia, Irlanda, Portogallo e Italia in balia della speculazione finanziaria e degli spread alle stelle. Dopo pochi mesi dall’insediamento del governo Rajoy la Spagna finisce nell’occhio del ciclone: esplode la bolla immobiliare e, scena già vista, il peso dei mutui nel portafoglio finanziario delle banche determina il crollo del sistema finanziario del paese coinvolgendo tre delle maggiori istituzioni creditizie di Spagna: Bankia, quella più esposta ai mutui immobiliari, NCG Banco e Catalunya Banc. In questa fase de Guindos svolge un ruolo fondamentale, perché tramite la sua regia si procede ad un salvataggio del sistema finanziario spagnolo attraverso il combinato disposto di aiuti europei e dell’intervento dei due giganti della finanza iberica, Caixa e Santander. Nel piano ideato da de Guindos la Spagna accetta un prestito di 100 miliardi di euro dalle istituzioni europee ed impiega quelle risorse per aiutare le banche più forti del sistema ad acquistare gli istituti travolti dalla bolla immobiliare. Si tratta di uno straordinario processo di centralizzazione del settore creditizio del paese condotto a tappe forzate dal governo sotto l’impulso ed il monitoraggio delle autorità europee. La centralizzazione è quel fenomeno per cui il capitale finanziario, inizialmente diffuso su una moltitudine di banche, tende a trasferirsi dalle unità periferiche al centro per effetto di un mutamento nei rapporti di forza: pochi grandi colossi finiscono così per spartirsi una torta prima contesa da tante banche minori. Il settore creditizio spagnolo si allontana così dai territori concentrandosi nelle mani di poche, potentissime, istituzioni finanziarie di respiro internazionale: chiudono più di 6.000 sportelli, spariscono decine di banche minori e viene letteralmente spazzato via, tra acquisti e fusioni, quel tessuto di casse di risparmio (le storiche cajas) che, pur tra mille contraddizioni, alimentava lo sviluppo locale.
Questa storica ristrutturazione del sistema finanziario spagnolo è una resa dei conti interna al capitalismo iberico in cui, approfittando della tempesta della crisi, i pesci grandi hanno divorato i piccoli, anche grazie alla rete dell’intervento europeo gettata da de Guindos. Gli aiuti europei, lungi dal tutelare la stabilità delle banche in crisi, sono serviti essenzialmente a favorirne l’assorbimento da parte dei grandi gruppi. La Spagna ne esce con un sistema bancario proiettato più sui mercati globali che non sull’economia reale del paese. Per de Guindos è un successo senza precedenti: le élite europee hanno trovato in Spagna un brillante interprete dei loro progetti di transizione da un’economia mista, appesantita dallo stato sociale e da un’invadente sfera pubblica, ad una moderna economia di mercato orientata al profitto della loro ristretta oligarchia.
Nel suo ruolo di alfiere del disegno europeo, de Guindos si distinguerà qualche anno dopo ai tavoli negoziali sulla crisi greca. Con la vittoria del No al referendum del 2015 sulle nuove misure lacrime e sangue richieste dalla troika, il popolo greco aveva costretto i governanti europei a discutere della rigida applicazione dell’austerità imposta al paese. Come riportato dall’allora Ministro dell’Economia greco, Varoufakis, il nostro de Guindos – nonostante la Spagna fosse a tutti gli effetti tra i paesi della periferia che stavano pagando il prezzo più alto per il rigore europeo – si dimostra in quell’occasione il più acerrimo oppositore di qualsiasi alternativa alla cieca austerità, ostacolando ogni possibile concessione alla Grecia. L’esito di quella trattativa è noto: le autorità europee decideranno di punire il popolo greco ed il suo No all’austerità imponendo al paese condizioni addirittura peggiori di quelle che erano state rifiutate con il referendum.
Sembra forse possibile, giunti a questo punto, capire quali siano le ragioni che hanno condotto de Guindos ai piani alti dell’Eurotower di Francoforte, da dove potrà controllare la stabilità finanziaria europea. Più arduo comprendere chi ancora si ostina a sognare un’Europa dei popoli senza rendersi conto che l’unica Europa che esiste è fatta di speculatori e banchieri.
Fonte
28/02/2018
Emma Bonino, nemica della scuola italiana
Se fossimo attenti solo alle elezioni, non ci sarebbe bisogno di occuparsi tanto di Emma Bonino e la sua listarella +Europa. Ma ci occupiamo di capire soprattutto la direzione di marcia impressa alla ristrutturazione del “modello sociale”, che altrove viene chiamata “processo di riforme strutturali”. In questo senso, le sortite di Bonino sui vari temi esemplificano con spietata nettezza le “preferenze” dell’establishment finanziario e multinazionale, tradotte sempre più precisamente in trattati e direttive europee.
La sortita che interessa da vicino oltre un milione di lavoratori e la maggior parte delle famiglie italiane è avvenuta due giorni fa, in teleconferenza, e riguarda il mondo della scuola.
Vale la pena di citare qualche perla:
– la “scuola deve preparare più e meglio al lavoro: va bene il boom del liceo classico (in realtà si sta solo contrastando la sensibile perdita di iscritti, ndr), ma nei Paesi vicini alla piena occupazione come la Germania, cercano più ingegneri e operai specializzati che non dei latinisti”.
– “la scuola è buona se prepara anche al lavoro, non solo allo sviluppo personale e intellettuale”.
– “il lavoro lo crea l’impresa, non lo Stato. Siamo in una fragile ripresa economica e quindi dobbiamo intercettare questo vento favorevole”.
– “Il ruolo del governo è quello di creare le condizioni macroeconomiche per questo sviluppo e perché la crescita sia sostenibile e duratura”.
– “Quindi, un maggiore scambio tra lavoro e scuola, lavoro e università, e una maggiore sintonia fra questi due settori”, sarebbe la soluzione valida sia a livello formativo che occupazionale.
Vecchia paccottiglia neoliberista, se stiamo alle pure dichiarazioni. In realtà non è un programma, ma la difesa pure e semplice della “buona scuola” di Giannini-Fedeli-Renzi. Ognuna di queste affermazioni è facilmente confutabile sul piano teorico e soprattutto empirico. Per esempio: le imprese, in Italia, non stanno affatto “creando lavoro”, ma semplicemente eliminando lavoratori assunti con contratti “buoni” per sostituirli con precari pagati una miseria.
Ma dove la Bonino dà il peggio di sé è nella critica della formazione umanistica a vantaggio di quella puramente tecnico-esecutiva. Non serve un genio per capire che, se un paese smette di produrre gente capace di pensare autonomamente, magari con spirito critico verso la “formazione” che passa il convento, quel paese non ha futuro. Basterebbero pochi esempi per demolire questa idea, anzi uno solo: Sergio Marchionne prese la prima laurea... in filosofia. Certo, non fece poi buon uso delle capacità proprie della materia, ma di sicuro non si può dire che la filosofia gli abbia limitato il successo nel mondo delle imprese...
Né si può sottovalutare il fatto che moltissimi scienziati “duri”, nella storia della ricerca italiana, siano arrivati all’università con un solida formazione fatta al liceo classico.
In ogni caso, l’idea che una “formazione tecnico-industriale” garantisca di per sé una maggiore probabilità di trovare lavoro contrasta con la realtà effettiva dell’Italia, dove – a parte alcune zone di eccellenza davvero di prima qualità – il patrimonio industriale sta andando in malora o in vendita rapida.
Ma su un punto Emma Bonino mostra una singolare ignoranza delle caratteristiche fondamentali del paese in cui è nata. Soltanto qui, o soprattutto qui, esiste un patrimonio storico-architettonico-culturale di dimensioni colossali che richiede un numero proporzionale di “scienziati umanistici”; ossia latinisti, grecisti, medioevisti, restauratori, filologi (in varie lingue), ecc.
Soltanto o soprattutto in Italia, insomma, determinati insegnamenti non costituiscono solo un “arricchiamento culturale individuale”, ma anche una dotazione professionale in grado di produrre ricchezza, ossia prodotto interno lordo.
E’ secondo noi la riprova che il background di interessi che spinge il personaggio politico Bonino non ha nulla a che fare con “la crescita” di questo o di qualsiasi altro paese; ma soltanto con l’appropriazione privatistica della ricchezza producibile secondo schemi decisi altrove.
Fonte
La sortita che interessa da vicino oltre un milione di lavoratori e la maggior parte delle famiglie italiane è avvenuta due giorni fa, in teleconferenza, e riguarda il mondo della scuola.
Vale la pena di citare qualche perla:
– la “scuola deve preparare più e meglio al lavoro: va bene il boom del liceo classico (in realtà si sta solo contrastando la sensibile perdita di iscritti, ndr), ma nei Paesi vicini alla piena occupazione come la Germania, cercano più ingegneri e operai specializzati che non dei latinisti”.
– “la scuola è buona se prepara anche al lavoro, non solo allo sviluppo personale e intellettuale”.
– “il lavoro lo crea l’impresa, non lo Stato. Siamo in una fragile ripresa economica e quindi dobbiamo intercettare questo vento favorevole”.
– “Il ruolo del governo è quello di creare le condizioni macroeconomiche per questo sviluppo e perché la crescita sia sostenibile e duratura”.
– “Quindi, un maggiore scambio tra lavoro e scuola, lavoro e università, e una maggiore sintonia fra questi due settori”, sarebbe la soluzione valida sia a livello formativo che occupazionale.
Vecchia paccottiglia neoliberista, se stiamo alle pure dichiarazioni. In realtà non è un programma, ma la difesa pure e semplice della “buona scuola” di Giannini-Fedeli-Renzi. Ognuna di queste affermazioni è facilmente confutabile sul piano teorico e soprattutto empirico. Per esempio: le imprese, in Italia, non stanno affatto “creando lavoro”, ma semplicemente eliminando lavoratori assunti con contratti “buoni” per sostituirli con precari pagati una miseria.
Ma dove la Bonino dà il peggio di sé è nella critica della formazione umanistica a vantaggio di quella puramente tecnico-esecutiva. Non serve un genio per capire che, se un paese smette di produrre gente capace di pensare autonomamente, magari con spirito critico verso la “formazione” che passa il convento, quel paese non ha futuro. Basterebbero pochi esempi per demolire questa idea, anzi uno solo: Sergio Marchionne prese la prima laurea... in filosofia. Certo, non fece poi buon uso delle capacità proprie della materia, ma di sicuro non si può dire che la filosofia gli abbia limitato il successo nel mondo delle imprese...
Né si può sottovalutare il fatto che moltissimi scienziati “duri”, nella storia della ricerca italiana, siano arrivati all’università con un solida formazione fatta al liceo classico.
In ogni caso, l’idea che una “formazione tecnico-industriale” garantisca di per sé una maggiore probabilità di trovare lavoro contrasta con la realtà effettiva dell’Italia, dove – a parte alcune zone di eccellenza davvero di prima qualità – il patrimonio industriale sta andando in malora o in vendita rapida.
Ma su un punto Emma Bonino mostra una singolare ignoranza delle caratteristiche fondamentali del paese in cui è nata. Soltanto qui, o soprattutto qui, esiste un patrimonio storico-architettonico-culturale di dimensioni colossali che richiede un numero proporzionale di “scienziati umanistici”; ossia latinisti, grecisti, medioevisti, restauratori, filologi (in varie lingue), ecc.
Soltanto o soprattutto in Italia, insomma, determinati insegnamenti non costituiscono solo un “arricchiamento culturale individuale”, ma anche una dotazione professionale in grado di produrre ricchezza, ossia prodotto interno lordo.
E’ secondo noi la riprova che il background di interessi che spinge il personaggio politico Bonino non ha nulla a che fare con “la crescita” di questo o di qualsiasi altro paese; ma soltanto con l’appropriazione privatistica della ricchezza producibile secondo schemi decisi altrove.
Fonte
La Nato e la Jihad
L’alleanza dell’esercito turco con Al Qaeda non è uno scivolone. La Nato si serve da 40 anni di jihadisti come truppe ausiliarie.
All’attacco dell’esercito turco al cantone di Afrin nel nord della Siria prendono parte numerosi gruppi combattenti jihadisti. Molte di queste formazioni, che agiscono sotto le insegne dell’Esercito Libero Siriano (ESL), presentano una vicinanza ideologica o perfino organizzativa alla rete del terrorismo che agisce a livello internazionale. La sua propaggine ufficiale in Siria, il Fronte al-Nusra, per motivi tattici nel 2013 ha preso le distanze da Al Qaeda per avere più facile accesso ad aiuti militari dall’estero, ma intanto nei suoi obiettivi di uno Stato islamico in Siria è cambiato tanto poco, quanto non è cambiato il modo di procedere omicida contro chi la pensa diversamente o appartiene a una fede diversa.
Dal 2017 il Fronte Al-Nusra è la forza guida dell’alleanza jihadista Hayat Tahrir Al-Sham (HTS), che tiene sotto il proprio controllo la provincia di Idlib. In base all’accordo di Astana con la Russia e l’Iran a Idlib sono stanziate truppe turche, ufficialmente per controllare la creazione di una zona libera da conflitti nella regione. Ma come ha riferito il giornalista Fehim Tastekin, per il portale di notizie Al-Monitor, facendo riferimento a fonti HTS, l’esercito turco ha garantito a HTS che l’operazione era rivolta solo contro i curdi a Afrin. Di fatto l’esercito turco, il cui ingresso a Idlib nell’ottobre 2017 è stato scortato da combattenti HTS, è diventato forza protettrice di Al Qaeda.
Tra alcuni commentatori di orientamento liberale nei media occidentali, il patto dell’esercito NATO turco con gli islamisti ha provocato un grido di indignazione. Questa indignazione è fondamentalmente comprensibile. In effetti la NATO dagli attentati dell’11 settembre 2001 negli USA conduce dichiaratamente a livello mondiale una “guerra contro il terrorismo” e gli USA dall’estate 2014 sono al vertice di un’alleanza internazionale contro il cosiddetto Stato Islamico (IS). Tuttavia è sorprendente quanto appare corta la memoria di queste aree liberali, se lì ora risuona la richiesta di un’esclusione della Turchia dalla NATO per via della sua collaborazione con Al Qaeda. Perché il rapporto dell’alleanza militare con i “guerrieri di dio” jihadisti non è affatto stata sempre caratterizzata da aperta inimicizia, anzi, il contrario.
Nascita di Al Qaeda da una banca dati
La storia è iniziata nel 1979, quando il Presidente USA Jimmy Carter ha ordinato un sostegno coperto da parte di oppositori islamisti al governo laico di sinistra in Afghanistan. L’obiettivo sarebbe stato quello di provocare in questo modo un ingresso sovietico, perché i russi cadessero così “nella trappola afgana” e avessero “la loro guerra del Vietnam”, ha poi schiettamente riconosciuto il consulente del Presidente USA per le questioni di sicurezza nazionale, Zbigniev Brzezinski. Il piano è riuscito. La decennale guerra con molte perdite sull’Hindu Kush ha contribuito in modo sostanziale al crollo del dominio sovietico.
Sotto il successore di Carter, Ronald Reagan, il sostegno ai mujaheddin con armi e denaro è cresciuto fino a diventare la più grande operazione sotto copertura nella storia della CIA, i servizi segreti degli USA. La CIA in questo evitò di avere contatti diretti con i jihadisti, dato che questi nella loro concezione di sé erano sia anti-americani che anti-comunisti. Il sostegno con armi e aiuti nell’addestramento si svolse attraverso la mediazione dei servizi segreti pakistani ISI.
Tra il 1982 e il 1992 furono reclutati circa 35.000 jihadisti da 40 Stati del mondo islamico per la “Jihad” contro l’Unione Sovietica. In scuole coraniche wahabite in Pakistan, finanziate con denaro saudita, i volontari vennero istruiti ideologicamente. Successivamente nei campi di addestramento gestiti dai servizi segreti pakistani, passarono l’addestramento alla guerriglia guidato dalla CIA. Un procacciatore di successo per i nuovi guerrieri di Dio fu l’agiato saudita figlio di un imprenditore, Osama bin Laden. Con il suo ufficio di reclutamento per i mujaheddin MAK, dalla metà degli anni ’80 esisteva la base operativa dalla quale all’inizio degli anni ’90 nacque Al Qaeda come organizzazione di bin Laden.
“Al Qaeda, letteralmente `la banca dati´, originariamente era un archivio computerizzato con migliaia di mujaheddin che erano stati reclutati e addestrati con l’aiuto della CIA per vincere i russi”, ha scritto l’ex Ministro degli Esteri britannico Robin Cook il 7 luglio 2005 sul Guardian. Il MAK, con il centro profughi Al-Kifah nella moschea Al-Farook a Brooklyn aveva perfino una base di appoggio negli USA, dove sotto la copertura di un’organizzazione di aiuti venivano reclutati combattenti per una “legione straniera arabo-afgana”.
Se non si fosse pentito di aver passato armi e know-how a futuri terroristi, chiese il giornale francese Le Nouvel Observateur nel 1998 dallo stratega US Brzezinski. “Cosa sarà più significativo nel corso della storia mondiale? I talebani o il crollo dell’impero sovietico? Qualche musulmano confuso o la liberazione del Centro-Europa e la fine della guerra fredda?”, fu la risposta.
Globalizzazione dei guerrieri di Dio
Dopo la fine dell’URSS, la CIA continuò a servirsi dei mujaheddin, che ora trovavano impiego nel Vicino Oriente, in Asia Centrale, nei Balcani e nel sudest asiatico. Dal 1992 i combattenti jihadisti accorsero nella Yugoslavia che si andava disfacendo in una sanguinosa guerra civile, per prestare sostegno ai musulmani bosniaci. Come in precedenza in Afghanistan, gli interessi tattici degli USA e di Al Qaeda si incontrarono. Perché per costringere in ginocchio il resto resistente della Yugoslavia, sotto il Presidente serbo Milosevic, la NATO intervenne militarmente nella guerra civile al fianco dei musulmani bosniaci.
L’amministrazione USA in cambio tollerò anche la rottura di un embargo sulle armi del Consiglio di Sicurezza dell’ONU da parte del suo arcinemico Iran, nonché della Turchia e dell’Arabia Saudita. Attraverso la Third World Relief Agency con sede a Vienna, Al Qaeda reclutò combattenti per la Bosnia. A Osama bin Laden venne perfino rilasciato un passaporto bosniaco dal governo filo-occidentale di Alija Izetbegovic. Con il benestare del Presidente USA, Bill Clinton, i combattenti di Al-Qaeda, il cui numero venne stimato in almeno 4000 da osservatori occidentali, vennero armati e addestrati dall’esercito musulmano-bosniaco, mentre gli aerei da combattimento della NATO davano sostegno aereo.
Invero i mujaheddin impiegati come truppe di sfondamento ebbero un’influenza piuttosto ridotta sullo svolgimento della guerra per via del loro fanatismo e delle atrocità che commettevano, incontrando un aperto rifiuto da parte della popolazione musulmana locale. Ma attraverso la loro missione in Bosnia i “guerrieri di dio”, dopo l’Afghanistan furono in grado di assicurarsi un punto d’appoggio europeo per ulteriori operazioni. Il Partito Repubblicano statunitense in un rapporto al congresso del 1997 accusò quindi il governo Clinton di “aver contribuito a creare in Bosnia una base per islamisti militanti”.
A tutt’oggi in Bosnia interi villaggi sono sotto il controllo di jihadisti radicali. Da nessun altro Paese europeo si è unita alla jihad in Siria una percentuale di volontari così alta rispetto alla popolazione come dalla Bosnia. Se l’intervento dell’amministrazione Reagan, di destra, in Afghanistan negli anni ’80 aveva creato i mujaheddin, il governo liberal dell’amministrazione Clinton con il suo intervento aperto nei Balcani negli anni ’90, ha contribuito in modo sostanziale alla globalizzazione dei “guerrieri di dio”. Dalla Bosnia alcuni jihadisti proseguirono verso la Cecenia e più tardi nel Kosovo, dove la NATO intervenne nel 1999 con massicci attacchi aerei al fianco dell’esercito di liberazione del Kosovo UCK contro la Serbia.
Dichiarazione di guerra contro gli USA
Naturalmente Al Qaeda non si è mai concepita come truppa mercenaria degli USA e della NATO. Gli USA venivano piuttosto considerati come “nemico strategico”, cosa che non escludeva alleanze tattiche come in Afghanistan e in Bosnia. Nel 1996, tramite Osama bin Laden, partì una dichiarazione di guerra ufficiale di Al Qaeda contro gli USA. Nel 1998 ci furono attacchi simultanei all’ambasciata USA in Kenia e al cacciatorpediniere USA USS Cole nel porto di Aden. Gli attentati al World Trade Center e al Pentagono dell’11 settembre 2001 vennero usati dal Presidente USA George W. Bush come motivazione per una “guerra contro il terrorismo” a livello mondiale.
Con questo pretesto la NATO intervenne in Afghanistan, dove con i talebani, quindi gli “allievi” delle madrasse pakistane create con l’aiuto dei sauditi e della CIA negli anni ‘80, era stato costruito un regime del terrore.
Nel 2003 l’esercito USA fece ingresso in Iraq, il cui dittatore Saddam Hussein aveva usato gas tossico contro i curdi negli anni '80, ma non presentava alcun tipo di vicinanza con Al Qaeda. Con il crollo dello Stato irakeno, in precedenza dominato dai sunniti, e l’installazione di un governo a guida sciita a Bagdad, che ora procedeva in modo sanguinario contro i sunniti, gli USA contribuirono in modo determinante al terreno di coltura sul quale Al Qaeda poté stabilirsi in Iraq come “vendicatore dei sunniti”. Che Al Qaeda con attacchi a moschee sciite abbia iniziato una guerra di religione settaria, proprio mentre iniziava ad avvicinarsi la resistenza sunnita e sciita contro l’occupazione, fu quantomeno nell’interesse degli USA. Mentre l’amministrazione Obama inaspriva sempre di più la guerra dei droni contro Al Qaeda in Afghanistan e Pakistan con numerose vittime civili, dal 2011 nel Medio Oriente e in Nord-Africa si verificava un nuovo spalleggiamento tra NATO e Al Qaeda.
Da Guantanamo al fianco della NATO
Nel 2011 in Libia si è disfatto il regime del colonnello Muammar al-Gheddafi. Seguaci di Al-Qaeda, dei quali alcuni in precedenza avevano combattuto contro gli USA nel gruppo combattente libico-islamico LIK o in Afghanistan e in Iraq, formarono la punta di lancia militarmente più esperta dei ribelli. Anche nel “Consiglio Nazionale Transitorio” che si era formato nei primi giorni della rivolta, oltre a golpisti comandati dalla CIA e ai transfughi del regime di Gheddafi, erano presenti persone vicine ad Al-Qaeda. Obiettivo dichiarato della NATO era la caduta di Gheddafi che si contrapponeva continuamente agli interessi degli Stati imperialisti per la ri-colonizzazione del Paese ricco di petrolio. Con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 1973 sull’imposizione della zona di non volo, la NATO ottenne il via libera per una guerra aerea contro la Libia e con questo agì di fatto come l’aviazione di Al Qaeda.
I rapporti cinici della NATO con Al Qaeda li chiariscono alcune generalità tra i ribelli libici. Abdel Hakim Belhadj negli anni ’80 aveva combattuto al fianco dei mujaheddin di Osama bin Laden in Afghanistan. Negli anni ’90 guidò il gruppo combattente libico islamico LIK che in Libia combatteva in armi per uno Stato islamico. Alla fine degli anni ’90 Belhadj fuggì dalla Libia. Dato che il LIK dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 era nella lista delle organizzazioni terroristiche degli USA, nel 2003 venne arrestato da agenti britannici e della CIA in Malaysia per sospetta appartenenza a Al-Qaeda. Dopo interrogatori in Thailandia e a Hong Kong, Belhadj l’anno successivo venne consegnato ai servizi segreti libici. Dopo un internamento di sei anni in un carcere noto per le torture, nel marzo 2010 venne liberato a seguito di trattative tra LIK e il regime. In quel momento era emiro del LIK che dal 2007 si era ufficialmente fuso con Al Qaeda nel Maghreb islamico. Con l’inizio della rivolta in Libia nel 2011, il LIK venne subordinato al Consiglio Transitorio e Belhadj diventò Presidente del potente Consiglio Militare di Tripoli. Invano Belhadj, che dopo l’uccisione di Gheddafi era diventato capo del partito islamico conservatore Watan in Libia e negava ogni legame con Al Qaeda, chiese delle scuse per il suo sequestro di un tempo.
Un altro ex militante del LIK, Abu bin Qumu, per via della sua appartenenza a Al-Qaeda venne incarcerato per cinque anni nel carcere USA di Guantanamo. Nel 2007 venne espulso in Libia, dove dopo un anno venne liberato a seguito di un’amnistia. Nel 2011 Qumu, con la sua “Brigata Darnah” combatté al fianco dei ribelli sostenuti dalla NATO.
Emirato salafita in Siria
Anche in Siria gli USA e i loro alleati – in particolare la Turchia e gli Stati del Golfo – non esitarono ad armare bande di mercenari jihadisti per l’agognata caduta del regime del Presidente Bashar al-Assad. Mentre larga parte della stampa occidentale descriveva come nobili ribelli l’opposizione armata che si presentava con il nome di Esercito Siriano Libero (ESL), i servizi segreti USA non si facevano illusioni su cosa animasse questi combattenti. Questo lo dimostra un rapporto del 2012 dei servizi informativi della difesa (DIA) delle forze armate USA. Che “l’allargamento della rivolta in Siria” avrebbe preso sempre di più una “direzione settaria”, in cui “i salafiti, i Fratelli Musulmani e AQI (Al-Qaeda in Iraq) sono le principali forze motrici della rivolta in Siria”, si legge nel documento, nel quale si prevede “la possibilità della creazione di un costituendo o non ufficialmente dichiarato califfato salafita nell’est della Siria”. “E questo è proprio quello che vogliono i sostenitori dell’opposizione per isolare il regime siriano e arginare l’espansione sciita in Iraq da parte dell’Iran”, faceva notare la DIA con riferimento all’opportunità strategica per gli obiettivi geopolitici dell’occidente, degli Stati del Golfo e della Turchia.
Quando tuttavia da una costola di Al-Qaeda/Al-Nusra nacque Stato Islamico (IS) e proclamò il suo califfato che oltrepassava i confini, gli USA nel 2014 si misero ai vertici di una coalizione internazionale anti-IS. Perché ora si trattava di arginare i “guerrieri di dio” diventati incontrollabili, con i loro attentati che mettevano in pericolo gli interessi di sicurezza del mondo occidentale anche all’estero. Che la Turchia, partner della NATO, sostenesse IS nella battaglia per Kobane e anche dopo, mantenendo aperti i confini per i “guerrieri di dio” e attraverso aiuti logistici, almeno verso l’esterno non veniva considerato una contraddizione rispetto all’appartenenza ufficiale della Turchia all’alleanza anti-IS.
Dal 2015 gli USA hanno costituito ufficialmente una buona mezza dozzina di punti di appoggio militari in Siria per sostenere le Forze Siriane Democratiche (FSD) nella lotta anti-IS. Tuttavia l’alleanza tra le FSD e l’esercito USA, per via di opposte ideologie, viene intesa da entrambe le parti solo come un’alleanza tattico-militare contro IS. Ma che la regione ricca di materie prime controllata dalle FSD resti sottratta al potere del regime a Damasco, è assolutamente negli interessi strategici di Washington. È quindi prevedibile che anche dopo la liberazione di Raqqa e Deir ez-Zor una persistente minaccia da parte di IS sia funzionale a uno stazionamento a lungo termine di truppe USA in Siria. Ma con questo IS, nella cui creazione e diffusione gli USA hanno avuto la loro parte, avrebbe assolutamente assolto il suo dovere per i piani geostrategici di Washington.
Mentre IS è stato combattuto militarmente, è continuato il sostegno politico e militare ai gruppi vicini a Al-Qaeda in Siria, ripuliti come “ribelli moderati” dai governi e dai media occidentali. Oltre 30 milizie appartenenti nominalmente all’ESL lo scorso anno sono state riunite sotto guida turca in un Esercito Nazionale Siriano che pare conti 22.000 uomini. Di questa truppa ora firmante come mercenaria della Turchia, fanno parte raggruppamenti jihadisti come l’associazione Ahrar Al-Sham, soccombente ad al-Nusra nelle lotte per l’egemonia a Idlib, Harka Nur Al-Din Al-Zenki e Ahrar Al-Sharkija.
“Tutti i gruppi che predono parte all’offensiva turca, una volta o l’altra sono stati sostenuti e approfonditamente verificati dagli USA”, ha confermato Charles Lister del Think Tank di Washington Middle East Institute, che da tempo fornisce una lettura positiva di Al-Qaeda in Siria, rispetto ai gruppi che ora combattono per la Turchia ad Afrin. Questa constatazione non dovrebbe suscitare stupore. USA e NATO fin dagli anni ’80 si sono continuamente serviti di jihadisti come truppe ausiliarie per far passare i propri interessi geopolitici. Questo non esclude affatto che gli islamisti radicali verranno di nuovo arginati militarmente se dovessero andare fuori controllo. La lotta contro il terrorismo viene poi a sua volta usata dalla NATO per interventi militari e per la creazione di nuove basi d’appoggio in tutto il mondo. Chi si aspetta dalla NATO una lotta coerente contro Al Qaeda & Co oppure una presa di distanze dalla Turchia a causa del suo patto con gli jihadisti, non ha capito la natura di questa alleanza militare imperialista.
YENİ ÖZGÜR POLİTİKA
Versione tedesca: http://yeniozgurpolitika.org/index.php?rupel=nuce&id=83680
Versione turca: http://www.yeniozgurpolitika.org/index.php?rupel=nuce&id=83646
Fonte
All’attacco dell’esercito turco al cantone di Afrin nel nord della Siria prendono parte numerosi gruppi combattenti jihadisti. Molte di queste formazioni, che agiscono sotto le insegne dell’Esercito Libero Siriano (ESL), presentano una vicinanza ideologica o perfino organizzativa alla rete del terrorismo che agisce a livello internazionale. La sua propaggine ufficiale in Siria, il Fronte al-Nusra, per motivi tattici nel 2013 ha preso le distanze da Al Qaeda per avere più facile accesso ad aiuti militari dall’estero, ma intanto nei suoi obiettivi di uno Stato islamico in Siria è cambiato tanto poco, quanto non è cambiato il modo di procedere omicida contro chi la pensa diversamente o appartiene a una fede diversa.
Dal 2017 il Fronte Al-Nusra è la forza guida dell’alleanza jihadista Hayat Tahrir Al-Sham (HTS), che tiene sotto il proprio controllo la provincia di Idlib. In base all’accordo di Astana con la Russia e l’Iran a Idlib sono stanziate truppe turche, ufficialmente per controllare la creazione di una zona libera da conflitti nella regione. Ma come ha riferito il giornalista Fehim Tastekin, per il portale di notizie Al-Monitor, facendo riferimento a fonti HTS, l’esercito turco ha garantito a HTS che l’operazione era rivolta solo contro i curdi a Afrin. Di fatto l’esercito turco, il cui ingresso a Idlib nell’ottobre 2017 è stato scortato da combattenti HTS, è diventato forza protettrice di Al Qaeda.
Tra alcuni commentatori di orientamento liberale nei media occidentali, il patto dell’esercito NATO turco con gli islamisti ha provocato un grido di indignazione. Questa indignazione è fondamentalmente comprensibile. In effetti la NATO dagli attentati dell’11 settembre 2001 negli USA conduce dichiaratamente a livello mondiale una “guerra contro il terrorismo” e gli USA dall’estate 2014 sono al vertice di un’alleanza internazionale contro il cosiddetto Stato Islamico (IS). Tuttavia è sorprendente quanto appare corta la memoria di queste aree liberali, se lì ora risuona la richiesta di un’esclusione della Turchia dalla NATO per via della sua collaborazione con Al Qaeda. Perché il rapporto dell’alleanza militare con i “guerrieri di dio” jihadisti non è affatto stata sempre caratterizzata da aperta inimicizia, anzi, il contrario.
Nascita di Al Qaeda da una banca dati
La storia è iniziata nel 1979, quando il Presidente USA Jimmy Carter ha ordinato un sostegno coperto da parte di oppositori islamisti al governo laico di sinistra in Afghanistan. L’obiettivo sarebbe stato quello di provocare in questo modo un ingresso sovietico, perché i russi cadessero così “nella trappola afgana” e avessero “la loro guerra del Vietnam”, ha poi schiettamente riconosciuto il consulente del Presidente USA per le questioni di sicurezza nazionale, Zbigniev Brzezinski. Il piano è riuscito. La decennale guerra con molte perdite sull’Hindu Kush ha contribuito in modo sostanziale al crollo del dominio sovietico.
Sotto il successore di Carter, Ronald Reagan, il sostegno ai mujaheddin con armi e denaro è cresciuto fino a diventare la più grande operazione sotto copertura nella storia della CIA, i servizi segreti degli USA. La CIA in questo evitò di avere contatti diretti con i jihadisti, dato che questi nella loro concezione di sé erano sia anti-americani che anti-comunisti. Il sostegno con armi e aiuti nell’addestramento si svolse attraverso la mediazione dei servizi segreti pakistani ISI.
Tra il 1982 e il 1992 furono reclutati circa 35.000 jihadisti da 40 Stati del mondo islamico per la “Jihad” contro l’Unione Sovietica. In scuole coraniche wahabite in Pakistan, finanziate con denaro saudita, i volontari vennero istruiti ideologicamente. Successivamente nei campi di addestramento gestiti dai servizi segreti pakistani, passarono l’addestramento alla guerriglia guidato dalla CIA. Un procacciatore di successo per i nuovi guerrieri di Dio fu l’agiato saudita figlio di un imprenditore, Osama bin Laden. Con il suo ufficio di reclutamento per i mujaheddin MAK, dalla metà degli anni ’80 esisteva la base operativa dalla quale all’inizio degli anni ’90 nacque Al Qaeda come organizzazione di bin Laden.
“Al Qaeda, letteralmente `la banca dati´, originariamente era un archivio computerizzato con migliaia di mujaheddin che erano stati reclutati e addestrati con l’aiuto della CIA per vincere i russi”, ha scritto l’ex Ministro degli Esteri britannico Robin Cook il 7 luglio 2005 sul Guardian. Il MAK, con il centro profughi Al-Kifah nella moschea Al-Farook a Brooklyn aveva perfino una base di appoggio negli USA, dove sotto la copertura di un’organizzazione di aiuti venivano reclutati combattenti per una “legione straniera arabo-afgana”.
Se non si fosse pentito di aver passato armi e know-how a futuri terroristi, chiese il giornale francese Le Nouvel Observateur nel 1998 dallo stratega US Brzezinski. “Cosa sarà più significativo nel corso della storia mondiale? I talebani o il crollo dell’impero sovietico? Qualche musulmano confuso o la liberazione del Centro-Europa e la fine della guerra fredda?”, fu la risposta.
Globalizzazione dei guerrieri di Dio
Dopo la fine dell’URSS, la CIA continuò a servirsi dei mujaheddin, che ora trovavano impiego nel Vicino Oriente, in Asia Centrale, nei Balcani e nel sudest asiatico. Dal 1992 i combattenti jihadisti accorsero nella Yugoslavia che si andava disfacendo in una sanguinosa guerra civile, per prestare sostegno ai musulmani bosniaci. Come in precedenza in Afghanistan, gli interessi tattici degli USA e di Al Qaeda si incontrarono. Perché per costringere in ginocchio il resto resistente della Yugoslavia, sotto il Presidente serbo Milosevic, la NATO intervenne militarmente nella guerra civile al fianco dei musulmani bosniaci.
L’amministrazione USA in cambio tollerò anche la rottura di un embargo sulle armi del Consiglio di Sicurezza dell’ONU da parte del suo arcinemico Iran, nonché della Turchia e dell’Arabia Saudita. Attraverso la Third World Relief Agency con sede a Vienna, Al Qaeda reclutò combattenti per la Bosnia. A Osama bin Laden venne perfino rilasciato un passaporto bosniaco dal governo filo-occidentale di Alija Izetbegovic. Con il benestare del Presidente USA, Bill Clinton, i combattenti di Al-Qaeda, il cui numero venne stimato in almeno 4000 da osservatori occidentali, vennero armati e addestrati dall’esercito musulmano-bosniaco, mentre gli aerei da combattimento della NATO davano sostegno aereo.
Invero i mujaheddin impiegati come truppe di sfondamento ebbero un’influenza piuttosto ridotta sullo svolgimento della guerra per via del loro fanatismo e delle atrocità che commettevano, incontrando un aperto rifiuto da parte della popolazione musulmana locale. Ma attraverso la loro missione in Bosnia i “guerrieri di dio”, dopo l’Afghanistan furono in grado di assicurarsi un punto d’appoggio europeo per ulteriori operazioni. Il Partito Repubblicano statunitense in un rapporto al congresso del 1997 accusò quindi il governo Clinton di “aver contribuito a creare in Bosnia una base per islamisti militanti”.
A tutt’oggi in Bosnia interi villaggi sono sotto il controllo di jihadisti radicali. Da nessun altro Paese europeo si è unita alla jihad in Siria una percentuale di volontari così alta rispetto alla popolazione come dalla Bosnia. Se l’intervento dell’amministrazione Reagan, di destra, in Afghanistan negli anni ’80 aveva creato i mujaheddin, il governo liberal dell’amministrazione Clinton con il suo intervento aperto nei Balcani negli anni ’90, ha contribuito in modo sostanziale alla globalizzazione dei “guerrieri di dio”. Dalla Bosnia alcuni jihadisti proseguirono verso la Cecenia e più tardi nel Kosovo, dove la NATO intervenne nel 1999 con massicci attacchi aerei al fianco dell’esercito di liberazione del Kosovo UCK contro la Serbia.
Dichiarazione di guerra contro gli USA
Naturalmente Al Qaeda non si è mai concepita come truppa mercenaria degli USA e della NATO. Gli USA venivano piuttosto considerati come “nemico strategico”, cosa che non escludeva alleanze tattiche come in Afghanistan e in Bosnia. Nel 1996, tramite Osama bin Laden, partì una dichiarazione di guerra ufficiale di Al Qaeda contro gli USA. Nel 1998 ci furono attacchi simultanei all’ambasciata USA in Kenia e al cacciatorpediniere USA USS Cole nel porto di Aden. Gli attentati al World Trade Center e al Pentagono dell’11 settembre 2001 vennero usati dal Presidente USA George W. Bush come motivazione per una “guerra contro il terrorismo” a livello mondiale.
Con questo pretesto la NATO intervenne in Afghanistan, dove con i talebani, quindi gli “allievi” delle madrasse pakistane create con l’aiuto dei sauditi e della CIA negli anni ‘80, era stato costruito un regime del terrore.
Nel 2003 l’esercito USA fece ingresso in Iraq, il cui dittatore Saddam Hussein aveva usato gas tossico contro i curdi negli anni '80, ma non presentava alcun tipo di vicinanza con Al Qaeda. Con il crollo dello Stato irakeno, in precedenza dominato dai sunniti, e l’installazione di un governo a guida sciita a Bagdad, che ora procedeva in modo sanguinario contro i sunniti, gli USA contribuirono in modo determinante al terreno di coltura sul quale Al Qaeda poté stabilirsi in Iraq come “vendicatore dei sunniti”. Che Al Qaeda con attacchi a moschee sciite abbia iniziato una guerra di religione settaria, proprio mentre iniziava ad avvicinarsi la resistenza sunnita e sciita contro l’occupazione, fu quantomeno nell’interesse degli USA. Mentre l’amministrazione Obama inaspriva sempre di più la guerra dei droni contro Al Qaeda in Afghanistan e Pakistan con numerose vittime civili, dal 2011 nel Medio Oriente e in Nord-Africa si verificava un nuovo spalleggiamento tra NATO e Al Qaeda.
Da Guantanamo al fianco della NATO
Nel 2011 in Libia si è disfatto il regime del colonnello Muammar al-Gheddafi. Seguaci di Al-Qaeda, dei quali alcuni in precedenza avevano combattuto contro gli USA nel gruppo combattente libico-islamico LIK o in Afghanistan e in Iraq, formarono la punta di lancia militarmente più esperta dei ribelli. Anche nel “Consiglio Nazionale Transitorio” che si era formato nei primi giorni della rivolta, oltre a golpisti comandati dalla CIA e ai transfughi del regime di Gheddafi, erano presenti persone vicine ad Al-Qaeda. Obiettivo dichiarato della NATO era la caduta di Gheddafi che si contrapponeva continuamente agli interessi degli Stati imperialisti per la ri-colonizzazione del Paese ricco di petrolio. Con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 1973 sull’imposizione della zona di non volo, la NATO ottenne il via libera per una guerra aerea contro la Libia e con questo agì di fatto come l’aviazione di Al Qaeda.
I rapporti cinici della NATO con Al Qaeda li chiariscono alcune generalità tra i ribelli libici. Abdel Hakim Belhadj negli anni ’80 aveva combattuto al fianco dei mujaheddin di Osama bin Laden in Afghanistan. Negli anni ’90 guidò il gruppo combattente libico islamico LIK che in Libia combatteva in armi per uno Stato islamico. Alla fine degli anni ’90 Belhadj fuggì dalla Libia. Dato che il LIK dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 era nella lista delle organizzazioni terroristiche degli USA, nel 2003 venne arrestato da agenti britannici e della CIA in Malaysia per sospetta appartenenza a Al-Qaeda. Dopo interrogatori in Thailandia e a Hong Kong, Belhadj l’anno successivo venne consegnato ai servizi segreti libici. Dopo un internamento di sei anni in un carcere noto per le torture, nel marzo 2010 venne liberato a seguito di trattative tra LIK e il regime. In quel momento era emiro del LIK che dal 2007 si era ufficialmente fuso con Al Qaeda nel Maghreb islamico. Con l’inizio della rivolta in Libia nel 2011, il LIK venne subordinato al Consiglio Transitorio e Belhadj diventò Presidente del potente Consiglio Militare di Tripoli. Invano Belhadj, che dopo l’uccisione di Gheddafi era diventato capo del partito islamico conservatore Watan in Libia e negava ogni legame con Al Qaeda, chiese delle scuse per il suo sequestro di un tempo.
Un altro ex militante del LIK, Abu bin Qumu, per via della sua appartenenza a Al-Qaeda venne incarcerato per cinque anni nel carcere USA di Guantanamo. Nel 2007 venne espulso in Libia, dove dopo un anno venne liberato a seguito di un’amnistia. Nel 2011 Qumu, con la sua “Brigata Darnah” combatté al fianco dei ribelli sostenuti dalla NATO.
Emirato salafita in Siria
Anche in Siria gli USA e i loro alleati – in particolare la Turchia e gli Stati del Golfo – non esitarono ad armare bande di mercenari jihadisti per l’agognata caduta del regime del Presidente Bashar al-Assad. Mentre larga parte della stampa occidentale descriveva come nobili ribelli l’opposizione armata che si presentava con il nome di Esercito Siriano Libero (ESL), i servizi segreti USA non si facevano illusioni su cosa animasse questi combattenti. Questo lo dimostra un rapporto del 2012 dei servizi informativi della difesa (DIA) delle forze armate USA. Che “l’allargamento della rivolta in Siria” avrebbe preso sempre di più una “direzione settaria”, in cui “i salafiti, i Fratelli Musulmani e AQI (Al-Qaeda in Iraq) sono le principali forze motrici della rivolta in Siria”, si legge nel documento, nel quale si prevede “la possibilità della creazione di un costituendo o non ufficialmente dichiarato califfato salafita nell’est della Siria”. “E questo è proprio quello che vogliono i sostenitori dell’opposizione per isolare il regime siriano e arginare l’espansione sciita in Iraq da parte dell’Iran”, faceva notare la DIA con riferimento all’opportunità strategica per gli obiettivi geopolitici dell’occidente, degli Stati del Golfo e della Turchia.
Quando tuttavia da una costola di Al-Qaeda/Al-Nusra nacque Stato Islamico (IS) e proclamò il suo califfato che oltrepassava i confini, gli USA nel 2014 si misero ai vertici di una coalizione internazionale anti-IS. Perché ora si trattava di arginare i “guerrieri di dio” diventati incontrollabili, con i loro attentati che mettevano in pericolo gli interessi di sicurezza del mondo occidentale anche all’estero. Che la Turchia, partner della NATO, sostenesse IS nella battaglia per Kobane e anche dopo, mantenendo aperti i confini per i “guerrieri di dio” e attraverso aiuti logistici, almeno verso l’esterno non veniva considerato una contraddizione rispetto all’appartenenza ufficiale della Turchia all’alleanza anti-IS.
Dal 2015 gli USA hanno costituito ufficialmente una buona mezza dozzina di punti di appoggio militari in Siria per sostenere le Forze Siriane Democratiche (FSD) nella lotta anti-IS. Tuttavia l’alleanza tra le FSD e l’esercito USA, per via di opposte ideologie, viene intesa da entrambe le parti solo come un’alleanza tattico-militare contro IS. Ma che la regione ricca di materie prime controllata dalle FSD resti sottratta al potere del regime a Damasco, è assolutamente negli interessi strategici di Washington. È quindi prevedibile che anche dopo la liberazione di Raqqa e Deir ez-Zor una persistente minaccia da parte di IS sia funzionale a uno stazionamento a lungo termine di truppe USA in Siria. Ma con questo IS, nella cui creazione e diffusione gli USA hanno avuto la loro parte, avrebbe assolutamente assolto il suo dovere per i piani geostrategici di Washington.
Mentre IS è stato combattuto militarmente, è continuato il sostegno politico e militare ai gruppi vicini a Al-Qaeda in Siria, ripuliti come “ribelli moderati” dai governi e dai media occidentali. Oltre 30 milizie appartenenti nominalmente all’ESL lo scorso anno sono state riunite sotto guida turca in un Esercito Nazionale Siriano che pare conti 22.000 uomini. Di questa truppa ora firmante come mercenaria della Turchia, fanno parte raggruppamenti jihadisti come l’associazione Ahrar Al-Sham, soccombente ad al-Nusra nelle lotte per l’egemonia a Idlib, Harka Nur Al-Din Al-Zenki e Ahrar Al-Sharkija.
“Tutti i gruppi che predono parte all’offensiva turca, una volta o l’altra sono stati sostenuti e approfonditamente verificati dagli USA”, ha confermato Charles Lister del Think Tank di Washington Middle East Institute, che da tempo fornisce una lettura positiva di Al-Qaeda in Siria, rispetto ai gruppi che ora combattono per la Turchia ad Afrin. Questa constatazione non dovrebbe suscitare stupore. USA e NATO fin dagli anni ’80 si sono continuamente serviti di jihadisti come truppe ausiliarie per far passare i propri interessi geopolitici. Questo non esclude affatto che gli islamisti radicali verranno di nuovo arginati militarmente se dovessero andare fuori controllo. La lotta contro il terrorismo viene poi a sua volta usata dalla NATO per interventi militari e per la creazione di nuove basi d’appoggio in tutto il mondo. Chi si aspetta dalla NATO una lotta coerente contro Al Qaeda & Co oppure una presa di distanze dalla Turchia a causa del suo patto con gli jihadisti, non ha capito la natura di questa alleanza militare imperialista.
YENİ ÖZGÜR POLİTİKA
Versione tedesca: http://yeniozgurpolitika.org/index.php?rupel=nuce&id=83680
Versione turca: http://www.yeniozgurpolitika.org/index.php?rupel=nuce&id=83646
Fonte
Salvini torna “europeista” in scia a Berlusconi
Si è fatto una fama di “populista euroscettico” grazie a una copertura mediatica pari soltanto a quella dell’altro Matteo, ma Salvini non è affatto quello spaccamontagne (ed euro) che amerebbe essere.
Più si avvicina il giorno delle elezioni, e della possibile vittoria del centrodestra, più cerca di presentarsi non un “non problema” per chi comanda davvero. Tanto, per tenere il centro della piazza televisiva, gli basta continuare a picchiare sugli immigrati, che non hanno certo lo stesso potere dei “mercati” o dell’Unione Europea.
In un’intervista al Quotidiano Nazionale “Il Ruspa” ha chiarito che è pronto a fare tutto ciò che Berlusconi deciderà di fare: «Io rispetto i patti. Se Forza Italia prende un voto più di noi, sceglie il presidente del Consiglio. E purché accetti il programma che abbiamo firmato tutti, non ci sono veti».
Una resa senza condizioni all’ex Cavaliere, che nel frattempo ha stabilito un patto piuttosto solido con Angela Merkel, impegnandosi a rispettare tutte le direttive che l’Unione Europea invierà all’Italia (dalla “manovra correttiva” di maggio al rispetto integrale e automatico del Fiscal Compact).
Una disponibilità così larga da costringere anche un giornalista di destra moderata a cercare di capire se c’è un limite, e dunque a chiedere: “Anche se si trattasse di Tajani o di Draghi, e cioè del presidente del Parlamento europeo o del presidente della Bce?”
Risposta: «Se sceglie Forza Italia sceglie Forza Italia». Poi, per pararsi un po’ dalle possibili accuse di star facendo il fanfarone, aggiunge: “Ripeto, se condivide il programma, non ci saranno problemi”. Giusto per non dimenticare tutto: Salvini aveva spesso definito Draghi “il nuovo Monti”...
Alzi la mano chi è disposto a credere che Tajani o peggio ancora Mario Draghi si faccia dirigere da un “programma” concordato con Salvini...
A questo punto, ve ne sarete accorti da soli, non c’è più nessuno che voglia mettere in discussione i trattati europei che stanno effettivamente distruggendo il potenziale produttivo, l’occupazione e le condizioni di vita della popolazione in questo paese.
Qualche buontempone “democratico” potrebbe provare a dire che “no, c’è ancora Casapound”. Ossia nessuno, visto l’appoggio promesso a un eventuale governo Salvini in caso di un improbabile ingresso in Parlamento dei “fascisti del terzo millennio”.
L’unica alternativa vera, anche se allo stadio iniziale, è dunque Potere al Popolo, che al punto numero due del suo programma politico dice esplicitamente “Rompere l’Unione Europea dei trattati”. Perché, ripetiamo sempre, chi ancora crede che “la stanza dei bottoni” sia a Palazzo Chigi – invece che a Bruxelles – è semplicemente miope.
Stiamo lavorando sulle lenti adatte...
Fonte
Più si avvicina il giorno delle elezioni, e della possibile vittoria del centrodestra, più cerca di presentarsi non un “non problema” per chi comanda davvero. Tanto, per tenere il centro della piazza televisiva, gli basta continuare a picchiare sugli immigrati, che non hanno certo lo stesso potere dei “mercati” o dell’Unione Europea.
In un’intervista al Quotidiano Nazionale “Il Ruspa” ha chiarito che è pronto a fare tutto ciò che Berlusconi deciderà di fare: «Io rispetto i patti. Se Forza Italia prende un voto più di noi, sceglie il presidente del Consiglio. E purché accetti il programma che abbiamo firmato tutti, non ci sono veti».
Una resa senza condizioni all’ex Cavaliere, che nel frattempo ha stabilito un patto piuttosto solido con Angela Merkel, impegnandosi a rispettare tutte le direttive che l’Unione Europea invierà all’Italia (dalla “manovra correttiva” di maggio al rispetto integrale e automatico del Fiscal Compact).
Una disponibilità così larga da costringere anche un giornalista di destra moderata a cercare di capire se c’è un limite, e dunque a chiedere: “Anche se si trattasse di Tajani o di Draghi, e cioè del presidente del Parlamento europeo o del presidente della Bce?”
Risposta: «Se sceglie Forza Italia sceglie Forza Italia». Poi, per pararsi un po’ dalle possibili accuse di star facendo il fanfarone, aggiunge: “Ripeto, se condivide il programma, non ci saranno problemi”. Giusto per non dimenticare tutto: Salvini aveva spesso definito Draghi “il nuovo Monti”...
Alzi la mano chi è disposto a credere che Tajani o peggio ancora Mario Draghi si faccia dirigere da un “programma” concordato con Salvini...
A questo punto, ve ne sarete accorti da soli, non c’è più nessuno che voglia mettere in discussione i trattati europei che stanno effettivamente distruggendo il potenziale produttivo, l’occupazione e le condizioni di vita della popolazione in questo paese.
Qualche buontempone “democratico” potrebbe provare a dire che “no, c’è ancora Casapound”. Ossia nessuno, visto l’appoggio promesso a un eventuale governo Salvini in caso di un improbabile ingresso in Parlamento dei “fascisti del terzo millennio”.
L’unica alternativa vera, anche se allo stadio iniziale, è dunque Potere al Popolo, che al punto numero due del suo programma politico dice esplicitamente “Rompere l’Unione Europea dei trattati”. Perché, ripetiamo sempre, chi ancora crede che “la stanza dei bottoni” sia a Palazzo Chigi – invece che a Bruxelles – è semplicemente miope.
Stiamo lavorando sulle lenti adatte...
Fonte
Salviamo la maestra dai suoi boia
Era prevedibile. La campagna scatenata da Renzi in combutta con il Corriere della Sera contro l’insegnante torinese che grida contro i poliziotti durante la manifestazione antifascista a Torino, appartiene a quel dossier di killeraggio politico e mediatico a cui ci ha abituato il Corriere. Lo ha fatto sistematicamente in passato e lo perpetua oggi, facilitato dal clima elettorale alla ricerca di “episodi” sui quali potersi esercitare.
A farne le spese questa volta è una insegnante che durante la manifestazione che intendeva contestare un comizio dei fascisti di Casa Pound, si è beccata le cariche e gli idranti della polizia inveendo contro gli agenti.
I Renzi, i Gramellini e i cicisbei del bon ton un tanto al chilo, forse non hanno dimestichezza con le manifestazioni di piazza, non conoscono l’adrenalina (che compensa paura e reattività con quanto avviene in quel momento) e dunque la rabbia che si manifesta magari dopo aver subito una carica. In piazza, se ci sono scontri, cariche etc, si urla, ci si riempie di contumelie o di slogan che servono per tenere serrate le file, per tenere la piazza, per tenere il punto. E non si va tanto per il sottile, anche nell’uso delle parole. Parole, appunto.
Questo è avvenuto nella piazza di Torino, come in tutte le piazze dove c’è affrontamento. E’ così, da sempre.
Il fatto che una manifestante che urla contro gli agenti di polizia sia anche un’insegnante ha fatto scatenare sia il refrain sui “cattivi maestri della sinistra” con assurde richieste di licenziamento, tra l’altro per fatti o parole espresse al di fuori del contesto lavorativo. Il Miur ha fatto sapere che l’amministrazione, subito dopo avere appreso dell’accaduto, ha “attivato l’Ufficio scolastico regionale per il Piemonte che sta provvedendo ad acquisire dalla scuola della docente ulteriori informazioni per avviare i necessari approfondimenti”. Secondo la pubblicazione specialistica Tecnica della Scuola, si accerterà, inoltre, se l’insegnante si sia già resa protagonista di episodi analoghi in passato: “ciò costituirebbe un aggravante per dimostrare l’incompatibilità tra il ruolo di insegnante e quello assunto al di fuori della scuola”.
Insomma un vero e proprio tribunale speciale è in preparazione, non tanto dentro le strutture previste dal ministero, quanto un “tribunale politico e morale” fatto di uomini di governo, giornalisti, esponenti politici.
Se la si mette su questo piano, siamo allo “Stato penale/morale”, un orrore dal punto di vista dello stato di diritto. E’ una torsione che non deve passare.
Fonte
A farne le spese questa volta è una insegnante che durante la manifestazione che intendeva contestare un comizio dei fascisti di Casa Pound, si è beccata le cariche e gli idranti della polizia inveendo contro gli agenti.
I Renzi, i Gramellini e i cicisbei del bon ton un tanto al chilo, forse non hanno dimestichezza con le manifestazioni di piazza, non conoscono l’adrenalina (che compensa paura e reattività con quanto avviene in quel momento) e dunque la rabbia che si manifesta magari dopo aver subito una carica. In piazza, se ci sono scontri, cariche etc, si urla, ci si riempie di contumelie o di slogan che servono per tenere serrate le file, per tenere la piazza, per tenere il punto. E non si va tanto per il sottile, anche nell’uso delle parole. Parole, appunto.
Questo è avvenuto nella piazza di Torino, come in tutte le piazze dove c’è affrontamento. E’ così, da sempre.
Il fatto che una manifestante che urla contro gli agenti di polizia sia anche un’insegnante ha fatto scatenare sia il refrain sui “cattivi maestri della sinistra” con assurde richieste di licenziamento, tra l’altro per fatti o parole espresse al di fuori del contesto lavorativo. Il Miur ha fatto sapere che l’amministrazione, subito dopo avere appreso dell’accaduto, ha “attivato l’Ufficio scolastico regionale per il Piemonte che sta provvedendo ad acquisire dalla scuola della docente ulteriori informazioni per avviare i necessari approfondimenti”. Secondo la pubblicazione specialistica Tecnica della Scuola, si accerterà, inoltre, se l’insegnante si sia già resa protagonista di episodi analoghi in passato: “ciò costituirebbe un aggravante per dimostrare l’incompatibilità tra il ruolo di insegnante e quello assunto al di fuori della scuola”.
Insomma un vero e proprio tribunale speciale è in preparazione, non tanto dentro le strutture previste dal ministero, quanto un “tribunale politico e morale” fatto di uomini di governo, giornalisti, esponenti politici.
Se la si mette su questo piano, siamo allo “Stato penale/morale”, un orrore dal punto di vista dello stato di diritto. E’ una torsione che non deve passare.
Fonte
Gli scioperi operai del 1 marzo 1944
Continuare a ricordare ogni anno alla ricorrenza le giornate degli scioperi del 1 Marzo 1944 contro l’invasore nazifascista e che segnarono un punto di svolta nella Resistenza dimostrandone il radicamento nei settori decisivi della classe operaia delle grandi fabbriche, non serve soltanto per una indispensabile operazione della memoria.
Significa anche a riaffermare, in tempi davvero difficili per la democrazia italiana sottoposta ad attacchi molto duri, quell’origine e quelle radici: Resistenza e classe operaia restano come stelle polari, punti di riferimento, per chiunque oggi intenda ancora affermare i valori della democrazia, della libertà, del riscatto sociale, dell’eguaglianza.
Da ricordare ancora, in questo giorno così importante per la nostra memoria storica, l’efferatezza che reca sempre con sé la guerra: un monito che vale anche per l’oggi, per i pericoli d guerra totale che stiamo attraversando e, per quanto riguarda l’Italia, per combattere la tragica “voglia” dei nostri governanti di tornare a vivere nuovamente avventure colonialiste come accade nell’attualità per le vicende africane, dalla Libia al Niger.
Gli scioperi del 1 Marzo 1944 furono un atto, prima di tutto, di “fierezza operaia” anche se furono soprattutto opera di una meticolosa organizzazione politica,e i martiri che sacrificarono la loro vita nella deportazione che ne seguì vanno tenuti ancora come esempio di sacrificio e di dedizione alla causa comune della pace e della dignità umana che bisogna sempre mantenere nella nostra mente.
Ricordiamo che entrarono in sciopero, nelle diverse fasi della lotta, circa mezzo milione di operai nelle grandi fabbriche del Nord e che, tra marzo e giugno, furono deportati a Mauthausen circa 3.000 lavoratori scelti tra i gli organizzatori degli scioperi e tra i più attivi quadri politici presenti nelle fabbriche.
Proviamo allora a entrare nel merito di quella giornata producendo un minimo di ricostruzione storica.
L’Unità del 15 Marzo 1944, sotto l’occhiello : “La classe operaia all’avanguardia della lotta di liberazione nazionale” titolava : “Lo sciopero generale dell’Italia Settentrionale e Centrale è una grande battaglia vinta contro gli oppressori della Patria”.
Era quello, in estrema sintesi, il giudizio che l’organo ufficiale del Partito Comunista Italiano forniva allo sciopero delle grandi fabbriche, svoltosi il 1 Marzo di quell’anno: un vero e proprio punto di svolta nella Resistenza al Centro-Nord, di cui ricorre in questi giorni il settantunesimo anniversario, e che è necessario ricordare non soltanto per dovere di cronaca o per ricordare quanti, in quell’occasione, furono prelevati dalle fabbriche e portati nei campi di sterminio, Mauthausen in particolare.
L’intervento della Resistenza a sostegno dell’offensiva alleata del primo trimestre 1944 non si manifestò, infatti, con l’intensificata guerra partigiana sulle montagne e nelle città.
L’importanza e l’efficacia di quel contributo deve essere collegato, quando si sviluppa un tentativo di analisi storico – politica, alla vasta azione di massa condotta dalle classi lavoratrici.
Solo in quel modo, nella saldatura tra la lotta di montagna, quella di città e la presenza nelle grandi fabbriche, il movimento di Resistenza avrebbe assunto un ruolo decisivo in quella fase cruciale della guerra, alla vigilia dello sbarco in Normandia e mentre sul fronte est le truppe sovietiche stavano calando a marce forzate verso Occidente.
Ben consapevole di questa necessità d’intreccio tra i diversi livelli della lotta, fin dal Gennaio 1944, la direzione per l’Alta Italia del PCI (Longo, Secchia, Li Causi, Massola, Roasio) tenne una riunione, alla quale intervennero anche i rappresentanti dei comitati d’agitazione che avevano diretto gli scioperi nel novembre – dicembre 1943 (Colombi per il Piemonte, Grassi per la Lombardia, Scappini per la Liguria) e decise di avviare immediatamente la preparazione di uno sciopero di vaste proporzioni, costituendo a questo fine un comitato di agitazione per il Piemonte, la Lombardia e la Liguria.
L’iniziativa venne poi discussa ampiamente con gli altri partiti del CLNAI, e in particolare con il partito socialista e il partito d’azione che s’impegnarono anch’essi nel lavoro preparatorio.
Seguirono settimane d’intensa attività politica e organizzativa per mobilitare al massimo le forze operaie e per coordinare l’intervento dei GAP, non solo nelle regioni del triangolo industriale, ma anche nel Veneto, in Toscana e in Emilia; questa estensione del movimento impose alcuni rinvii della data d’inizio, che infine venne fissata per il 1 Marzo 1944.
In campo fascista (ovviamente la preparazione di una iniziativa di così grande portata non poté essere condotta in totale clandestinità) era considerata con rabbiosa inquietudine anche perché avrebbe significato di fatto il fallimento di una grossolana manovra propagandistica: la cosiddetta socializzazione della gestione delle imprese, che proprio in quei giorni (il decreto legislativo nel meritò portò la data del 12 Febbraio) il governo di Salò aveva lanciato proprio nell’intento di placare l’ostilità delle masse operaie.
Quelle masse operaie che accolsero con assoluta indifferenza il progetto di socializzazione, attorno al quale tuttavia i fascisti continuarono a orchestrare una rumorosa campagna propagandistica, sperando di riuscire così a richiamare prima o poi su di esso l’interesse dei lavoratori.
Una speranza che crollò miseramente di fronte alla prospettiva dello sciopero.
Considerata l’impossibilità di bloccare il movimento, le autorità fasciste tentarono di ridurne gli effetti diramando attraverso la stampa l’annuncio che alcune fabbriche piemontesi sarebbe rimaste chiuse per 7 giorni, a cominciare dal 1 Marzo, per mancanza di energia elettrica.
L’espediente, subito denunciato da un manifesto del comitato interregionale, non impedì che proprio a Torino e in Piemonte si registrasse una elevata partecipazione allo sciopero: 60 mila lavoratori in città e 150.000 in Regione si astennero dal lavoro.
Sin dal primo giorno lo scioperò si rivelò imponente e vide complessivamente la partecipazione di circa mezzo milione di lavoratori.
A Milano scioperarono anche le maestranze della tipografia del Corriere della Sera e per tre giorni l’organo della grande borghesia lombarda non poté uscire.
La repressione tedesca fu dovunque feroce.
L’ambasciatore Rahn ricevette personalmente da Hitler l’ordine di far deportare il 20 per cento degli scioperanti.
E anche se il mostruoso provvedimento non fu eseguito nella misura indicata per “difficoltà tecniche inerenti ai trasporti” e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica (come spiegò lo stesso Rahn) si calcola che circa 1.200 operai furono deportati nei campi di lavoro in quello di sterminio di Mauthausen.
I fascisti s’assunsero il ruolo servile di esprimere la volontà dei tedeschi, rivolgendo minacciose intimazioni agli operai che continuavano ad astenersi dal lavoro.
A Genova, il capo della provincia Basile (lo stesso personaggio che, 16 anni dopo, sarebbe stato al centro dei moti genovesi contro il governo Tambroni, per via della decisione del MSI di fargli presiedere il previsto congresso nazionale di quel Partito proprio a Genova: congresso che proprio quelle mobilitazioni di piazza impedirono che si svolgesse aprendo la strada anche alla caduta del governo che gli stessi missini stavano sostenendo) lanciò un “ultimo avviso”, minacciando – appunto – la deportazione nei campi di sterminio (si trattava, secondo lui, di mandare gli operai a “meditare sul danno arrecato alla causa della vittoria”).
Il successivo 16 Giugno 1944 in adesione a quell’ordine 1.488 operai genovesi furono deportati dopo essere stati rastrellati all’ingresso nelle fabbriche all’Ansaldo, all’Ilva, alla SIAC.
La sera stessa del 1 Marzo, a Savona, 150 operai dell’Ilva e della Scarpa e Magnano furono arrestati per essere poi avviati alla deportazione (un carico di savonesi arrivò a Mauthausen il 26 Marzo dopo essere passato per la Casa dello Studente e San Vittore): altri luoghi d’origine della deportazione furono Varese (50 deportati), Prato (dove lo sciopero fu totale e generale), Bologna.
Da Torino furono deportati 400 lavoratori (178 appartenenti alla FIAT), da Milano 500, in particolare dall’area di Sesto San Giovanni (Breda, Falck, Marelli, Ansaldo).
Dati sicuramente incompleti.
In realtà lo sciopero fu una dimostrazione imponente di forza e di volontà combattiva, fu un movimento di massa che non trova riscontro nella storia della resistenza europea.
Ai fini bellici la sua importanza non fu minore, se si pensa che per otto giorni la produzione di guerra venne completamente paralizzata in tutta l’Italia invasa.
Il che equivalse per i tedeschi a una grossa sconfitta riportata sul campo di battaglia.
Complessivamente è possibile riassumere il senso di quelle giornate (gli scioperi si conclusero come previsto dal comitato di agitazione interregionale l’8 Marzo) rileggendo quanto scritto, all’epoca dalla “Nostra Lotta”: “Lo sciopero generale politico rivendicativo del 1-8 Marzo assume un’importanza e un significato nazionali e internazionali di gran lunga superiori agli obiettivi immediati che esso si poneva; indica la strada da seguire nel prossimo avvenire in cui si annunciano grandi e decisive battaglie, in Italia e nel mondo, per l’annientamento del nazifascismo e la liberazione dei popoli. Gli operai italiani che l’hanno sostenuto, i lavoratori e i patrioti che l’hanno appoggiato, le organizzazioni che l’hanno preparato e diretto possono essere fieri e orgogliosi della grande battaglia combattuta: essa s’iscrive fra le migliori pagine della lotta dei popoli per la propria libertà e costituisce una tappa decisiva per il risorgimento della nostra patria. I sacrifici di oggi sono il prezzo e il pegno del sicuro trionfo di domani”.
Gli scioperi del 1-8 Marzo 1944 assunsero anche un significato generale di indirizzo politico della lotta di Resistenza: il proletariato aveva assunto, in quell’occasione, un senso di “responsabilità nazionale” che stava dentro alle indicazioni dei partiti che componevano il CLNAI, facendo così convivere le istanze della liberazione della classe con quelle della vittoria sul nazifascismo e dell’avvento della democrazia.
Quello fu il compito di sintesi dei grandi partiti della sinistra, il partito comunista e il partito socialista: far convivere, all’interno di un progetto che era appunto quello di un vero e proprio radicale rinnovamento della democrazia in Italia, le motivazioni di classe con quelle antifasciste in senso strettamente politico.
Un lavoro di indirizzo e di sintesi non facile, realizzato anche in forme contraddittorie, ma che alla fine ottenne un risultato fondamentale: ancor oggi possiamo, infatti, affermare che alla base di quella che è stata la democrazia repubblicana sviluppatasi nel dopoguerra in Italia e della quale sono stati pilastri fondamentali la centralità del Parlamento, i partiti di massa, il sistema elettorale proporzionale stanno le grandi lotte operaie durante e successivamente al conflitto e il ruolo sostenuto nella Resistenza dalla classe lavoratrice e dai partiti che la rappresentavano.
Fonte
Significa anche a riaffermare, in tempi davvero difficili per la democrazia italiana sottoposta ad attacchi molto duri, quell’origine e quelle radici: Resistenza e classe operaia restano come stelle polari, punti di riferimento, per chiunque oggi intenda ancora affermare i valori della democrazia, della libertà, del riscatto sociale, dell’eguaglianza.
Da ricordare ancora, in questo giorno così importante per la nostra memoria storica, l’efferatezza che reca sempre con sé la guerra: un monito che vale anche per l’oggi, per i pericoli d guerra totale che stiamo attraversando e, per quanto riguarda l’Italia, per combattere la tragica “voglia” dei nostri governanti di tornare a vivere nuovamente avventure colonialiste come accade nell’attualità per le vicende africane, dalla Libia al Niger.
Gli scioperi del 1 Marzo 1944 furono un atto, prima di tutto, di “fierezza operaia” anche se furono soprattutto opera di una meticolosa organizzazione politica,e i martiri che sacrificarono la loro vita nella deportazione che ne seguì vanno tenuti ancora come esempio di sacrificio e di dedizione alla causa comune della pace e della dignità umana che bisogna sempre mantenere nella nostra mente.
Ricordiamo che entrarono in sciopero, nelle diverse fasi della lotta, circa mezzo milione di operai nelle grandi fabbriche del Nord e che, tra marzo e giugno, furono deportati a Mauthausen circa 3.000 lavoratori scelti tra i gli organizzatori degli scioperi e tra i più attivi quadri politici presenti nelle fabbriche.
Proviamo allora a entrare nel merito di quella giornata producendo un minimo di ricostruzione storica.
L’Unità del 15 Marzo 1944, sotto l’occhiello : “La classe operaia all’avanguardia della lotta di liberazione nazionale” titolava : “Lo sciopero generale dell’Italia Settentrionale e Centrale è una grande battaglia vinta contro gli oppressori della Patria”.
Era quello, in estrema sintesi, il giudizio che l’organo ufficiale del Partito Comunista Italiano forniva allo sciopero delle grandi fabbriche, svoltosi il 1 Marzo di quell’anno: un vero e proprio punto di svolta nella Resistenza al Centro-Nord, di cui ricorre in questi giorni il settantunesimo anniversario, e che è necessario ricordare non soltanto per dovere di cronaca o per ricordare quanti, in quell’occasione, furono prelevati dalle fabbriche e portati nei campi di sterminio, Mauthausen in particolare.
L’intervento della Resistenza a sostegno dell’offensiva alleata del primo trimestre 1944 non si manifestò, infatti, con l’intensificata guerra partigiana sulle montagne e nelle città.
L’importanza e l’efficacia di quel contributo deve essere collegato, quando si sviluppa un tentativo di analisi storico – politica, alla vasta azione di massa condotta dalle classi lavoratrici.
Solo in quel modo, nella saldatura tra la lotta di montagna, quella di città e la presenza nelle grandi fabbriche, il movimento di Resistenza avrebbe assunto un ruolo decisivo in quella fase cruciale della guerra, alla vigilia dello sbarco in Normandia e mentre sul fronte est le truppe sovietiche stavano calando a marce forzate verso Occidente.
Ben consapevole di questa necessità d’intreccio tra i diversi livelli della lotta, fin dal Gennaio 1944, la direzione per l’Alta Italia del PCI (Longo, Secchia, Li Causi, Massola, Roasio) tenne una riunione, alla quale intervennero anche i rappresentanti dei comitati d’agitazione che avevano diretto gli scioperi nel novembre – dicembre 1943 (Colombi per il Piemonte, Grassi per la Lombardia, Scappini per la Liguria) e decise di avviare immediatamente la preparazione di uno sciopero di vaste proporzioni, costituendo a questo fine un comitato di agitazione per il Piemonte, la Lombardia e la Liguria.
L’iniziativa venne poi discussa ampiamente con gli altri partiti del CLNAI, e in particolare con il partito socialista e il partito d’azione che s’impegnarono anch’essi nel lavoro preparatorio.
Seguirono settimane d’intensa attività politica e organizzativa per mobilitare al massimo le forze operaie e per coordinare l’intervento dei GAP, non solo nelle regioni del triangolo industriale, ma anche nel Veneto, in Toscana e in Emilia; questa estensione del movimento impose alcuni rinvii della data d’inizio, che infine venne fissata per il 1 Marzo 1944.
In campo fascista (ovviamente la preparazione di una iniziativa di così grande portata non poté essere condotta in totale clandestinità) era considerata con rabbiosa inquietudine anche perché avrebbe significato di fatto il fallimento di una grossolana manovra propagandistica: la cosiddetta socializzazione della gestione delle imprese, che proprio in quei giorni (il decreto legislativo nel meritò portò la data del 12 Febbraio) il governo di Salò aveva lanciato proprio nell’intento di placare l’ostilità delle masse operaie.
Quelle masse operaie che accolsero con assoluta indifferenza il progetto di socializzazione, attorno al quale tuttavia i fascisti continuarono a orchestrare una rumorosa campagna propagandistica, sperando di riuscire così a richiamare prima o poi su di esso l’interesse dei lavoratori.
Una speranza che crollò miseramente di fronte alla prospettiva dello sciopero.
Considerata l’impossibilità di bloccare il movimento, le autorità fasciste tentarono di ridurne gli effetti diramando attraverso la stampa l’annuncio che alcune fabbriche piemontesi sarebbe rimaste chiuse per 7 giorni, a cominciare dal 1 Marzo, per mancanza di energia elettrica.
L’espediente, subito denunciato da un manifesto del comitato interregionale, non impedì che proprio a Torino e in Piemonte si registrasse una elevata partecipazione allo sciopero: 60 mila lavoratori in città e 150.000 in Regione si astennero dal lavoro.
Sin dal primo giorno lo scioperò si rivelò imponente e vide complessivamente la partecipazione di circa mezzo milione di lavoratori.
A Milano scioperarono anche le maestranze della tipografia del Corriere della Sera e per tre giorni l’organo della grande borghesia lombarda non poté uscire.
La repressione tedesca fu dovunque feroce.
L’ambasciatore Rahn ricevette personalmente da Hitler l’ordine di far deportare il 20 per cento degli scioperanti.
E anche se il mostruoso provvedimento non fu eseguito nella misura indicata per “difficoltà tecniche inerenti ai trasporti” e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica (come spiegò lo stesso Rahn) si calcola che circa 1.200 operai furono deportati nei campi di lavoro in quello di sterminio di Mauthausen.
I fascisti s’assunsero il ruolo servile di esprimere la volontà dei tedeschi, rivolgendo minacciose intimazioni agli operai che continuavano ad astenersi dal lavoro.
A Genova, il capo della provincia Basile (lo stesso personaggio che, 16 anni dopo, sarebbe stato al centro dei moti genovesi contro il governo Tambroni, per via della decisione del MSI di fargli presiedere il previsto congresso nazionale di quel Partito proprio a Genova: congresso che proprio quelle mobilitazioni di piazza impedirono che si svolgesse aprendo la strada anche alla caduta del governo che gli stessi missini stavano sostenendo) lanciò un “ultimo avviso”, minacciando – appunto – la deportazione nei campi di sterminio (si trattava, secondo lui, di mandare gli operai a “meditare sul danno arrecato alla causa della vittoria”).
Il successivo 16 Giugno 1944 in adesione a quell’ordine 1.488 operai genovesi furono deportati dopo essere stati rastrellati all’ingresso nelle fabbriche all’Ansaldo, all’Ilva, alla SIAC.
La sera stessa del 1 Marzo, a Savona, 150 operai dell’Ilva e della Scarpa e Magnano furono arrestati per essere poi avviati alla deportazione (un carico di savonesi arrivò a Mauthausen il 26 Marzo dopo essere passato per la Casa dello Studente e San Vittore): altri luoghi d’origine della deportazione furono Varese (50 deportati), Prato (dove lo sciopero fu totale e generale), Bologna.
Da Torino furono deportati 400 lavoratori (178 appartenenti alla FIAT), da Milano 500, in particolare dall’area di Sesto San Giovanni (Breda, Falck, Marelli, Ansaldo).
Dati sicuramente incompleti.
In realtà lo sciopero fu una dimostrazione imponente di forza e di volontà combattiva, fu un movimento di massa che non trova riscontro nella storia della resistenza europea.
Ai fini bellici la sua importanza non fu minore, se si pensa che per otto giorni la produzione di guerra venne completamente paralizzata in tutta l’Italia invasa.
Il che equivalse per i tedeschi a una grossa sconfitta riportata sul campo di battaglia.
Complessivamente è possibile riassumere il senso di quelle giornate (gli scioperi si conclusero come previsto dal comitato di agitazione interregionale l’8 Marzo) rileggendo quanto scritto, all’epoca dalla “Nostra Lotta”: “Lo sciopero generale politico rivendicativo del 1-8 Marzo assume un’importanza e un significato nazionali e internazionali di gran lunga superiori agli obiettivi immediati che esso si poneva; indica la strada da seguire nel prossimo avvenire in cui si annunciano grandi e decisive battaglie, in Italia e nel mondo, per l’annientamento del nazifascismo e la liberazione dei popoli. Gli operai italiani che l’hanno sostenuto, i lavoratori e i patrioti che l’hanno appoggiato, le organizzazioni che l’hanno preparato e diretto possono essere fieri e orgogliosi della grande battaglia combattuta: essa s’iscrive fra le migliori pagine della lotta dei popoli per la propria libertà e costituisce una tappa decisiva per il risorgimento della nostra patria. I sacrifici di oggi sono il prezzo e il pegno del sicuro trionfo di domani”.
Gli scioperi del 1-8 Marzo 1944 assunsero anche un significato generale di indirizzo politico della lotta di Resistenza: il proletariato aveva assunto, in quell’occasione, un senso di “responsabilità nazionale” che stava dentro alle indicazioni dei partiti che componevano il CLNAI, facendo così convivere le istanze della liberazione della classe con quelle della vittoria sul nazifascismo e dell’avvento della democrazia.
Quello fu il compito di sintesi dei grandi partiti della sinistra, il partito comunista e il partito socialista: far convivere, all’interno di un progetto che era appunto quello di un vero e proprio radicale rinnovamento della democrazia in Italia, le motivazioni di classe con quelle antifasciste in senso strettamente politico.
Un lavoro di indirizzo e di sintesi non facile, realizzato anche in forme contraddittorie, ma che alla fine ottenne un risultato fondamentale: ancor oggi possiamo, infatti, affermare che alla base di quella che è stata la democrazia repubblicana sviluppatasi nel dopoguerra in Italia e della quale sono stati pilastri fondamentali la centralità del Parlamento, i partiti di massa, il sistema elettorale proporzionale stanno le grandi lotte operaie durante e successivamente al conflitto e il ruolo sostenuto nella Resistenza dalla classe lavoratrice e dai partiti che la rappresentavano.
Fonte
Macron “riforma” le ferrovie in salsa italiana
In Francia, i sindacati dei ferrovieri annunciano una grande mobilitazione per il 22 marzo prossimo, decisi a farsi sentire da un governo «arrogante, vendicativo e poco disponibile ad ascoltare quelli che gli parlano e gli fanno delle domande», come dichiara il segretario della CGT, Philippe Martinez. Per lui, Emmanul Macron «vuole dividere quelli che hanno ben poco. Lo ha fatto con i pensionati e i giovani: i pensionati sarebbero dei privilegiati e i giovani non avrebbero niente. Con i lavoratori dipendenti è lo stesso: ogni volta divide quelli che hanno ben poco da quelli che non hanno nulla».
Per proporre, anzi imporre, il suo progetto di riforma delle ferrovie, il governo ascolta una sola campana, quella del rapporto dell’ex amministratore delegato di Air France, «senza chiedere il parere dei diretti interessati», ferrovieri e utenti, aggiunge Martinez, che ricorda l’atteggiamento, ben diverso, di Emmanuel Macron nei confronti degli amministratori delegati delle 140 più grandi multinazionali, esperte in evasione fiscale, ricevuti in gran pompa al castello di Versailles alla vigilia del Forum di Davos.
Al Salone dell’Agricoltura, che ha aperto le porte a Parigi sabato, Macron risponde a un ferroviere, che gli fa delle domande sulla riforma che il governo intende varare, dichiarando che non possono esserci «da un lato, degli agricoltori che non hanno una pensione e, dall’altro, dei pubblici dipendenti la cui posizione non può cambiare». Secondo Macron «sarebbe una follia» assumere ferrovieri con la stessa posizione di cinquant’anni fa, visto che il loro ritmo di lavoro, a suo avviso, è molto diverso.
Secondo la CGT, il rapporto commissionato dal governo di Edouard Philippe non mette a fuoco i veri problemi delle ferrovie francesi e le sue conclusioni non permetteranno certo di risolverli. «Sfido chiunque a dire che i problemi della SNCF – treni in ritardo, corse soppresse, cattiva manutenzione della rete ferroviaria – sono causati dai ferrovieri. Sono i governi che si sono succeduti ad aver privilegiato le linee ad alta velocità, che costano care ed hanno bisogno di partenariati con i privati. Occorre equilibrare gli investimenti e creare posti di lavoro», sottolinea Martinez.
Apertura alla concorrenza, soppressione dello statuto di pubblici dipendenti dei ferrovieri, soppressione di 9.000 km di linee secondarie, altrettante misure da prendere, secondo il portavoce del governo, senza neppure un simulacro di discussione in parlamento. Il metodo applicato per imporre la Loi Travail, una sorta di Jobs Act in versione francese, sembra difficilmente ripetibile per realizzare una “riforma” il cui obiettivo è, puramente e semplicemente, l’adeguamento dell’impresa pubblica alla logica del profitto privato già in vigore in altri paesi europei, fra cui l’Italia.
Una scommessa che Macron rischia di perdere. Lo spettro del 1995, quando i ferrovieri, con il sostegno della maggioranza della popolazione, provocano la caduta del governo Juppé e scuotendo dalla fondamenta la presidenza Chirac, plana minaccioso sulla Francia. Dopo la riforma del Codice del lavoro, i sindacati diffidano di una concertazione che serve solo a convalidare le decisioni del governo in cambio di qualche briciola. L’esecutivo rischia di ricompattare un fronte sindacale oggi diviso, di far rinascere una fronda parlamentare e, soprattutto, di mobilitare una piazza che Macron, come i suoi predecessori, ha tutti i motivi di temere.
Fonte
Per proporre, anzi imporre, il suo progetto di riforma delle ferrovie, il governo ascolta una sola campana, quella del rapporto dell’ex amministratore delegato di Air France, «senza chiedere il parere dei diretti interessati», ferrovieri e utenti, aggiunge Martinez, che ricorda l’atteggiamento, ben diverso, di Emmanuel Macron nei confronti degli amministratori delegati delle 140 più grandi multinazionali, esperte in evasione fiscale, ricevuti in gran pompa al castello di Versailles alla vigilia del Forum di Davos.
Al Salone dell’Agricoltura, che ha aperto le porte a Parigi sabato, Macron risponde a un ferroviere, che gli fa delle domande sulla riforma che il governo intende varare, dichiarando che non possono esserci «da un lato, degli agricoltori che non hanno una pensione e, dall’altro, dei pubblici dipendenti la cui posizione non può cambiare». Secondo Macron «sarebbe una follia» assumere ferrovieri con la stessa posizione di cinquant’anni fa, visto che il loro ritmo di lavoro, a suo avviso, è molto diverso.
Secondo la CGT, il rapporto commissionato dal governo di Edouard Philippe non mette a fuoco i veri problemi delle ferrovie francesi e le sue conclusioni non permetteranno certo di risolverli. «Sfido chiunque a dire che i problemi della SNCF – treni in ritardo, corse soppresse, cattiva manutenzione della rete ferroviaria – sono causati dai ferrovieri. Sono i governi che si sono succeduti ad aver privilegiato le linee ad alta velocità, che costano care ed hanno bisogno di partenariati con i privati. Occorre equilibrare gli investimenti e creare posti di lavoro», sottolinea Martinez.
Apertura alla concorrenza, soppressione dello statuto di pubblici dipendenti dei ferrovieri, soppressione di 9.000 km di linee secondarie, altrettante misure da prendere, secondo il portavoce del governo, senza neppure un simulacro di discussione in parlamento. Il metodo applicato per imporre la Loi Travail, una sorta di Jobs Act in versione francese, sembra difficilmente ripetibile per realizzare una “riforma” il cui obiettivo è, puramente e semplicemente, l’adeguamento dell’impresa pubblica alla logica del profitto privato già in vigore in altri paesi europei, fra cui l’Italia.
Una scommessa che Macron rischia di perdere. Lo spettro del 1995, quando i ferrovieri, con il sostegno della maggioranza della popolazione, provocano la caduta del governo Juppé e scuotendo dalla fondamenta la presidenza Chirac, plana minaccioso sulla Francia. Dopo la riforma del Codice del lavoro, i sindacati diffidano di una concertazione che serve solo a convalidare le decisioni del governo in cambio di qualche briciola. L’esecutivo rischia di ricompattare un fronte sindacale oggi diviso, di far rinascere una fronda parlamentare e, soprattutto, di mobilitare una piazza che Macron, come i suoi predecessori, ha tutti i motivi di temere.
Fonte
27/02/2018
Russiagate: l’inchiesta si allarga, “terra bruciata” intorno a Trump?
L’ultima notizia in ordine cronologico che riguarda l’ormai complessa vicenda del Russiagate è la decisione di Rick Gates, collaboratore di Trump ai tempi della campagna elettorale, di dichiararsi colpevole di una serie di reati di cui è accusato: frode, riciclaggio, cospirazione ai danni degli Stati Uniti d’America.
Attenzione, tra le accuse nei confronti di Gates non c’è nulla che riguarda Russiagate, ma ormai sembra abbastanza evidente la strategia del procuratore Mueller: colpire i collaboratori di Trump avvicinandosi sempre di più ad un eventuale “anello debole”, che per alcuni analisti potrebbe essere il genero di Trump, Jared Kushner.
Procediamo con ordine, partendo dall’ultimo aggiornamento: nella giornata di ieri fonti di informazione statunitensi hanno rilanciato la notizia della decisione di Rick Gates, ex consigliere di Trump durante la campagna elettorale, di dichiararsi colpevole.
Le accuse, sia quelle contro Gates che quelle contro il suo socio, Paul Manafort, anche lui consulente di Trump, fanno riferimento a qualcosa come 32 capi di imputazione: dalla frode al riciclaggio, fino ad arrivare alla cospirazione.
Come una sorta di gioco ad incastri, ecco dunque arrivare sulla scena Paul Manafort: anche lui parte dell’entourage di Trump in campagna elettorale, e legato a Gates da affari in comune.
Se Gates inizia a collaborare, Manafort finisce in guai seri. Questa appare essere la situazione: nei suoi confronti pesano accuse gravi, l’ultima delle quali coinvolge anche alcuni leader politici europei.
Manafort è infatti accusato dal procuratore Mueller di aver pagato per creare una sorta di lobby di sostegno a favore dell’Ucraina e del suo presidente Yanukovich, destituito dal golpe di Euromaidan, sostenuto tra l’altro dagli Usa. All’interno di questo filone d’inchiesta, ad un certo punto, sono venuti fuori anche i nomi dell’ex cancelliere austriaco Gusenbauer e addirittura di Romano Prodi, che ha smentito immediatamente ogni presunta attività di lobbying e qualsiasi tipo di attività segreta.
Situazione ingarbugliata, che appare chiara – paradossalmente – solo se osservata attraverso il punto di vista di Robert Mueller e della sua inchiesta: fare terra bruciata intorno a Trump e generare pressione.
In effetti sono diversi, ormai, i collaboratori di Trump coinvolti a pieno titolo nell’inchiesta: oltre ai già citati Manfort e Gates, c’è Micheal Flynn – ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale – che ha già patteggiato dichiarandosi colpevole di dichiarazioni false all’FBI rispetto ai suoi rapporti con l’ambasciatore russo negli Stati Uniti Sergey Kislyak, e che al momento è la carta migliore in mano a Mueller.
C’è George Papadopoulos, anche lui ex consigliere di Trump in campagna elettorale, anche lui autodichiaratosi colpevole di aver mentito all’FBI in merito alle presunte interazioni con i russi.
C’è Steve Bannon, di cui abbiamo già scritto in un precedente articolo: già coordinatore della campagna elettorale di Trump, poi membro del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, poi esautorato da ogni compito perché considerato troppo estremo, ma in realtà allontanato per incompatibilità con alcuni membri della famiglia Trump.
Bannon è stato convocato da Mueller a metà gennaio, e potrebbe avere anche lui qualcosa da raccontare.
Insomma, nonostante ufficialmente Trump si disinteressi di questa inchiesta, la situazione si complica ogni giorno di più.
E’ utile ricordare che il rischio principale a cui andrebbe incontro l’attuale presidente degli USA – nel caso emergesse una sua reale implicazione nel presunto dossieraggio contro la Clinton ed una sua consapevolezza di una eventuale interferenza russa (tutta da dimostrare) nelle elezioni – è la procedura di impeachment.
Fonte
Attenzione, tra le accuse nei confronti di Gates non c’è nulla che riguarda Russiagate, ma ormai sembra abbastanza evidente la strategia del procuratore Mueller: colpire i collaboratori di Trump avvicinandosi sempre di più ad un eventuale “anello debole”, che per alcuni analisti potrebbe essere il genero di Trump, Jared Kushner.
Procediamo con ordine, partendo dall’ultimo aggiornamento: nella giornata di ieri fonti di informazione statunitensi hanno rilanciato la notizia della decisione di Rick Gates, ex consigliere di Trump durante la campagna elettorale, di dichiararsi colpevole.
Le accuse, sia quelle contro Gates che quelle contro il suo socio, Paul Manafort, anche lui consulente di Trump, fanno riferimento a qualcosa come 32 capi di imputazione: dalla frode al riciclaggio, fino ad arrivare alla cospirazione.
Come una sorta di gioco ad incastri, ecco dunque arrivare sulla scena Paul Manafort: anche lui parte dell’entourage di Trump in campagna elettorale, e legato a Gates da affari in comune.
Se Gates inizia a collaborare, Manafort finisce in guai seri. Questa appare essere la situazione: nei suoi confronti pesano accuse gravi, l’ultima delle quali coinvolge anche alcuni leader politici europei.
Manafort è infatti accusato dal procuratore Mueller di aver pagato per creare una sorta di lobby di sostegno a favore dell’Ucraina e del suo presidente Yanukovich, destituito dal golpe di Euromaidan, sostenuto tra l’altro dagli Usa. All’interno di questo filone d’inchiesta, ad un certo punto, sono venuti fuori anche i nomi dell’ex cancelliere austriaco Gusenbauer e addirittura di Romano Prodi, che ha smentito immediatamente ogni presunta attività di lobbying e qualsiasi tipo di attività segreta.
Situazione ingarbugliata, che appare chiara – paradossalmente – solo se osservata attraverso il punto di vista di Robert Mueller e della sua inchiesta: fare terra bruciata intorno a Trump e generare pressione.
In effetti sono diversi, ormai, i collaboratori di Trump coinvolti a pieno titolo nell’inchiesta: oltre ai già citati Manfort e Gates, c’è Micheal Flynn – ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale – che ha già patteggiato dichiarandosi colpevole di dichiarazioni false all’FBI rispetto ai suoi rapporti con l’ambasciatore russo negli Stati Uniti Sergey Kislyak, e che al momento è la carta migliore in mano a Mueller.
C’è George Papadopoulos, anche lui ex consigliere di Trump in campagna elettorale, anche lui autodichiaratosi colpevole di aver mentito all’FBI in merito alle presunte interazioni con i russi.
C’è Steve Bannon, di cui abbiamo già scritto in un precedente articolo: già coordinatore della campagna elettorale di Trump, poi membro del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, poi esautorato da ogni compito perché considerato troppo estremo, ma in realtà allontanato per incompatibilità con alcuni membri della famiglia Trump.
Bannon è stato convocato da Mueller a metà gennaio, e potrebbe avere anche lui qualcosa da raccontare.
Insomma, nonostante ufficialmente Trump si disinteressi di questa inchiesta, la situazione si complica ogni giorno di più.
E’ utile ricordare che il rischio principale a cui andrebbe incontro l’attuale presidente degli USA – nel caso emergesse una sua reale implicazione nel presunto dossieraggio contro la Clinton ed una sua consapevolezza di una eventuale interferenza russa (tutta da dimostrare) nelle elezioni – è la procedura di impeachment.
Fonte
Arabia saudita - Cambio ai vertici del governo
Nuove purghe o semplice rimpasto degli alti vertici del regno? Dubbi
più che legittimi quando si parla dell’Arabia Saudita e, soprattutto,
visto che le sostituzioni degli alti ufficiali e dei diversi vice-ministri annunciate ieri
non sono state affatto motivate. Cambia il Capo di stato Maggiore, il
Generale Abud Rahman bin Saleh al-Bunyan, rimpiazzato dal generale
Fayyad bin Hamed al-Ruwayli e balza agli occhi la nomina di Tamadur bint
Youssef al-Ramah come vice ministra al lavoro. Sorprendente se si pensa
che è raro trovare figure femminili in posti così importanti nel regno
wahhabita, noto per il suo acceso conservatorismo religioso.
Che i decreti reali emessi ieri nascano anche con l’obiettivo di stemperare gli animi dopo le recenti purghe “anti-corruzione” decise alcuni mesi fa dal figlio di re Salman, Mohammad, appare evidente dalle nomine dei nuovi tre vice governatori scelti tra i principi Ahmed, Talal e Muqrin (fratelli di re Salman). I tre, infatti, erano stati messi da parte da quando il sovrano era salito al trono nel 2015. Emblematico, a tal riguardo, è la premiazione a vice-governatore della provincia dell’Asir del principe Turki bin Talal, fratello del principe miliardario Al-Waleed bin Talal, tra le vittime più celebri delle recenti purghe reali (è stato rilasciato solo lo scorso mese).
Tra le novità annunciate vi è anche la possibilità per le donne di potersi unire all’esercito. A patto che rispettano le condizioni pubblicate dal sito internet del Ministero della difesa: siano nate e crescite in Arabia Saudita, abbiano tra i 25 e i 35 anni, siano alte almeno 155 centimetri, non siano sposate a cittadini di un paese straniero e il loro peso e altezza siano “proporzionati”.
“Il principe ereditario Mohammed bin Salman è la persona che sta guidando il Paese e che ha cambiato le strutture del governo” ha commentato su al-Jazeera lo studioso James Dorsey del Raja Ratnam School of International Studies di Singapore. Secondo Dorsey, nel regno è in atto un cambiamento significativo perché “si è passati da una fase in cui le decisioni erano prese per consenso a quella (attuale) di un solo uomo al governo”. “Credo – ha concluso – che vedremo altri cambiamenti sia all’interno dell’amministrazione militare che in quella civile perché [Mohammd bin Salman] sta piazzando i suoi uomini e vuole proiettare una certa immagine del regno”.
Ma soprattutto, aggiungiamo noi, mostrarsi come leader “riformatore” e “modernista”. Tentativo ben riuscito se si guarda a cosa scrive di lui la stampa mainstream e come ne parlano i leader occidentali. A sostegno delle loro tesi, vi sono le recenti concessioni “rivoluzionarie” fatte alle donne, tra cui la possibilità di guidare, andare alle partite di calcio e entrare nell’esercito. Senza dimenticare poi, a inizio anno, la rimozione del divieto sui cinema. Provvedimenti che, per quanto rappresentino timidi passi in avanti, hanno però un caro prezzo internamente e soprattutto all’estero: dalle purghe (“anti-corruzione”) di alcuni mesi fa (alcune fonti parlano anche di tortura) alla guerra in Yemen, passando al finanziamento e sostegno dei gruppi radicali in Medio Oriente (Siria soprattutto) in chiave anti-Iran. Una politica che trova sempre più aperti consensi in Israele con cui Riyadh ha sempre più buoni rapporti (sebbene non ufficiali).
Ieri, intanto, l’ufficio del premier libanese Saad Hariri ha fatto sapere di aver ricevuto l’invito dell’inviato saudita Nizar al-Aloula (in visita in Libano lunedì) a recarsi in Arabia Saudita. Una notizia che sarebbe del tutto normale, pura formalità diplomatica, se non fosse altro che alcuni mesi fa fu proprio durante una visita di Hariri (longa manus saudita nel Paese dei Cedri) a Riyadh che il premier annunciò a sorpresa le sue dimissioni. L’annuncio bomba creò tensioni tra Beirut e la monarchia, con la prima che quasi all’unisono parlò di “rapimento” e di “diktat” imposti al primo ministro dai suoi padrini sauditi. La situazione si sarebbe poi tranquillizzata qualche settimana dopo quando Hariri sarebbe tornato in Libano. Il leader di al-Mustaqbal non solo avrebbe revocato poi le sue dimissioni, ma avrebbe anche preso una posizione più conciliante con gli alleati di governo, ma rivali, rappresentati dai filo-iraniani di Hezbollah. Che l’invito di al-Aloula sia un modo per riportare il loro uomo all’ordine?
Fonte
Che i decreti reali emessi ieri nascano anche con l’obiettivo di stemperare gli animi dopo le recenti purghe “anti-corruzione” decise alcuni mesi fa dal figlio di re Salman, Mohammad, appare evidente dalle nomine dei nuovi tre vice governatori scelti tra i principi Ahmed, Talal e Muqrin (fratelli di re Salman). I tre, infatti, erano stati messi da parte da quando il sovrano era salito al trono nel 2015. Emblematico, a tal riguardo, è la premiazione a vice-governatore della provincia dell’Asir del principe Turki bin Talal, fratello del principe miliardario Al-Waleed bin Talal, tra le vittime più celebri delle recenti purghe reali (è stato rilasciato solo lo scorso mese).
Tra le novità annunciate vi è anche la possibilità per le donne di potersi unire all’esercito. A patto che rispettano le condizioni pubblicate dal sito internet del Ministero della difesa: siano nate e crescite in Arabia Saudita, abbiano tra i 25 e i 35 anni, siano alte almeno 155 centimetri, non siano sposate a cittadini di un paese straniero e il loro peso e altezza siano “proporzionati”.
“Il principe ereditario Mohammed bin Salman è la persona che sta guidando il Paese e che ha cambiato le strutture del governo” ha commentato su al-Jazeera lo studioso James Dorsey del Raja Ratnam School of International Studies di Singapore. Secondo Dorsey, nel regno è in atto un cambiamento significativo perché “si è passati da una fase in cui le decisioni erano prese per consenso a quella (attuale) di un solo uomo al governo”. “Credo – ha concluso – che vedremo altri cambiamenti sia all’interno dell’amministrazione militare che in quella civile perché [Mohammd bin Salman] sta piazzando i suoi uomini e vuole proiettare una certa immagine del regno”.
Ma soprattutto, aggiungiamo noi, mostrarsi come leader “riformatore” e “modernista”. Tentativo ben riuscito se si guarda a cosa scrive di lui la stampa mainstream e come ne parlano i leader occidentali. A sostegno delle loro tesi, vi sono le recenti concessioni “rivoluzionarie” fatte alle donne, tra cui la possibilità di guidare, andare alle partite di calcio e entrare nell’esercito. Senza dimenticare poi, a inizio anno, la rimozione del divieto sui cinema. Provvedimenti che, per quanto rappresentino timidi passi in avanti, hanno però un caro prezzo internamente e soprattutto all’estero: dalle purghe (“anti-corruzione”) di alcuni mesi fa (alcune fonti parlano anche di tortura) alla guerra in Yemen, passando al finanziamento e sostegno dei gruppi radicali in Medio Oriente (Siria soprattutto) in chiave anti-Iran. Una politica che trova sempre più aperti consensi in Israele con cui Riyadh ha sempre più buoni rapporti (sebbene non ufficiali).
Ieri, intanto, l’ufficio del premier libanese Saad Hariri ha fatto sapere di aver ricevuto l’invito dell’inviato saudita Nizar al-Aloula (in visita in Libano lunedì) a recarsi in Arabia Saudita. Una notizia che sarebbe del tutto normale, pura formalità diplomatica, se non fosse altro che alcuni mesi fa fu proprio durante una visita di Hariri (longa manus saudita nel Paese dei Cedri) a Riyadh che il premier annunciò a sorpresa le sue dimissioni. L’annuncio bomba creò tensioni tra Beirut e la monarchia, con la prima che quasi all’unisono parlò di “rapimento” e di “diktat” imposti al primo ministro dai suoi padrini sauditi. La situazione si sarebbe poi tranquillizzata qualche settimana dopo quando Hariri sarebbe tornato in Libano. Il leader di al-Mustaqbal non solo avrebbe revocato poi le sue dimissioni, ma avrebbe anche preso una posizione più conciliante con gli alleati di governo, ma rivali, rappresentati dai filo-iraniani di Hezbollah. Che l’invito di al-Aloula sia un modo per riportare il loro uomo all’ordine?
Fonte
Il rapporto immigrazione-salari: economisti buonisti contro cattivisti?
Le posizioni sull’immigrazione delle principali forze politiche italiane sono note e ormai abbastanza solidificate: la chiusura totale di Salvini, la retorica legalitaria e cerchiobottista del PD e la visione tendenzialmente favorevole all’immigrazione, ma eccessivamente semplicistica, tipicamente attribuita a Laura Boldrini. Negli ultimi tempi è però emersa con sempre maggior forza la posizione di chi è a favore di una parziale o totale chiusura delle frontiere con motivazioni che si potrebbero definire “di sinistra”. Tra i contributi più recenti da parte di economisti, possiamo citare un articolo di Robert Skidelsky, un’intervista ad Aldo Barba e Massimo Pivetti, interventi di Fabio Petri e Sergio Cesaratto e uno dei tanti pronunciamenti sulla questione di Alberto Bagnai.
Tali contributi sostengono l’idea che l’afflusso di immigrati comporti una necessaria pressione al ribasso dei salari reali, che danneggerebbe i lavoratori locali e amplierebbe i margini di profitto per le imprese. Inoltre, l’immigrazione finirebbe per peggiorare ulteriormente le condizioni di fornitura dei servizi pubblici di base, come scuola e sanità, già messi a dura prova dai tagli imposti dai vincoli europei. Partendo, come scrivono, ad esempio, Barba e Pivetti, dal «riconoscimento dell’ostilità nei confronti del fenomeno da parte dei ceti popolari di tutta Europa», una sinistra che si rispetti dovrebbe giungere alla conclusione che l’unica politica possibile nei confronti del fenomeno migratorio è quella della chiusura.
Vi sono senz’altro molti elementi di verità in quanto affermato da questi autori. È senz’altro vero che l’afflusso di manodopera da altri Paesi può, in determinate condizioni, contribuire alla riduzione della forza contrattuale dei lavoratori e, dunque, a una pressione al ribasso sui salari reali. Ed è altrettanto vero che vi è una crescente insofferenza delle classi popolari nei confronti del fenomeno migratorio e che il fenomeno stesso rischia di aggravare la pressione sui servizi sociali. Le premesse del discorso, se si vuol essere realisti, sono fondate. Quel che non ci convince è la conclusione o, se si vuole, il “consiglio di policy” che viene suggerito, implicitamente o esplicitamente, da molti degli autori citati: la chiusura. Pensiamo, infatti, che tale conclusione sia influenzata dal fatto che alcuni elementi dell’analisi sono assunti in maniera ingiustificata come dati immodificabili, quando, in realtà, essi stessi derivano da determinate scelte politiche, figlie della stessa impostazione ideologica e istituzionale – il neoliberismo e i trattati europei – che gli autori giustamente contestano.
Vi sono due elementi che vanno sottolineati riguardo alla pressione al ribasso sui salari reali esercitata dagli afflussi di migranti: a) essa può essere esercitata soltanto in determinate circostanze, che non vanno assunte come dati di fatto indipendenti dalle decisioni delle autorità economiche; b) il fenomeno migratorio non è l’unico elemento che negli ultimi anni ha contribuito a tale pressione.
Riguardo al primo punto, vi sono diversi elementi che possono contribuire a far sì che l’arrivo di forza lavoro dall’esterno di un Paese contribuisca a ridurre il potere contrattuale dei lavoratori. In primo luogo, è necessario che i lavoratori stranieri si accontentino di un salario minore di quello pagato ai lavoratori interni. Che ciò avvenga è molto probabile, giacché molti degli immigrati giungono da Paesi in cui il tenore di vita è sensibilmente più basso rispetto a quello dei Paesi economicamente più avanzati. È, però, altrettanto vero che affinché la pressione al ribasso possa esercitarsi concretamente, devono verificarsi anche altre condizioni. Ad esempio, devono mancare tutele volte a garantire, in ciascun settore, un salario minimo. Oppure tali tutele, laddove presenti, devono essere aggirate tramite il ricorso a rapporti di lavoro informali, il lavoro nero. Insomma è l’afflusso di schiavi, e non semplicemente di lavoratori immigrati, ad indebolire il potere contrattuale dei lavoratori italiani: gli immigrati spingono al ribasso il salario del paese che li accoglie solo perché spogliati dei più elementari diritti.
Un altro elemento utile alla “causa” del capitale nel mettere i lavoratori gli uni contro gli altri consiste nella percezione, da parte dei lavoratori nazionali, degli immigrati come nemici giunti in Italia per “rubargli” i posti di lavoro grazie all’accettazione di un salario più basso. Tale percezione rende difficile la formazione di un fronte comune tra lavoratori italiani e stranieri ed è senz’altro ben accetta dagli imprenditori. Non è un caso che i principali quotidiani della borghesia mostrino un’apparente schizofrenia: da un lato l’esaltazione del multiculturalismo e di un mondo senza frontiere, dall’altro l’attenzione quasi morbosa ai dettagli più cruenti di reati e delitti commessi da cittadini stranieri (più spesso si assiste a una “divisione del lavoro”, probabilmente non organizzata, ma di certo funzionale, tra organi di informazione cosmopoliti-ma-legalitari e quotidiani apertamente razzisti).
Riguardo al secondo punto, vi sono diversi elementi – indipendenti dal fenomeno migratorio – che hanno contribuito, negli anni più recenti, a un notevole abbassamento della forza contrattuale dei lavoratori: la riduzione delle tutele per il mantenimento del posto di lavoro, il sempre più facile ricorso a contratti a tempo determinato, la pressoché totale libertà di movimento di merci e capitali, la riduzione della spesa pubblica e dell’offerta dei servizi essenziali da parte dello Stato, la lucida rinuncia da parte dei governi al mantenimento di un adeguato livello della domanda aggregata e al perseguimento della piena occupazione. La stessa disoccupazione è forse il più potente strumento di disciplina nei confronti dei lavoratori e il più efficace disincentivo a richiedere aumenti salariali.
Vi sono, quindi, a nostro avviso, tre distinti ma collegati elementi critici nella visione di quella che potremmo definire “sinistra cattivista” in contrapposizione al buonismo incarnato dal punto di vista della Boldrini. In primo luogo, se la preoccupazione è per la riduzione del potere contrattuale dei lavoratori, vi sono diversi fenomeni che potrebbero essere considerati come determinanti e che dovrebbero costituire l’oggetto delle critiche di chi ritiene di dover combattere la riduzione dei salari reali. L’immigrazione è soltanto uno di questi elementi. La decisione di assumere come prioritaria la battaglia a uno di questi fenomeni è una scelta politica. A nostro avviso, le lotte contro il precariato, contro i vincoli imposti dai trattati e contro la libertà dei movimenti di merci e capitali dovrebbero essere prioritarie per un’area politica interessata al miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Eventuali considerazioni sulla problematica dell’immigrazione dovrebbero sempre tener conto del fatto che essa è un problema perché l’assetto istituzionale è stato congegnato in maniera tale da ridurre al minimo il potere contrattuale dei lavoratori.
In secondo luogo, e qui troviamo la motivazione della nostra ultima affermazione, sorprende che nel momento in cui si parla di immigrazione, l’attuale cornice istituzionale sia assunta come un dato di fatto e che i consigli di policy non escano dal recinto nel quale tale assetto ha confinato il dibattito di politica economica degli ultimi anni. Sostenere che gli afflussi migratori non sono utili in quanto vi sono milioni di disoccupati sembra sacrosanto. Diventa meno ovvio quando si prende in considerazione il fatto che un così ampio numero di disoccupati non è una disgrazia che colpisce casualmente l’economia italiana, ma la conseguenza di scelte politiche ispirate all’ideologia neoliberista e sostanziatasi in quei trattati al quale i paesi dell’Unione Europea e, in particolare, dell’euro si sono legati.
Infine, riconoscere e inseguire l’insofferenza dei ceti popolari nei confronti dell’immigrazione significa assumere come dato di fatto uno degli strumenti attraverso i quali l’afflusso di immigrati crea pressione al ribasso sui salari reali: l’artificioso antagonismo tra lavoratori nazionali e lavoratori immigrati. Tale antagonismo, sommato alla diffusione del lavoro nero, contribuisce a rendere più pervasiva la competizione al ribasso sui salari reali. Laddove invece i lavoratori immigrati sono stati coinvolti nella lotta sindacale, come è avvenuto nel settore della logistica, assieme ai compagni di lavoro italiani, si è assistito a un insperato risveglio della lotta di classe di cui Abd Elsalam, immigrato morto difendendo il salario italiano, rappresenta il simbolo più nitido.
Una proposta politica che abbia come obiettivo l’aumento del potere contrattuale dei lavoratori non può che essere organica, nel senso che essa deve prendere in considerazione tutti gli elementi che esercitano effetti avversi su tale potere contrattuale. Essa deve quindi mirare contemporaneamente a invertire la rotta di politica economica imposta da decenni di egemonia culturale neoliberista, combattere il lavoro nero e il lavoro precario, costruire la solidarietà tra lavoratori nazionali e immigrati e superare la gestione emergenziale dell’immigrazione, ristabilire il ruolo dello Stato nel perseguimento della piena occupazione attraverso la ri-pubblicizzazione delle imprese privatizzate e il sostegno alla domanda aggregata tramite la spesa pubblica e la redistribuzione del reddito. Ad oggi, ci sembra che l’unico programma che tenga conto di tutte queste istanze sia quello proposto da Potere al Popolo.
Fonte
Tali contributi sostengono l’idea che l’afflusso di immigrati comporti una necessaria pressione al ribasso dei salari reali, che danneggerebbe i lavoratori locali e amplierebbe i margini di profitto per le imprese. Inoltre, l’immigrazione finirebbe per peggiorare ulteriormente le condizioni di fornitura dei servizi pubblici di base, come scuola e sanità, già messi a dura prova dai tagli imposti dai vincoli europei. Partendo, come scrivono, ad esempio, Barba e Pivetti, dal «riconoscimento dell’ostilità nei confronti del fenomeno da parte dei ceti popolari di tutta Europa», una sinistra che si rispetti dovrebbe giungere alla conclusione che l’unica politica possibile nei confronti del fenomeno migratorio è quella della chiusura.
Vi sono senz’altro molti elementi di verità in quanto affermato da questi autori. È senz’altro vero che l’afflusso di manodopera da altri Paesi può, in determinate condizioni, contribuire alla riduzione della forza contrattuale dei lavoratori e, dunque, a una pressione al ribasso sui salari reali. Ed è altrettanto vero che vi è una crescente insofferenza delle classi popolari nei confronti del fenomeno migratorio e che il fenomeno stesso rischia di aggravare la pressione sui servizi sociali. Le premesse del discorso, se si vuol essere realisti, sono fondate. Quel che non ci convince è la conclusione o, se si vuole, il “consiglio di policy” che viene suggerito, implicitamente o esplicitamente, da molti degli autori citati: la chiusura. Pensiamo, infatti, che tale conclusione sia influenzata dal fatto che alcuni elementi dell’analisi sono assunti in maniera ingiustificata come dati immodificabili, quando, in realtà, essi stessi derivano da determinate scelte politiche, figlie della stessa impostazione ideologica e istituzionale – il neoliberismo e i trattati europei – che gli autori giustamente contestano.
Vi sono due elementi che vanno sottolineati riguardo alla pressione al ribasso sui salari reali esercitata dagli afflussi di migranti: a) essa può essere esercitata soltanto in determinate circostanze, che non vanno assunte come dati di fatto indipendenti dalle decisioni delle autorità economiche; b) il fenomeno migratorio non è l’unico elemento che negli ultimi anni ha contribuito a tale pressione.
Riguardo al primo punto, vi sono diversi elementi che possono contribuire a far sì che l’arrivo di forza lavoro dall’esterno di un Paese contribuisca a ridurre il potere contrattuale dei lavoratori. In primo luogo, è necessario che i lavoratori stranieri si accontentino di un salario minore di quello pagato ai lavoratori interni. Che ciò avvenga è molto probabile, giacché molti degli immigrati giungono da Paesi in cui il tenore di vita è sensibilmente più basso rispetto a quello dei Paesi economicamente più avanzati. È, però, altrettanto vero che affinché la pressione al ribasso possa esercitarsi concretamente, devono verificarsi anche altre condizioni. Ad esempio, devono mancare tutele volte a garantire, in ciascun settore, un salario minimo. Oppure tali tutele, laddove presenti, devono essere aggirate tramite il ricorso a rapporti di lavoro informali, il lavoro nero. Insomma è l’afflusso di schiavi, e non semplicemente di lavoratori immigrati, ad indebolire il potere contrattuale dei lavoratori italiani: gli immigrati spingono al ribasso il salario del paese che li accoglie solo perché spogliati dei più elementari diritti.
Un altro elemento utile alla “causa” del capitale nel mettere i lavoratori gli uni contro gli altri consiste nella percezione, da parte dei lavoratori nazionali, degli immigrati come nemici giunti in Italia per “rubargli” i posti di lavoro grazie all’accettazione di un salario più basso. Tale percezione rende difficile la formazione di un fronte comune tra lavoratori italiani e stranieri ed è senz’altro ben accetta dagli imprenditori. Non è un caso che i principali quotidiani della borghesia mostrino un’apparente schizofrenia: da un lato l’esaltazione del multiculturalismo e di un mondo senza frontiere, dall’altro l’attenzione quasi morbosa ai dettagli più cruenti di reati e delitti commessi da cittadini stranieri (più spesso si assiste a una “divisione del lavoro”, probabilmente non organizzata, ma di certo funzionale, tra organi di informazione cosmopoliti-ma-legalitari e quotidiani apertamente razzisti).
Riguardo al secondo punto, vi sono diversi elementi – indipendenti dal fenomeno migratorio – che hanno contribuito, negli anni più recenti, a un notevole abbassamento della forza contrattuale dei lavoratori: la riduzione delle tutele per il mantenimento del posto di lavoro, il sempre più facile ricorso a contratti a tempo determinato, la pressoché totale libertà di movimento di merci e capitali, la riduzione della spesa pubblica e dell’offerta dei servizi essenziali da parte dello Stato, la lucida rinuncia da parte dei governi al mantenimento di un adeguato livello della domanda aggregata e al perseguimento della piena occupazione. La stessa disoccupazione è forse il più potente strumento di disciplina nei confronti dei lavoratori e il più efficace disincentivo a richiedere aumenti salariali.
Vi sono, quindi, a nostro avviso, tre distinti ma collegati elementi critici nella visione di quella che potremmo definire “sinistra cattivista” in contrapposizione al buonismo incarnato dal punto di vista della Boldrini. In primo luogo, se la preoccupazione è per la riduzione del potere contrattuale dei lavoratori, vi sono diversi fenomeni che potrebbero essere considerati come determinanti e che dovrebbero costituire l’oggetto delle critiche di chi ritiene di dover combattere la riduzione dei salari reali. L’immigrazione è soltanto uno di questi elementi. La decisione di assumere come prioritaria la battaglia a uno di questi fenomeni è una scelta politica. A nostro avviso, le lotte contro il precariato, contro i vincoli imposti dai trattati e contro la libertà dei movimenti di merci e capitali dovrebbero essere prioritarie per un’area politica interessata al miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Eventuali considerazioni sulla problematica dell’immigrazione dovrebbero sempre tener conto del fatto che essa è un problema perché l’assetto istituzionale è stato congegnato in maniera tale da ridurre al minimo il potere contrattuale dei lavoratori.
In secondo luogo, e qui troviamo la motivazione della nostra ultima affermazione, sorprende che nel momento in cui si parla di immigrazione, l’attuale cornice istituzionale sia assunta come un dato di fatto e che i consigli di policy non escano dal recinto nel quale tale assetto ha confinato il dibattito di politica economica degli ultimi anni. Sostenere che gli afflussi migratori non sono utili in quanto vi sono milioni di disoccupati sembra sacrosanto. Diventa meno ovvio quando si prende in considerazione il fatto che un così ampio numero di disoccupati non è una disgrazia che colpisce casualmente l’economia italiana, ma la conseguenza di scelte politiche ispirate all’ideologia neoliberista e sostanziatasi in quei trattati al quale i paesi dell’Unione Europea e, in particolare, dell’euro si sono legati.
Infine, riconoscere e inseguire l’insofferenza dei ceti popolari nei confronti dell’immigrazione significa assumere come dato di fatto uno degli strumenti attraverso i quali l’afflusso di immigrati crea pressione al ribasso sui salari reali: l’artificioso antagonismo tra lavoratori nazionali e lavoratori immigrati. Tale antagonismo, sommato alla diffusione del lavoro nero, contribuisce a rendere più pervasiva la competizione al ribasso sui salari reali. Laddove invece i lavoratori immigrati sono stati coinvolti nella lotta sindacale, come è avvenuto nel settore della logistica, assieme ai compagni di lavoro italiani, si è assistito a un insperato risveglio della lotta di classe di cui Abd Elsalam, immigrato morto difendendo il salario italiano, rappresenta il simbolo più nitido.
Una proposta politica che abbia come obiettivo l’aumento del potere contrattuale dei lavoratori non può che essere organica, nel senso che essa deve prendere in considerazione tutti gli elementi che esercitano effetti avversi su tale potere contrattuale. Essa deve quindi mirare contemporaneamente a invertire la rotta di politica economica imposta da decenni di egemonia culturale neoliberista, combattere il lavoro nero e il lavoro precario, costruire la solidarietà tra lavoratori nazionali e immigrati e superare la gestione emergenziale dell’immigrazione, ristabilire il ruolo dello Stato nel perseguimento della piena occupazione attraverso la ri-pubblicizzazione delle imprese privatizzate e il sostegno alla domanda aggregata tramite la spesa pubblica e la redistribuzione del reddito. Ad oggi, ci sembra che l’unico programma che tenga conto di tutte queste istanze sia quello proposto da Potere al Popolo.
Fonte
Siria - Tregua di 5 ore al giorno a Ghouta est
di Roberto Prinzi
“Un inferno sulla terra”. Così ha descritto ieri la situazione nella Ghouta orientale pesantemente colpita da giorni dal governo siriano il Segretario generale dell’Onu. In un suo discorso al Consiglio dei diritti umani di Ginevra, Antonio Gueteress ha ricordato a tutte le parti coinvolte nel conflitto siriano “il loro obbligo assoluto di proteggere la popolazione e le infrastrutture civili” chiarendo che “gli sforzi per combattere il terrorismo non possono sostituire tali impegni”.
Della necessità del cessate il fuoco ha parlato ieri anche la rappresentante della politica estera dell’Unione Europea, Federica Mogherini, che ha chiesto a Russia, Turchia e Iran di “lavorare per l’implementazione della risoluzione del Consiglio dell’Onu e, in particolare, per la realizzazione delle de-escalation zone decise ad Astana”.
Ma le parole della politica sono cadute nel vuoto ancora una volta, però, perché la tregua raggiunta sabato non è mai stata implementata: dalla Ghouta (Damasco) alla curda Ifrin e al bubbone jihadista di Idlib (a nord) fino ad est ad Deir Ezzor si continua a combattere e a morire.
E non servirà a niente la “pausa umanitaria” di cinque ore al giorno in vigore a partire da oggi dalle 9 alle 14 annunciata dal presidente russo Putin nella Ghouta, il sobborgo della capitale siriana controllato dai qaedisti dell’ex Fronte an-Nusra. Uno stop alle violenze (irrisorio) concepito, ha spiegato ieri il ministro della difesa russo Shoigu, “per evitare vittime civili”.
Una tregua temporanea che sa di beffa delle oltre 400.000 persone che vivono da tempo sotto le bombe di al-Asad e i suoi alleati e sono vittime di un doppio assedio, governativo e delle forze di opposizione. Che la situazione sia disperata in quest’area intorno alla capitale lo sa bene anche Guterres che ieri, sempre da Ginevra, ha detto “che non bisogna più aspettare” perché “è ora di porre fine a questo inferno sulla terra”.
Il problema è come Guteress. Ma soprattutto: c’è davvero la volontà politica di farlo? Mosca ieri ha affiancato alla sua “tregua”di cinque ore anche l’impegno a far partire corridoi umanitari non spiegando però come verranno consegnati gli aiuti ai civili della Ghouta senza ormai più cibo e acqua da giorni. La Commissione internazionale della Croce Rossa ha fatto sapere che vede con favore ogni misura che permette a “chi vuole andarsene [da lì] la possibilità di farlo”. Tuttavia, ha ammonito la portavoce Iolanda Jaquemet, bisogna fare molto di più: “Abbiamo necessità di convogli umanitari per portare lì rifornimenti vitali: medicine, cibo, materiale sanitario e quello per purificare l’acqua. I bisogni umanitari per i 400.000 abitanti sono enormi”.
Come si potrà aiutare la popolazione civile al momento resta una grossa incognita. Quel che è certo che alle pie promesse della politiche si contrappone l’amara realtà quotidiana: secondo fonti dell’opposizione – non verificabili indipendentemente – ieri sono morte altre dieci persone a causa dei raid governativi (520 le vittime dal 18 febbraio scorso, sostiene l’Osservatorio siriano, ong di stanza a Londra e vicina alle forze anti-Asad).
Rispetto alle illusioni umanitarie del Cremlino, molto più onesto è stato l’Iran che ha ripetuto ieri che l’offensiva sul sobborgo damasceno continuerà perché è rivolta contro i qaedisti di an-Nusra (a cui fanno capo altre 4 formazioni islamiste Jaish al-Islam, Ahrar al-Sham, Fajr al-Ummah e Feilak ar-Rahman). In effetti, è la stessa vaghezza della tregua di sabato a offrire scappatoie “legali” a ciascun potenza, regionale o meno che sia, per continuare le sue violenze per i propri tornaconti. Lo stop ai combattimenti, infatti, esclude ufficialmente l’Isis e al-Qa’eda, ma ciascun gruppo ha il suo proprio demone “terrorista” da eliminare. O almeno presunto tale.
Un clima ideale per la Turchia che ieri, con il premier turco Bozdag, ha ribadito la sua volontà di chiudere la partita contro i curdi di Afrin. Una battaglia legittima, ha chiarito, perché “condotta contro i terroristi”. A prendere parte ai combattimenti, ha poi annunciato Ankara, saranno anche i Falcons, un'unità formata da 600 combattenti curdi. Un particolare, quello dell’etnicità del battaglione, che non è affatto irrilevante. Erdogan può infatti così riconfermare la sua narrazione sull’operazione “Ramoscello d’Ulivo”: la sua è una campagna “anti-terrorista”, non contro i curdi tout court. “I terroristi ad Afrin e quelli venuti da fuori a sostenerli, a prescindere dalle loro origini, saranno sconfitti” ha tuonato oggi il capo di Stato maggiore turco, il Generale Hulusi Akar durante una visita alla provincia di Hatay (sud Turchia). Insomma i curdi siriani delle unità Ypg e Ypj vanno sconfitti quanto prima. Costi quel che costi. Fino alla fine. Nonostante gli inviti, che restano però solo tali, delle Nazioni Unite a porre fine ai combattimenti in Siria.
Ma alla fiera dell’orrore siriano non vuole mancare proprio nessuno, tutti marcano il cartellino con il sangue. A partire dagli Usa che domenica hanno ucciso 25 civili ad Albu Kamal (confine con l’Iraq) e ieri altre 29 persone a Deir Ezzor, dove è ancora presente quel che poco che resta del “califfato islamico”. Washington bombarda ed è responsabile da mesi di stragi terribili, ma le sue bombe mortifere non hanno suscitato (e suscitano) la stessa indignazione presso i media occidentali e le cancellerie occidentali come quelle che piovono sul Ghouta. Eppure si chieda agli abitanti della Raqqa liberata dai curdi del Rojava con il sostegno aereo a stelle e strisce quanti lutti hanno dovuto piangere per mesi nell’indifferenza della cosiddetta comunità internazionale. Sono i civili siriani (tutti) a starci veramente a cuore o la loro strumentalizzazione per fini geopolitici?
E secondo il governo siriano mietono vittime anche la categoria del tutto inventata dalle capitali occidentali dei “ribelli moderati”: nelle ultime ore i loro attacchi hanno ucciso 4 civili a Tell Salhab (Hama) e 14 ad Idlib.
Altri morti, altri numeri senza nome che si vanno ad aggiungere alle oltre 400.000 vittime di questo conflitto la cui fine appare ancora troppo lontana.
Fonte
“Un inferno sulla terra”. Così ha descritto ieri la situazione nella Ghouta orientale pesantemente colpita da giorni dal governo siriano il Segretario generale dell’Onu. In un suo discorso al Consiglio dei diritti umani di Ginevra, Antonio Gueteress ha ricordato a tutte le parti coinvolte nel conflitto siriano “il loro obbligo assoluto di proteggere la popolazione e le infrastrutture civili” chiarendo che “gli sforzi per combattere il terrorismo non possono sostituire tali impegni”.
Della necessità del cessate il fuoco ha parlato ieri anche la rappresentante della politica estera dell’Unione Europea, Federica Mogherini, che ha chiesto a Russia, Turchia e Iran di “lavorare per l’implementazione della risoluzione del Consiglio dell’Onu e, in particolare, per la realizzazione delle de-escalation zone decise ad Astana”.
Ma le parole della politica sono cadute nel vuoto ancora una volta, però, perché la tregua raggiunta sabato non è mai stata implementata: dalla Ghouta (Damasco) alla curda Ifrin e al bubbone jihadista di Idlib (a nord) fino ad est ad Deir Ezzor si continua a combattere e a morire.
E non servirà a niente la “pausa umanitaria” di cinque ore al giorno in vigore a partire da oggi dalle 9 alle 14 annunciata dal presidente russo Putin nella Ghouta, il sobborgo della capitale siriana controllato dai qaedisti dell’ex Fronte an-Nusra. Uno stop alle violenze (irrisorio) concepito, ha spiegato ieri il ministro della difesa russo Shoigu, “per evitare vittime civili”.
Una tregua temporanea che sa di beffa delle oltre 400.000 persone che vivono da tempo sotto le bombe di al-Asad e i suoi alleati e sono vittime di un doppio assedio, governativo e delle forze di opposizione. Che la situazione sia disperata in quest’area intorno alla capitale lo sa bene anche Guterres che ieri, sempre da Ginevra, ha detto “che non bisogna più aspettare” perché “è ora di porre fine a questo inferno sulla terra”.
Il problema è come Guteress. Ma soprattutto: c’è davvero la volontà politica di farlo? Mosca ieri ha affiancato alla sua “tregua”di cinque ore anche l’impegno a far partire corridoi umanitari non spiegando però come verranno consegnati gli aiuti ai civili della Ghouta senza ormai più cibo e acqua da giorni. La Commissione internazionale della Croce Rossa ha fatto sapere che vede con favore ogni misura che permette a “chi vuole andarsene [da lì] la possibilità di farlo”. Tuttavia, ha ammonito la portavoce Iolanda Jaquemet, bisogna fare molto di più: “Abbiamo necessità di convogli umanitari per portare lì rifornimenti vitali: medicine, cibo, materiale sanitario e quello per purificare l’acqua. I bisogni umanitari per i 400.000 abitanti sono enormi”.
Come si potrà aiutare la popolazione civile al momento resta una grossa incognita. Quel che è certo che alle pie promesse della politiche si contrappone l’amara realtà quotidiana: secondo fonti dell’opposizione – non verificabili indipendentemente – ieri sono morte altre dieci persone a causa dei raid governativi (520 le vittime dal 18 febbraio scorso, sostiene l’Osservatorio siriano, ong di stanza a Londra e vicina alle forze anti-Asad).
Rispetto alle illusioni umanitarie del Cremlino, molto più onesto è stato l’Iran che ha ripetuto ieri che l’offensiva sul sobborgo damasceno continuerà perché è rivolta contro i qaedisti di an-Nusra (a cui fanno capo altre 4 formazioni islamiste Jaish al-Islam, Ahrar al-Sham, Fajr al-Ummah e Feilak ar-Rahman). In effetti, è la stessa vaghezza della tregua di sabato a offrire scappatoie “legali” a ciascun potenza, regionale o meno che sia, per continuare le sue violenze per i propri tornaconti. Lo stop ai combattimenti, infatti, esclude ufficialmente l’Isis e al-Qa’eda, ma ciascun gruppo ha il suo proprio demone “terrorista” da eliminare. O almeno presunto tale.
Un clima ideale per la Turchia che ieri, con il premier turco Bozdag, ha ribadito la sua volontà di chiudere la partita contro i curdi di Afrin. Una battaglia legittima, ha chiarito, perché “condotta contro i terroristi”. A prendere parte ai combattimenti, ha poi annunciato Ankara, saranno anche i Falcons, un'unità formata da 600 combattenti curdi. Un particolare, quello dell’etnicità del battaglione, che non è affatto irrilevante. Erdogan può infatti così riconfermare la sua narrazione sull’operazione “Ramoscello d’Ulivo”: la sua è una campagna “anti-terrorista”, non contro i curdi tout court. “I terroristi ad Afrin e quelli venuti da fuori a sostenerli, a prescindere dalle loro origini, saranno sconfitti” ha tuonato oggi il capo di Stato maggiore turco, il Generale Hulusi Akar durante una visita alla provincia di Hatay (sud Turchia). Insomma i curdi siriani delle unità Ypg e Ypj vanno sconfitti quanto prima. Costi quel che costi. Fino alla fine. Nonostante gli inviti, che restano però solo tali, delle Nazioni Unite a porre fine ai combattimenti in Siria.
Ma alla fiera dell’orrore siriano non vuole mancare proprio nessuno, tutti marcano il cartellino con il sangue. A partire dagli Usa che domenica hanno ucciso 25 civili ad Albu Kamal (confine con l’Iraq) e ieri altre 29 persone a Deir Ezzor, dove è ancora presente quel che poco che resta del “califfato islamico”. Washington bombarda ed è responsabile da mesi di stragi terribili, ma le sue bombe mortifere non hanno suscitato (e suscitano) la stessa indignazione presso i media occidentali e le cancellerie occidentali come quelle che piovono sul Ghouta. Eppure si chieda agli abitanti della Raqqa liberata dai curdi del Rojava con il sostegno aereo a stelle e strisce quanti lutti hanno dovuto piangere per mesi nell’indifferenza della cosiddetta comunità internazionale. Sono i civili siriani (tutti) a starci veramente a cuore o la loro strumentalizzazione per fini geopolitici?
E secondo il governo siriano mietono vittime anche la categoria del tutto inventata dalle capitali occidentali dei “ribelli moderati”: nelle ultime ore i loro attacchi hanno ucciso 4 civili a Tell Salhab (Hama) e 14 ad Idlib.
Altri morti, altri numeri senza nome che si vanno ad aggiungere alle oltre 400.000 vittime di questo conflitto la cui fine appare ancora troppo lontana.
Fonte
Etichette:
Afrin,
Bombardamenti,
Curdi,
Emergenza umanitaria,
Geopolitica,
Ghouta,
Guerra,
Internazionale,
Iran,
Jihadisti,
Medio Oriente,
ONU,
Russia,
Siria,
USA,
Vittime civili
Linee guida per un “rispettabile catechismo antifascista”
La vulgata corrente, inseguendo la politica che a sua volta, priva di qualsiasi connotazione non solo ideologica, ma che abbia anche un solo barlume di finalità e orizzonte, insegue la cronaca , cosicchè essa stessa diviene direttamente “programma”, “proposta”; e dunque, seguendo questi umori, è tornata al centro della cronaca la modalità in cui dev’essere vissuta l’esperienza e la pratica antifascista nel paese reale. Il dibattito che s’è susseguito su tutti i media, dalla tv ai giornali, fino ai social network, la moderna agorà dei nostri tempi, ci ha portato ad elaborare queste brevi linee guida per un antifascimo adatto ai tempi che stiamo vivendo, rispettabile delle diverse sensibilità del paese, dunque un antifascismo che tenga conto della sensibilità degli stessi fascisti, nel nome dei principi di democrazia e libertà che ispirano la nostra democrazia. Un antifascismo ecunemico. I punti principali sono questi:
1) Se uno con la testa rasata e simboli nazisti tatuati va in giro a sparare a tutti i “negri” che incontra, non speculare vigliaccamente sul suo disagio psichico e sociale, cerca di immedesimarti per una volta senza esser offuscato da posizioni novecentesche ormai superate. E’ una persona che va aiutata, protetta, reinserita, non un fascista con intenti terroristici.
2) Se uno con la testa rasata e simboli nazisti tatuati va in giro a pestare stranieri con spranghe e catene, non gridare subito al fascismo, sta solo riscoprendo e tutelando la sua identità nazionale, troppo schiacciata dal globalismo che tu, privilegiato di sinistra, non comprendi dal tuo salotto.
3) Se uno con la testa rasata e simboli nazisti tatuati insieme ad altri dieci energumeni come lui, ti accerchia e ti spacca la faccia, lasciandoti con un solo incisivo in bocca, sorridi deforme: hai vinto tu. La tua superiorità morale ti farà re dei social e avrai il plauso di Grasso e Mentana. Forse anche una breve intervista di 1 minuto in collegamento con Floris.
4) Se solo negli ultimi 3 anni le aggressioni di questi tizi sono quantificate in 108 (pestaggi, accoltellamenti), senza andare più indietro che sennò non basterebbero queste poche righe (gli omicidi di Dax e Renato Biagetti, solo per dirne due, vi ricordano qualcosa?) si tratta di un chiaro disagio sociale, o delinquenti comuni, o incompresi e figli dell’abbandono periferico da parte delle sinistre (è sempre colpa tua, ricorda), ma non essere banale a chiamarli fascisti. Se esistono è perché esistono gli antifascisti, no? Gli opposti estremismi.
5) Se sei “antifascista” per default, in quanto dotato di tessera ANPI e tessera ARCI, e qualcuno usa metodi violenti contro un fascista, devi immediatamente ricordare a tutti che è da fascisti menare un fascista, perché sei contrario alla violenza in generale, da qualsiasi parte provenga e che la violenza va punita dalla LEGGE.
6) In un paese senza memoria la prova di democrazia non la devono dare loro, i fascisti, tocca a te. Sei democratico? Sei democratico?!
Fonte
1) Se uno con la testa rasata e simboli nazisti tatuati va in giro a sparare a tutti i “negri” che incontra, non speculare vigliaccamente sul suo disagio psichico e sociale, cerca di immedesimarti per una volta senza esser offuscato da posizioni novecentesche ormai superate. E’ una persona che va aiutata, protetta, reinserita, non un fascista con intenti terroristici.
2) Se uno con la testa rasata e simboli nazisti tatuati va in giro a pestare stranieri con spranghe e catene, non gridare subito al fascismo, sta solo riscoprendo e tutelando la sua identità nazionale, troppo schiacciata dal globalismo che tu, privilegiato di sinistra, non comprendi dal tuo salotto.
3) Se uno con la testa rasata e simboli nazisti tatuati insieme ad altri dieci energumeni come lui, ti accerchia e ti spacca la faccia, lasciandoti con un solo incisivo in bocca, sorridi deforme: hai vinto tu. La tua superiorità morale ti farà re dei social e avrai il plauso di Grasso e Mentana. Forse anche una breve intervista di 1 minuto in collegamento con Floris.
4) Se solo negli ultimi 3 anni le aggressioni di questi tizi sono quantificate in 108 (pestaggi, accoltellamenti), senza andare più indietro che sennò non basterebbero queste poche righe (gli omicidi di Dax e Renato Biagetti, solo per dirne due, vi ricordano qualcosa?) si tratta di un chiaro disagio sociale, o delinquenti comuni, o incompresi e figli dell’abbandono periferico da parte delle sinistre (è sempre colpa tua, ricorda), ma non essere banale a chiamarli fascisti. Se esistono è perché esistono gli antifascisti, no? Gli opposti estremismi.
5) Se sei “antifascista” per default, in quanto dotato di tessera ANPI e tessera ARCI, e qualcuno usa metodi violenti contro un fascista, devi immediatamente ricordare a tutti che è da fascisti menare un fascista, perché sei contrario alla violenza in generale, da qualsiasi parte provenga e che la violenza va punita dalla LEGGE.
6) In un paese senza memoria la prova di democrazia non la devono dare loro, i fascisti, tocca a te. Sei democratico? Sei democratico?!
Fonte
Il Sud colonia tedesca. La questione meridionale oggi
La questione meridionale si arricchisce di un nuovo corposo contributo, «Sud colonia tedesca» (Ediesse 2017), di Andrea Del Monaco che nelle circa 300 pagine descrive con puntuale dettaglio il dimezzamento della spesa in conto capitale nel Mezzogiorno e la mancata crescita del PIL meridionale negli ultimi 20 anni, bloccato ai livelli del 1996. «La spesa in conto capitale della Pubblica Amministrazione nel Mezzogiorno, al netto delle partite finanziarie, nel 2001 era pari a 25 miliardi, 1,6% del PIL. Scende progressivamente fino ad arrivare nel 2014 a 13,2 miliardi, lo 0,9 del PIL e risale leggermente nel 2015 a 15,5 miliardi, l’1% del PIL, solo per la chiusura dei programmi operativi 2007-2013».
La tesi di fondo è che il divario Nord-Sud non può essere recuperato persistendo le politiche di austerità e il libro percorre da Maastricht, nel 1992, ad oggi la nascita e le modificazioni dei trattati comunitari, la loro interpretazione, non sempre oggettiva ed equanime nei confronti dei diversi Paesi e i diversi istituti a cui i governi hanno deciso di aderire. Descrive quindi il significato e le implicazioni del Patto di Stabilità, la sua correzione, il sistema sanzionatorio, il Fiscal Compact introdotto nella nostra Costituzione nel 2012, la stretta sui vincoli di Bilancio. Il sistema di regole dell’UE non è equanime. Quando Francia e Germania hanno superato il rapporto deficit/PIL non sono state aperte procedure di infrazione e contro questo trattamento di favore insorse Romano Prodi, allora a capo della Commissione, con un ricorso alla Corte di Giustizia che gli diede parzialmente ragione. Mentre il governo Berlusconi votava contro la procedura di infrazione verso la Germania. Nel 2012 per salvare le banche francesi e tedesche dall’insolvenza della Grecia il nostro paese ha pagato un contributo di 58 miliardi ai vari strumenti Salva-Stati “bruciando” l’avanzo primario con cui aveva chiuso il bilancio annuale. Il libro descrive in dettaglio come i finanziamenti europei che dovevano essere spesi per l’85% al Sud, sono stati dirottati per altri scopi. Si riporta il caso del governo Renzi «che ha utilizzato 3,5 miliardi delle risorse destinate del Piano di Azione e Coesione... a copertura degli oneri connessi agli sgravi contributivi per assunzioni a tempo indeterminato decorrenti dal 1 gennaio 2015». Distrazione di cui ha chiesto conto il presidente della Puglia Emiliano senza ricevere alcuna risposta.
Ma più recentemente il governo ha ottenuto di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2019 e ha rinviato la grande maggioranza della spesa dei finanziamenti europei, circa 49 miliardi, a quella data col rischio che possa non essere utilizzata per la coesione.
Quale è l’impatto dell’austerità sul Mezzogiorno e sulle politiche di sviluppo? «Sicuramente la fine delle politiche redistributive dal Nord al Sud Italia... Politiche espansive consentono flussi redistributivi diretti verso il Mezzogiorno le cui regioni beneficiano di una spesa pubblica superiore alla propria capacità fiscale. Al contrario politiche di consolidamento dei conti pubblici che redistribuiscano gli oneri di consolidamento tra le singole regioni riducono la redistribuzione e aumentano i divari regionali. Dal 2012 questa tendenza si è aggravata».
Del Monaco smentisce l’opinione prevalente sulla spending review: «in questi anni essa è stata predicata, non è stata realizzata e tanto meno definita. Nel contempo l’austerità ha drasticamente ridotto l’intervento pubblico. Di conseguenza la cosiddetta “austerità espansiva” ha ridotto la spesa pubblica ma non ha generato né la riduzione delle tasse, né una speranza di riduzione delle tasse che aumentasse i consumi; l’austerità espansiva è miseramente fallita perché ha ignorato il dualismo del sistema produttivo italiano; l’allargarsi del dualismo Nord-Sud ha prodotto un crollo del mercato interno che ha nuociuto anche al Nord».
Si mette in evidenza anche uno sbilanciamento tra le possibilità dei diversi Paesi: la Germania, ad esempio, può prestare molto di più di quanto gli altri paesi più deboli possono restituire. Interessante anche l’istituto del vendor financing: banche tedesche prestano denaro alle nostre banche, il denaro viene usato per il credito a consumo (es. auto tedesche) con un doppio vantaggio per la Germania che così continua a veder crescere l’avanzo nella bilancia dei pagamenti. Si potrà obiettare che non siamo obbligati ad usare il denaro per i consumi piuttosto che per investimenti strutturali.
Si palesa chiaramente che senza una inversione di rotta, la UE e l’Euro siano destinati ad esplodere.
L’autore propone un nuovo Keynesismo: finanziare un nuovo intervento pubblico mirato tramite il deficit e ridurre il divario Nord-Sud, considerando che se si fa un deficit mirato agli investimenti aumenta anche il PIL più di quanto aumenti il debito e ciò consentirebbe di rispettare anche i parametri europei. La “nuova macroeconomia classica” si poggia su un assioma indimostrabile; che il mercato è istantaneamente e sempre in equilibrio”, da qui deriva che anche il mercato del lavoro è in equilibrio e quindi la non occupazione, come viene chiamata questa disoccupazione, non dipende dalla crisi dell’economia reale ma dalle regole che “irrigidiscono” il rapporto tra domanda e offerta di lavoro. Di questo passo però «le regole ottimali non differiranno di molto da quelle dell’antica economia schiavistica (il principale fattore distintivo rimanendo la non obbligatorietà di mantenere in vita il lavoratore)».
Andrea Del Monaco non misconosce alcune difficoltà da superare: la lentezza della burocrazia nell’utilizzare i fondi europei, la criminalità, la corruzione, l'inutilità di alcuni progetti (aggiungiamo noi) ma soprattutto la carenza di politici con una visione su cosa far produrre all’Italia. Criminalità e corruzione – sostiene Del Monaco – sono mali che richiedono interventi di lungo periodo. Circa la visione viene ripresa una proposta del professor Marco Canesi del Politecnico di Milano nel suo «I porti del Mezzogiorno chiavi di un nuovo sviluppo», in cui studiando la trasformazione dei trasporti mondiali si candida il Sud con i suoi porti a costituire una diversa possibilità di accesso delle merci in Europa. Si tratta di una possibilità legata solo ad una volontà politica nazionale ed europea, che intenda davvero ridurre la diseguaglianza dilagante, all’interno dell’Europa, sospendendo l’austerità, e che rischia di farla deflagrare.
Fonte
La tesi di fondo è che il divario Nord-Sud non può essere recuperato persistendo le politiche di austerità e il libro percorre da Maastricht, nel 1992, ad oggi la nascita e le modificazioni dei trattati comunitari, la loro interpretazione, non sempre oggettiva ed equanime nei confronti dei diversi Paesi e i diversi istituti a cui i governi hanno deciso di aderire. Descrive quindi il significato e le implicazioni del Patto di Stabilità, la sua correzione, il sistema sanzionatorio, il Fiscal Compact introdotto nella nostra Costituzione nel 2012, la stretta sui vincoli di Bilancio. Il sistema di regole dell’UE non è equanime. Quando Francia e Germania hanno superato il rapporto deficit/PIL non sono state aperte procedure di infrazione e contro questo trattamento di favore insorse Romano Prodi, allora a capo della Commissione, con un ricorso alla Corte di Giustizia che gli diede parzialmente ragione. Mentre il governo Berlusconi votava contro la procedura di infrazione verso la Germania. Nel 2012 per salvare le banche francesi e tedesche dall’insolvenza della Grecia il nostro paese ha pagato un contributo di 58 miliardi ai vari strumenti Salva-Stati “bruciando” l’avanzo primario con cui aveva chiuso il bilancio annuale. Il libro descrive in dettaglio come i finanziamenti europei che dovevano essere spesi per l’85% al Sud, sono stati dirottati per altri scopi. Si riporta il caso del governo Renzi «che ha utilizzato 3,5 miliardi delle risorse destinate del Piano di Azione e Coesione... a copertura degli oneri connessi agli sgravi contributivi per assunzioni a tempo indeterminato decorrenti dal 1 gennaio 2015». Distrazione di cui ha chiesto conto il presidente della Puglia Emiliano senza ricevere alcuna risposta.
Ma più recentemente il governo ha ottenuto di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2019 e ha rinviato la grande maggioranza della spesa dei finanziamenti europei, circa 49 miliardi, a quella data col rischio che possa non essere utilizzata per la coesione.
Quale è l’impatto dell’austerità sul Mezzogiorno e sulle politiche di sviluppo? «Sicuramente la fine delle politiche redistributive dal Nord al Sud Italia... Politiche espansive consentono flussi redistributivi diretti verso il Mezzogiorno le cui regioni beneficiano di una spesa pubblica superiore alla propria capacità fiscale. Al contrario politiche di consolidamento dei conti pubblici che redistribuiscano gli oneri di consolidamento tra le singole regioni riducono la redistribuzione e aumentano i divari regionali. Dal 2012 questa tendenza si è aggravata».
Del Monaco smentisce l’opinione prevalente sulla spending review: «in questi anni essa è stata predicata, non è stata realizzata e tanto meno definita. Nel contempo l’austerità ha drasticamente ridotto l’intervento pubblico. Di conseguenza la cosiddetta “austerità espansiva” ha ridotto la spesa pubblica ma non ha generato né la riduzione delle tasse, né una speranza di riduzione delle tasse che aumentasse i consumi; l’austerità espansiva è miseramente fallita perché ha ignorato il dualismo del sistema produttivo italiano; l’allargarsi del dualismo Nord-Sud ha prodotto un crollo del mercato interno che ha nuociuto anche al Nord».
Si mette in evidenza anche uno sbilanciamento tra le possibilità dei diversi Paesi: la Germania, ad esempio, può prestare molto di più di quanto gli altri paesi più deboli possono restituire. Interessante anche l’istituto del vendor financing: banche tedesche prestano denaro alle nostre banche, il denaro viene usato per il credito a consumo (es. auto tedesche) con un doppio vantaggio per la Germania che così continua a veder crescere l’avanzo nella bilancia dei pagamenti. Si potrà obiettare che non siamo obbligati ad usare il denaro per i consumi piuttosto che per investimenti strutturali.
Si palesa chiaramente che senza una inversione di rotta, la UE e l’Euro siano destinati ad esplodere.
L’autore propone un nuovo Keynesismo: finanziare un nuovo intervento pubblico mirato tramite il deficit e ridurre il divario Nord-Sud, considerando che se si fa un deficit mirato agli investimenti aumenta anche il PIL più di quanto aumenti il debito e ciò consentirebbe di rispettare anche i parametri europei. La “nuova macroeconomia classica” si poggia su un assioma indimostrabile; che il mercato è istantaneamente e sempre in equilibrio”, da qui deriva che anche il mercato del lavoro è in equilibrio e quindi la non occupazione, come viene chiamata questa disoccupazione, non dipende dalla crisi dell’economia reale ma dalle regole che “irrigidiscono” il rapporto tra domanda e offerta di lavoro. Di questo passo però «le regole ottimali non differiranno di molto da quelle dell’antica economia schiavistica (il principale fattore distintivo rimanendo la non obbligatorietà di mantenere in vita il lavoratore)».
Andrea Del Monaco non misconosce alcune difficoltà da superare: la lentezza della burocrazia nell’utilizzare i fondi europei, la criminalità, la corruzione, l'inutilità di alcuni progetti (aggiungiamo noi) ma soprattutto la carenza di politici con una visione su cosa far produrre all’Italia. Criminalità e corruzione – sostiene Del Monaco – sono mali che richiedono interventi di lungo periodo. Circa la visione viene ripresa una proposta del professor Marco Canesi del Politecnico di Milano nel suo «I porti del Mezzogiorno chiavi di un nuovo sviluppo», in cui studiando la trasformazione dei trasporti mondiali si candida il Sud con i suoi porti a costituire una diversa possibilità di accesso delle merci in Europa. Si tratta di una possibilità legata solo ad una volontà politica nazionale ed europea, che intenda davvero ridurre la diseguaglianza dilagante, all’interno dell’Europa, sospendendo l’austerità, e che rischia di farla deflagrare.
Fonte
Breve storia politica di Emma Bonino
Nonostante oltre 40 anni di “onorato servizio” anticomunista, c’è ancora “a sinistra” chi guarda con un velo di comprensione i radicali, partitino ormai liqueso e raggrumato quasi soltanto intorno alla figura di Emma Bonino.
Il punto “ideologico” – in senso stretto – che consente a una concezione del mondo iperliberista e imperialista di farsi strada nelle teste di molta gente che si considera progressista (o addirittura “antagonista”) è la difesa dei diritti civili.
Per un paese ancora in gran parte fascista e bigotto, questa sembra una grande conquista. E lo è, almeno in parte, perché ognuno deve poter essere libero fare scelte che valgono soltanto per se stesso, senza una “autorità morale-religiosa” che gli imponga dei divieti in base a princìpi che non condivide.
Questa ovvia e scontata difesa delle libertà individuali – ammessa senza problemi in molti paesi che non brillano certo per progressismo sul piano sociale – fa da velo, spesso accecante alla comprensione del vero ruolo politico dei “radicali”. Impedendo di vedere che questa “difesa dei diritti civili” va a sostituire, da 40 anni a questa parte, i diritti sociali. Ossia diritti del lavoratore, sanità pubblica gratuita o quasi, istruzione pubblica di qualità, pensioni, ecc.
Dal punto di vista capitalistico, o delle imprese di qualsiasi dimensione, è la quadratura del cerchio. Si “concede” quello che è già tuo (la tua libertà di esprimerti e vivere) e si toglie quello che permette a tutti di vivere in modo dignitoso. Non è un mistero infatti che i diritti civili siano gratuiti mentre quelli sociali comportano un costo economico, che va affrontato dalla sfera pubblica con la politica fiscale.
Questo gustoso ritratto della carriera politica di Emma Bonino contribuisce a chiarire la disinvoltura con cui questo micro-partito molto mediatizzato ha attraversato la controriforma liberista del modello sociale europeo negli ultimi decenni.
Buona lettura.
Emma Bonino viene eletta in parlamento nel 1994 sotto il simbolo del “Polo delle Libertà”, e si iscrive al gruppo parlamentare di Forza Italia. Si tratta del partito di Previti e Dell’Utri, arrivato al governo insieme alla Lega di Bossi e ai post-fascisti di Fini.
Da B. viene nominata alla Commissione Europea, da cui però si deve dimettere per uno scandalo di corruzione riguardante un suo collega. Ma non c’è problema: nel giro di pochi mesi, grazie alla vendita delle frequenze di Radio Radicale 2 (il cui valore era stato costruito da anni di ingenti finanziamenti pubblici) e di altri patrimoni di partito (anch’essi pompati dal finanziamento pubblico), Emma Bonino mette in piedi la più grande operazione pubblicitaria sulla politica mai vista in Italia, oltre 24 miliardi di lire in spot elettorali e materiali vari, che le fruttano l’8% alle europee.
Ovviamente la Lista Bonino smette di esistere il giorno dopo, e il Garante della Privacy la condanna per abusi nella gestione di indirizzi e-mail e numeri di telefono, ma intanto i seggi sono stati portati a casa, aderiscono allo stesso gruppo di Lega e Fiamma Tricolore e vengono utilizzati per sostenere vigorosamente le guerre coloniali americane in Kosovo e Afghanistan.
Per tutto questo tempo, Emma Bonino resta parte organica della destra berlusconiana, condividendo tutte le porcherie, le leggi ad personam, i tagli a scuola e sanità, le clientele, le ruberie, tutto.
Dopo oltre un decennio di militanza convinta nella destra berlusconiana, Emma Bonino annusa l’aria, guarda i sondaggi, e visto il calo di popolarità di B., passa armi e bagagli al centrosinistra. La sua lista “Rosa nel Pugno” insieme ai socialisti porta a casa il solito ridicolo 2%, ma grazie al premio di maggioranza conquistato dagli alleati, arrivano comunque un bel po’ di seggi in parlamento e per Emma, addirittura, un posto da ministra.
Due anni dopo, quando nasce il Pd e dichiara guerra ai piccoli partiti, il suo piccolo partito non ha problemi a sopravvivere: si accorda col Pd e si accaparra un bel po’ di posti sicuri nelle liste bloccate, dall’alto del suo 1%.
Nel 2010, inspiegabilmente, da esponente di quello che è probabilmente il più piccolo partito italiano, viene candidata a presidente del Lazio, e nonostante l’ultimo presidente di destra del Lazio sia sotto processo, Bonino riesce a perdere contro l’impresentabile Renata Polverini.
Ovviamente non passa neanche un giorno a fare opposizione nel Lazio, per non perdere il suo scranno in senato. E lo utilizza per cosa? Dall’opposizione lancia una incredibile battaglia “femminista” per alzare l’età pensionabile delle donne. In conseguenza di ciò, sosterrà convintamente il governo Monti, compresi pareggio di bilancio, riforma Fornero, ecc.
Nel 2013, la sua lista alle elezioni politiche prende lo 0,19% (meno di Forza Nuova e del Partito Comunista dei Lavoratori di Ferrando). In conseguenza di questo straordinario risultato, poche settimane dopo le elezioni diventa nuovamente ministra, questa volta addirittura degli esteri! E alla fine della legislatura, si mette alla testa di una lista civetta del Pd chiamata “+Europa”.
Nonostante il numero di firme da raccogliere per potersi presentare sia bassissimo (tant’è che sono riuscite a raccoglierle non solo Potere al Popolo, ma anche CasaPound, Forza Nuova, il Partito Comunista di Rizzo, la lista trotzkista di Ferrando e Bellotti, “Il Popolo della Famiglia” di Adinolfi, e il mitico “Partito Valore Umano”), Emma Bonino non ha nessuna intenzione di sporcarsi le mani, e, in coerenza con le sue battaglie laiche e libertarie, si fa prestare il simbolo dal democristiano Tabacci.
Si presenta ora alle elezioni con un programma ridicolo, che promette investimenti in ricerca e ambiente dopo aver detto nella prima pagina che intende bloccare completamente la spesa pubblica.
Le ricette che propone sono sempre le stesse: privatizzare tutto, far indebitare i cittadini, renderli licenziabili e senza alcun sostegno pubblico, farli lavorare fino a 90 anni, far pagare loro qualsiasi servizio e tenerli pronti a partire per qualsiasi guerra coloniale americana in giro per il mondo. Il tutto dietro alla cortina fumogena della legalizzazione delle droghe leggere e dei diritti civili, temi sui quali Emma Bonino e i suoi non hanno portato a casa un singolo risultato in 25 anni, pur essendo stati praticamente sempre al governo.
25 anni di trasformismo e opportunismo, di assenza totale di qualsiasi tipo di consenso popolare, di complicità con i peggiori governi di questo paese, non si cancellano con un po’ di propaganda. Se sei un elettore di sinistra, progressista, democratico, e giustamente non ti fidi del Pd di Renzi, hai tante altre scelte, informati, decidi con la tua testa, ma non cadere nella trappola di Emma Bonino.
E ricordati: Elsa Fornero vota Emma Bonino. E secondo me, nel segreto dell’urna, pure Mario Monti. Pacciani è morto, altrimenti probabilmente facevamo il tris...
Fonte
Il punto “ideologico” – in senso stretto – che consente a una concezione del mondo iperliberista e imperialista di farsi strada nelle teste di molta gente che si considera progressista (o addirittura “antagonista”) è la difesa dei diritti civili.
Per un paese ancora in gran parte fascista e bigotto, questa sembra una grande conquista. E lo è, almeno in parte, perché ognuno deve poter essere libero fare scelte che valgono soltanto per se stesso, senza una “autorità morale-religiosa” che gli imponga dei divieti in base a princìpi che non condivide.
Questa ovvia e scontata difesa delle libertà individuali – ammessa senza problemi in molti paesi che non brillano certo per progressismo sul piano sociale – fa da velo, spesso accecante alla comprensione del vero ruolo politico dei “radicali”. Impedendo di vedere che questa “difesa dei diritti civili” va a sostituire, da 40 anni a questa parte, i diritti sociali. Ossia diritti del lavoratore, sanità pubblica gratuita o quasi, istruzione pubblica di qualità, pensioni, ecc.
Dal punto di vista capitalistico, o delle imprese di qualsiasi dimensione, è la quadratura del cerchio. Si “concede” quello che è già tuo (la tua libertà di esprimerti e vivere) e si toglie quello che permette a tutti di vivere in modo dignitoso. Non è un mistero infatti che i diritti civili siano gratuiti mentre quelli sociali comportano un costo economico, che va affrontato dalla sfera pubblica con la politica fiscale.
Questo gustoso ritratto della carriera politica di Emma Bonino contribuisce a chiarire la disinvoltura con cui questo micro-partito molto mediatizzato ha attraversato la controriforma liberista del modello sociale europeo negli ultimi decenni.
Buona lettura.
*****
Emma Bonino viene eletta in parlamento nel 1994 sotto il simbolo del “Polo delle Libertà”, e si iscrive al gruppo parlamentare di Forza Italia. Si tratta del partito di Previti e Dell’Utri, arrivato al governo insieme alla Lega di Bossi e ai post-fascisti di Fini.
Da B. viene nominata alla Commissione Europea, da cui però si deve dimettere per uno scandalo di corruzione riguardante un suo collega. Ma non c’è problema: nel giro di pochi mesi, grazie alla vendita delle frequenze di Radio Radicale 2 (il cui valore era stato costruito da anni di ingenti finanziamenti pubblici) e di altri patrimoni di partito (anch’essi pompati dal finanziamento pubblico), Emma Bonino mette in piedi la più grande operazione pubblicitaria sulla politica mai vista in Italia, oltre 24 miliardi di lire in spot elettorali e materiali vari, che le fruttano l’8% alle europee.
Ovviamente la Lista Bonino smette di esistere il giorno dopo, e il Garante della Privacy la condanna per abusi nella gestione di indirizzi e-mail e numeri di telefono, ma intanto i seggi sono stati portati a casa, aderiscono allo stesso gruppo di Lega e Fiamma Tricolore e vengono utilizzati per sostenere vigorosamente le guerre coloniali americane in Kosovo e Afghanistan.
Per tutto questo tempo, Emma Bonino resta parte organica della destra berlusconiana, condividendo tutte le porcherie, le leggi ad personam, i tagli a scuola e sanità, le clientele, le ruberie, tutto.
Dopo oltre un decennio di militanza convinta nella destra berlusconiana, Emma Bonino annusa l’aria, guarda i sondaggi, e visto il calo di popolarità di B., passa armi e bagagli al centrosinistra. La sua lista “Rosa nel Pugno” insieme ai socialisti porta a casa il solito ridicolo 2%, ma grazie al premio di maggioranza conquistato dagli alleati, arrivano comunque un bel po’ di seggi in parlamento e per Emma, addirittura, un posto da ministra.
Due anni dopo, quando nasce il Pd e dichiara guerra ai piccoli partiti, il suo piccolo partito non ha problemi a sopravvivere: si accorda col Pd e si accaparra un bel po’ di posti sicuri nelle liste bloccate, dall’alto del suo 1%.
Nel 2010, inspiegabilmente, da esponente di quello che è probabilmente il più piccolo partito italiano, viene candidata a presidente del Lazio, e nonostante l’ultimo presidente di destra del Lazio sia sotto processo, Bonino riesce a perdere contro l’impresentabile Renata Polverini.
Ovviamente non passa neanche un giorno a fare opposizione nel Lazio, per non perdere il suo scranno in senato. E lo utilizza per cosa? Dall’opposizione lancia una incredibile battaglia “femminista” per alzare l’età pensionabile delle donne. In conseguenza di ciò, sosterrà convintamente il governo Monti, compresi pareggio di bilancio, riforma Fornero, ecc.
Nel 2013, la sua lista alle elezioni politiche prende lo 0,19% (meno di Forza Nuova e del Partito Comunista dei Lavoratori di Ferrando). In conseguenza di questo straordinario risultato, poche settimane dopo le elezioni diventa nuovamente ministra, questa volta addirittura degli esteri! E alla fine della legislatura, si mette alla testa di una lista civetta del Pd chiamata “+Europa”.
Nonostante il numero di firme da raccogliere per potersi presentare sia bassissimo (tant’è che sono riuscite a raccoglierle non solo Potere al Popolo, ma anche CasaPound, Forza Nuova, il Partito Comunista di Rizzo, la lista trotzkista di Ferrando e Bellotti, “Il Popolo della Famiglia” di Adinolfi, e il mitico “Partito Valore Umano”), Emma Bonino non ha nessuna intenzione di sporcarsi le mani, e, in coerenza con le sue battaglie laiche e libertarie, si fa prestare il simbolo dal democristiano Tabacci.
Si presenta ora alle elezioni con un programma ridicolo, che promette investimenti in ricerca e ambiente dopo aver detto nella prima pagina che intende bloccare completamente la spesa pubblica.
Le ricette che propone sono sempre le stesse: privatizzare tutto, far indebitare i cittadini, renderli licenziabili e senza alcun sostegno pubblico, farli lavorare fino a 90 anni, far pagare loro qualsiasi servizio e tenerli pronti a partire per qualsiasi guerra coloniale americana in giro per il mondo. Il tutto dietro alla cortina fumogena della legalizzazione delle droghe leggere e dei diritti civili, temi sui quali Emma Bonino e i suoi non hanno portato a casa un singolo risultato in 25 anni, pur essendo stati praticamente sempre al governo.
25 anni di trasformismo e opportunismo, di assenza totale di qualsiasi tipo di consenso popolare, di complicità con i peggiori governi di questo paese, non si cancellano con un po’ di propaganda. Se sei un elettore di sinistra, progressista, democratico, e giustamente non ti fidi del Pd di Renzi, hai tante altre scelte, informati, decidi con la tua testa, ma non cadere nella trappola di Emma Bonino.
E ricordati: Elsa Fornero vota Emma Bonino. E secondo me, nel segreto dell’urna, pure Mario Monti. Pacciani è morto, altrimenti probabilmente facevamo il tris...
Fonte
Iscriviti a:
Post (Atom)